Nel suo saggio Gianni Turchetta parte dalla ricostruzione della vita di Dino Campana (Marradi, 20 agosto 1885 – Scandicci, 1º marzo 1932), mettendo in luce come la traiettoria del poeta, e il mito che su di essa si è creato, in realtà si inserisce perfettamente all’interno della storia dell’Occidente moderno in cui, con ogni evidenza, poesia e follia intrattengono un rapporto privilegiato. Eppure al di là della leggenda del genio pazzo, l’esistenza Campana non si svolge esclusivamente sotto il segno della tragedia, ma il filo della felicità e della serenità, seppur in disparte, rimane sempre ben visibile – L’approfondimento

L’ultimo dei maledetti. Così si intitola il capitolo dedicato a Dino Campana nella Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni e sottolinea un’idea ben radicata nell’immaginario collettivo sul poeta folle di Marradi.

La storia di Campana, almeno per come è stata raccontata per la maggiore, sembra essere la storia di un individuo unico, eccezionale, in perenne lotta con le istituzioni, con la società, condannato allo scacco, irrequieto, matto, ispirato, oracolo, vagabondo, poeta in quanto folle e folle in quanto poeta. Una storia senz’altro affascinante – per ripetere un altro stereotipo: che si legge come un romanzo – e se assomiglia a un romanzo in parte si deve al fatto che è stata raccontata molto spesso enfatizzando, esagerando, presentando Campana come un Genio isolato, il cui destino era senz’altro il manicomio e matto doveva diventarci per poter consegnarci la verità della sua poesia. E contemporaneamente un bohemienne, ultimo di quella schiatta di poeti maledetti. Ma il punto è che Campana è solo in parte tutto questo, e di certo davvero non era un poeta maledetto: anti-avanguardista convinto, ammiratore della tradizione letteraria (guarda certamente più a Carducci che a Rimbaud), rifiuta senz’altro di fare del proprio male una poesia e una ideologia, non c’è in lui ostentazione, teatralizzazione o orgoglio della propria condizione, ma semmai un senso di vergogna. 

Il punto è che la storia che siamo abituati a raccontare su Campana è piuttosto un mito, un modo sbagliato di leggere la sua vita e la sua poesia e che, contemporaneamente, ci dice anche qualcosa sul modo in cui, come società, siamo abituati a dare forma alla nostra cultura e al nostro immaginario secondo delle deformazioni che affondano le proprie radici in paradigmi ben precisi – speravamo che almeno dopo Bourdieu non si parlasse più del Genio isolato ed eccezionale che viene fuori dal nulla; e a ben vedere di questi Geni matti e isolati è piena la storia della modernità: forse allora Campana non è così unico come siamo abituati a raccontarcelo.

dino campana turchetta bompiani

E proprio con queste considerazioni si apre il libro di Gianni Turchetta Vita oscura e luminosa di Dino Campana poeta (biografia di Campana appena tornata in libreria per Bompiani in una nuova edizione accresciuta e aggiornata). A partire da una ricostruzione sicura e documentata della vita del poeta di Marradi, Turchetta mette bene in luce come la traiettoria di Campana, e il mito che su di essa si è creato, in realtà si inserisce perfettamente all’interno della storia dell’Occidente moderno in cui, con ogni evidenza, poesia e follia (ma potremmo dire arte in generale e follia) intrattengono un rapporto privilegiato; ma al di là del mito, della leggenda del genio pazzo, nota Turchetta, “c’è una realtà molto concreta, e dolorosamente, duramente refrattaria a ogni tipo di mitizzazione consolatoria: c’è la storia, in parte ancora da scrivere, del rapporto indecifrato, seppure non indecifrabile, che si determina nell’Occidente moderno, all’incirca a partire dalla Rivoluzione francese, tra l’intellettuale e l’instabilità sociale, la nevrosi, la follia, ma anche la malattia, e più in generale tutta una vasta gamma di fenomeni di marginalità o quanto meno di problematica integrazione”.  

Si tratta, cioè, di una vicenda generalizzata e senza dubbio di portata collettiva che investe l’irrevocabile perdita di prestigio della letteratura (la perdita d’aureola di cui parla Benjamin) e del lavoro intellettuale che si accompagna all’industrializzazione e all’urbanizzazione del capitalismo moderno, senza contare il nuovo rapporto fra evoluzione tecnologica e sviluppo dell’industria culturale, la definizione di un campo letterario come specifico e differenziato, e le violente tensioni e crisi politiche ed economiche di un inizio Novecento che si appresta alla prima guerra mondiale. 

È in questo contesto che il mito, e la storia, di Campana vanno giustamente inserite: la poetica, e la vita, di Campana, diciamolo con le parole di Franco Fortini, possono essere lette come “la risposta che in Europa i ceti dell’individualismo artigiano democratico e libertario-ribellistico davano all’imperialismo industriale colonialista che li veniva distruggendo”. 

È all’interno di queste coordinate che Turchetta ricostruisce e interpreta con particolare acribia la vita (e l’opera) di Campana, ripercorrendone tutte le diramazioni e demistificando di continuo stereotipi e luoghi comuni del mito. 

