Maddalena Vaglio Tanet, in libreria con “Tornare dal bosco”, su ilLibraio.it riflette sul ruolo dei boschi e delle foreste nelle opere letterarie classiche e in quelle più recenti, citando numerose autrici e autori, romanzi, fiabe e poesie

Nel libro che ho scritto, una maestra esce di casa come ogni giorno ma poi, invece di andare a scuola, entra nel bosco. Ha letto sul giornale una notizia che riguarda una sua allieva e che l’ha sconvolta. La maestra non ha figli e non è sposata. È una donna apprezzata e tranquilla, ma è anche inserita in maniera imperfetta nel tessuto sociale. Le capita di pensare a se stessa come a una vite spanata che non fa presa e non coincide del tutto con la sua impronta. Come molte figure solitarie e appartate, finisce per fare un’esperienza radicale del margine, non soltanto sociale, ma proprio fisico e psicologico: si nasconde nel bosco, visitata da ricordi, allucinazioni, forse fantasmi. La maestra stessa è “scomparsa”, sta in bilico tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi. Finché qualcuno la trova e lascia che, lentamente, lei decida da quale parte andare.

Il bosco è un topos dell’altrove che attraversa la letteratura tutta intera e, prima e in parallelo, il folklore. Ho riflettuto sovente su questo, mentre scrivevo. La storia delle selve letterarie è troppo lunga, ramificata e folta di esempi per mapparla tutta, quindi mi concentrerò sui testi e sugli autori che sono stati importanti per il mio lavoro, cercando di tracciare qualche sentiero.

“L’ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l’accademie”, scrive Vico nella Scienza Nuova. Qui la selva non è soltanto uno spazio ferino e incolto, ma rappresenta anche il tempo primigenio, ancestrale, in cui l’uomo non doveva essere molto dissimile dalla bestia. L’opposto della selva è l’accademia, vertice culturale della città, cioè dello spazio antropizzato e civilizzato, retto dalla ragione umana e quindi anche teatro delle sue perversioni.

Spesso, nelle opere letterarie, la caratterizzazione della foresta è determinata dal giudizio sulla sua antitesi: la società, il consesso umano, l’uomo in quanto creatura dotata di moralità e razionalità. Il bosco può essere pernicioso e funesto (la selva di Dante, simbolo dello smarrimento interiore; la foresta in cui Orlando impazzisce d’amore e perde il senno; la landa boschiva in cui Viviana intrappola Merlino) oppure benigno, per quanto aspro e potenzialmente letale (London, Thoreau, Rigoni Stern, fino ad arrivare a Paolo Cognetti). Naturalmente, nei grandi testi non c’è nulla di schematico e di conseguenza il ruolo del bosco si rivela sottilmente ambiguo, o ambivalente. E così, del resto, accade anche al di fuori della pagina, nella realtà.

Per lunghi secoli l’uomo ha lottato con il bosco per ricavare per sé pascoli, terre da arare e coltivare, appezzamenti su cui costruire; e tuttavia il bosco è sempre stato utilissimo nel fornire legname, ghiande con cui ingrassare i maiali, miele, castagne e nocciole, resine, selvaggina. Nella letteratura medievale, la foresta è il labirinto arboreo in cui ci si perde, si incontrano bestie feroci, briganti, stregoni. Eppure, proprio perché sregolata e selvaggia, la foresta è anche il teatro delle grandi avventure e delle grandi passioni (che in quella società sono sempre fedifraghe e clandestine – penso a Tristano e Isotta). E quando la legge dell’uomo è decaduta o è amministrata da personaggi perversi, ecco che il bosco diventa occasione di scampo e riscatto: su questo rovesciamento si fonda la leggenda di Robin Hood, il fuorilegge etico, il brigante buono capace di opporsi all’iniquità del potere.

Proviamo a fare un grande balzo in avanti. Nella letteratura della Resistenza, i boschi, le valli alte, le montagne, i luoghi impervi, offrono un’opportunità simile: se il potere è malefico e violento, occorre prima di tutto eluderlo, negarsi a esso. Nel lessico militare, l’imboscato è colui che si sottrae alla leva. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, imboscarsi ha costituito il primo atto della Resistenza, e questo vale anche per figure indimenticabili come i partigiani di Fenoglio: Johnny e Milton su tutti.

Nel mio caso, credo che abbiano agito in particolare due idee di bosco: il bosco delle fiabe classiche, raccolte dai Grimm, e il bosco assoluto e rarefatto che si incontra nelle poesie di Giorgio Caproni.

