Uno dei più “prepotenti motori del secolo poetico italiano”, dice di lui Giorgio Caproni. Il Meridiano Mondadori dedicato a Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 12 gennaio 1888 – Savona, 31 ottobre 1967) è un’operazione critica che sgombra da alcuni malintesi e semplificazioni, a partire dall’idea di uno Sbarbaro come autore “facile”, provinciale, che scrive poco. Parliamo invece di un poeta che, tra le altre cose, ha firmato alcuni dei testi più belli della letteratura europea sulla figura paterna

In un saggio degli inizi degli anni Novanta, Alfonso Berardinelli constata che i poeti che hanno inventato la poesia moderna in Italia sono tutti nati fra il 1880 e il 1890, poeti come Gozzano, Sbarbaro, Palazzeschi, Saba, Corazzini, Moretti, Campana, Rebora, che stanno lì a mostrarci come la modernità poetica italiana ha una voce plurale, centrifuga, tutt’altro che ovvia. Si tratta di poeti, continua Berardinelli, che non hanno avuto un’eredità certa e visibile (senz’altro se paragonata a quella di Montale), “che non hanno fatto scuola, il cui linguaggio resta franato a terra”. E tuttavia le sopravvivenze, che pur ci sono, di questa generazione delineano con tutta evidenza un panorama affatto plurale della nostra modernità poetica, non riducibile a un facile e univoco schema interpretativo.

Prendiamo il caso di Camillo Sbarbaro (1888 – 1967), forse il poeta più “sfortunato” di questa generazione: proprio negli anni Cinquanta, anche grazie al lavoro editoriale e di rivalorizzazione operato da Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller, torna come nome e soluzione per indagare delle strade di ricerca che sappiano aprire un’alternativa all’autorità montaliana. E sono poeti spesso molto diversi fra loro a riscoprire la lezione di Sbarbaro: Giorgio Caproni, in un articolo del 1958, lo definisce un “poeta-padre”, uno dei più “prepotenti motori del secolo poetico italiano”; non diversamente Giovanni Giudici, in un articolo che fin dal titolo, Il nostro coetaneo Sbarbaro, rende esplicita la volontà di riattualizzazione del poeta di Pianissimo, lo indica come modello possibile per chi voglia scrivere poesia nel 1955 lasciandosi alle spalle l’eredità di Montale; e ancora Pasolini, fino ad arr ivare ad Andrea Zanzotto, che gli dedica uno scritto negli anni Settanta, e a poeti più giovani come Umberto Fiori e Fabio Pusterla.

Eppure l’opera di Sbarbaro non ha goduto della fortuna critica che gli spettava, relegato spesso ai margini del sistema, trascurato come poeta provinciale o minore (in questo sì, criticamente Sbarbaro non ha fatto scuola). Non ci si può che rallegrare, allora, per l’uscita del Meridiano che raccoglie l’opera poetica di Sbarbaro, curato da Giampiero Costa e con un saggio introduttivo di Enrico Testa. Si tratta di un’operazione che finalmente fornisce degli strumenti indispensabili per la ricostruzione precisa di un profilo intellettuale, offrendo coordinate interpretative precise, dati filologici accurati e informazioni indispensabili. Ma soprattutto, è un’operazione critica che sgombra da alcuni malintesi e semplificazioni, a partire dall’idea di uno Sbarbaro come autore “facile”, provinciale, che scrive poco.

Poesie e prose di Sbarbaro

Tutto al contrario: fin dalla raccolta d’esordio, Resine, del 1911, Sbarbaro delinea una voce riconoscibile, che a partire dal ben noto nucleo tematico dell’inadattabilità dell’io al mondo inizia a costruire un tono personalissimo e che trova, forse, la sua massima espressione in Pianissimo (1914). Proprio questo secondo libro, come mostra convincentemente Enrico Testa, si presenta come una novità assoluta per le modalità con cui Sbarbaro affronta i temi che pone sulla pagina, lontano tanto dall’ironia di Gozzano, quanto dall’abbassamento tonale del crepuscolarismo, pur perseguendo, allo stesso modo, un rifiuto dell’eloquenza e una riduzione, quasi larvare, del soggetto e della figura del poeta.

Si delinea, in questo libro, un sistema ricco di ambiguità e contraddizioni (che si riflettono, in particolare, nella continua frantumazione di un soggetto che esperisce il mondo in forme antitetiche), che pure trovano una loro paradossale pacificazione all’interno dell’urgenza strutturale del libro, in cui i vari frammenti poetici sono organizzati creando un organismo dalla fortissima tenuta, in cui la macrostruttura dà senso alle singole poesie. Un forte principio di organizzazione che serve quasi da riscatto, da contraltare, alla dispersione esistenziale generata dal motivo principale di Pianissimo: il sentimento luttuoso causato dalla morte del padre.

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Vicenda che trova la sua genesi nell’evento biografico, approfondito in una dinamica padre-figlio che ci regala alcuni dei testi più belli sulla figura paterna della letteratura europea, e che pure trascende il dato meramente esperienziale se è vero, come scriveva Berardinelli in quel saggio su Quando nascono i poeti moderni in Italia, che “l’avvento della Modernità, in uno almeno dei suoi numerosi episodi, più che una festa liberatoria è stato un lutto”.

E non a caso proprio questo conflittuale rapporto con la modernità si trova in molte figure (antitetiche) della poesia di Sbarbaro: l’esperienza della metropoli, l’indagine del mondo naturale (che davvero è una cifra distintiva di Sbarbaro, che raccoglie, scrive e studia i licheni per tutta la vita), l’immedesimazione nelle figure derelitte di Genova. Scrivere, d’altronde, ha detto Giampiero Costa, “non importa in quale forma, è per Sbarbaro un modo per leggere il mondo”.

Il tema luttuoso torna ancora in Trucioli (1920), questa volta legato all’evento che più ha scosso le vite e le forme dell’immaginazione del primo Novecento: e l’urgenza strutturante, di fronte alla disgregazione prodotta dalla prima guerra mondiale, si fa ancora più forte: il terzo libro, scrive Testa, è quasi un “racconto”, scandito fra diario cittadino, diario di guerra e ritorno alla vita civile.

Fra Resine e Trucioli c’è probabilmente già tutto Sbarbaro, o quello che più ci interessa di Sbarbaro, che pure continua a scrivere (nel ’28 esce Liquidazione, nel ’55 Rimanenze, ’56 Fuochi fatui e a seguire: Primizie, Scampoli, Gocce, “Il Nostro” e nuove gocce, Contagocce, Bolle di sapone, Cartoline in franchigia, Vedute di Genova 1912, Quisquilie: una vasta produzione finalmente riunita e che ci permette di rimettere a fuoco la figura di Sbarbaro); e continua a riscrivere i propri testi; e traduce (Flaubert, Stendhal, Huysmans, Maupassant, Balzac, Zola Julien Green, Sofocle, Euripide, Eschilo e molti altri). Consegnandoci un’opera – in versi e in prosa – che continuamente torna, per riprendere le parole di Berardinelli, sulla “specularità di verità e orrore blando, di rivelazione della vita e diminuzione della vita”.

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