Quando leggiamo Il franco cacciatore e Il conte di Kevenhüller di Caproni, la selva ci appare come il “luogo non giurisdizionale” per eccellenza, dove dimora tutto ciò che è agro, misterioso, ma ebbro di vita. Lì l’uomo ricorda di essere ospite del pianeta, soggetto alle leggi di natura, e riconosce in se stesso la materia animale, vegetale, minerale, persino astrale, da cui proviene (come essere vivente, come specie). Il bosco è insomma l’anti-storia, si oppone ai “lidi cementizi”, ai consumi, alle abitudini incrostate. Gli uomini nel bosco vanno a caccia, inseguono una Bestia introvabile e ineffabile, e girano in tondo, perché in realtà stanno cacciando loro stessi. Come recita la brevissima Per le spicce: “L’ultima mia proposta è questa: / se volete trovarvi, / perdetevi nella foresta.”

Tutti conosciamo a menadito Cappuccetto Rosso e Hänsel e Gretel. Nelle fiabe dei Grimm, il bosco è il luogo carnivoro in cui i bambini vengono abbandonati alla mercè del lupo, della strega, dell’orco. Tuttavia, ancora una volta, quando gli uomini sono minacciosi o malvagi il bosco rappresenta la salvezza, il rifugio (ad esempio in fiabe come Ucceltrovato, La vecchia nel bosco, Fratellino e Sorellina, ma anche Biancaneve sopravvive perché il bosco la nasconde alla regina).

Più in generale, nelle fiabe e nei miti, l’ingresso nel bosco è la forma sia letterale che metaforica di un rito di iniziazione: il fanciullo viene spedito al di là, oltre i confini del noi, incontro al non-umano rispetto a cui il bambino non è ancora del tutto estraneo e con cui sa ancora comunicare (a volte, infatti, si tramuta in animale o in arbusto).

Nella selva il bambino entra da solo. Ci entra per smarrirsi, cioè per smarrire se stesso. Nessun bambino esce mai vivo dai boschi delle fiabe, perché nel bosco l’infanzia perisce, torna indietro l’adulto. Come spiega Giorgia Grilli nel suo bel saggio Di cosa parlano i libri per bambini, le fiabe, così come i capolavori moderni della letteratura per l’infanzia, ritraggono la crescita come un passaggio periglioso, solenne, drammatico, esaltante. A noi, persone adulte, sia il selvatico che l’infanzia offrono una formidabile e radicale occasione di straniamento, e quindi di ripensamento. “Morire sarà un’avventura terribilmente grande”, esclama Peter Pan, genio di un’isola selvaggia, ragazzino che non può crescere e che per questo non uscirà mai dal bosco.

Tornare dal bosco Maddalena Vaglio Tanet

IL LIBRO E L’AUTRICE – Maddalena Vaglio Tanet, classe 1985, ha studiato letteratura all’Università di Pisa e alla Scuola Normale. Si è poi trasferita a New York per un dottorato alla Columbia University. Adesso abita a Maastricht e lavora come scout letteraria. Ha pubblicato poesie in italiano e tedesco, oltre a libri illustrati come Il cavolo di Troia e altri miti sbagliati (Rizzoli).

Veniamo ora alla trama del suo primo romanzo, Tornare dal bosco (Marsilio): in una piccola comunità piemontese dell’inizio degli anni Settanta, la maestra Silvia esce di casa una mattina e invece di andare a scuola entra nel bosco. Il motivo, o forse il movente, è la morte di una sua ex alunna. Non la morte: il suicidio. La comunità la cerca, ma teme che sia troppo tardi, per trovarla o per salvarla, e in qualche modo che queste due morti siano una maledizione. Si teme il contagio di una violenza tutta umana e mai sopita, una violenza che dopo due guerre mondiali si è trasfusa un una guerra civile, politica. La maestra però non si trova e il paese, per continuare a vivere e convivere con il lutto e l’incertezza, si distoglie. In questa distrazione Martino tagliando per il bosco incrocia un capanno abbandonato dove si nasconde la maestra. Il bambino non dice di averla trovata, e la maestra non parla; ma il bambino torna e la maestra, in fondo, lo aspetta. A partire da fatti reali e racconti di famiglia, articoli di giornali, dicerie e mitologie, Maddalena Vaglio Tanet racconta una storia di possibilità e di fantasmi, di esseri viventi che inciampano in vicende più grandi di loro, e di bambini dei quali non si sa niente, se non che sono gli unici a sapere quanta realtà ci sia nelle fiabe, quanto amore stia nella paura e quante sorprese restino acquattate nel bosco.

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