Nato a Marradi il 20 agosto 1885, Dino Campana trascorre “un’infanzia felice” (così la racconta allo psichiatra Carlo Pariani nel 1927) e un’adolescenza irrequieta, caratterizzata da bruschi sbalzi d’umore e non sempre facili rapporti familiari. A partire dal 1906 inizia il suo ben noto vagabondare: prima su brevi distanze e principalmente a piedi, poi viaggi più lunghi in Russia, in Turchia, in Argentina. Ed è in questo periodo che comincia ad entrare e uscire di prigione: spesso arrestato per vagabondaggio, per assenza di documenti, altre volte per rissa. Eppure in questi stessi anni cerca di intraprendere la carriera militare, cosa certamente strana per un ribelle come Campana, ma si tratta di una contraddizione ideologica che non è tanto il segno di uno squilibrio del giovane poeta, ma che in realtà era ben caratteristica dell’epoca. Come nota Turchetta: “Campana unisce tratti di ribellismo, peraltro in buona misura non messi a fuoco e persino non del tutto consapevoli, a tratti di non trascurabile conformismo: un conformismo spesso conclamato e, particolare tutt’altro che trascurabile, quasi sempre consapevole. La storia di Campana resta comunque, se non proprio un inno alla libertà, certo un grido di dolore contro la violenza delle istituzioni e in particolare modo delle istituzioni reclusorie: il manicomio, la clinica, la prigione […]. Ma la sua ideologia, per quanto spesso non ben chiarita, ha molti tratti che non sono affatto libertari”. 

In questo stesso giro d’anni Campana inizia a scrivere, lavora di lima, con ripensamenti, corregge di continuo i suoi testi: ancora una volta la storia contraddice la leggenda del poeta orfico, ispirato che scrive di getto. Piuttosto è vero il contrario: il lavoro costante e l’evoluzione e la maturazione di un progetto di scrittura consapevole e ben orientato. Arriva così a mettere insieme il manoscritto de Il più lungo giorno. La vicenda è giustamente nota: Campana cerca in ogni modo di far pubblicare il suo libro da Papini e Soffici, si scambia varie lettere con loro, incontra i due intellettuali che lo trattano con scherno e condiscendenza, manda loro il manoscritto e Soffici, a quanto pare, lo perde (o fa finta di perderlo?). Campana, allora, in preda alla disperazione riscrive il libro: si tratta di una questione vitale per il poeta, poiché la scrittura diventa per lui la giustificazione della vita, “ciò che le conferisce un senso, e addirittura la dimostrazione stessa della sua esistenza, la prova di fronte al mondo che lui esiste”. Riscrive allora quelli che saranno pubblicati con il titolo dei Canti Orfici (e vale la pena dirlo: uno dei più bei libri di poesia del Novecento) e non, come vuole la leggenda, a memoria, ma avendo a disposizione una serie di brutte copie, versioni precedenti, appunti, foglietti da cui ripartire. E soprattutto, non lo fa in preda alla follia: Campana riesce a scrivere, e davvero la cosa non stupisce, solamente quando sta bene; “ciò dipende proprio dal fatto”, nota Turchetta, “che il rapporto tra la poesia e la follia non è di sovrapposizione, ma di esclusione; o, se si preferisce, di proporzionalità inversa”.

L’uscita dei Canti Orfici, per un tipografo amico di Campana, senza nessuna distribuzione reale, inizia a dare un certo riconoscimento al poeta: inizia a frequentare con una certa regolarità i circoli intellettuali dei caffè fiorentini e riceve una lettera, fatale, da Sibilla Aleramo che nel luglio 1916 scrive a Campana di essere rimasta “abbacinata e incantata” dalla lettura dei Canti. I due così si incontrano il 3 agosto di quell’anno a Barco, nel Mugello, e, come racconta la stessa Aleramo, “l’amore divampò in un delirio selvaggio”. L’idillio però è presto rotto: Campana dà di matto: grida, insulta Sibilla, le lancia accuse deliranti, le sputa addosso, la picchia. Durante uno dei loro ultimi addii Campana scrive la poesia delle rose. La parabola della vita di Campana inizia così la sua discesa: nel corso del 1918 Campana viene internato al manicomio di Castel Pulci dove resterà fino alla morte nel 1932. 

E pure di questa parabola non vanno ricordati solamente i movimenti verso il basso, le sconfitte, il dolore: come nota giustamente Turchetta, richiamando quell’arcana felicità che Franco Fortini attribuiva, contro ogni nozione acquisita, a Leopardi, “forse sarebbe ora di smetterla con lo stereotipo piagnucoloso del poeta infelice e incompreso, e con tutte le infinite propaggini del male di vivere: è tanto consolante, lo so, ma spesso non corrisponde affatto alla verità della vita”. E così l’esistenza di Campana non si svolge esclusivamente sotto il segno della tragedia, ma il filo della felicità e della serenità, seppur in disparte, rimane sempre ben visibile. E allo stesso modo i Canti Orfici “sono, è vero, la dichiarazione ostentata di una tragedia, ma cionondimeno vogliono ancora parlarci della possibilità della felicità, e anzi della sua necessità, della sua presenza ancora ben tangibile, molteplice della sua intensità dolcissima insieme e lacerante”. È proprio questo l’aspetto più interessante del libro di Turchetta: oltre alla curiosità per una figura certamente affascinante come Campana, quello che più importa è il significato sovraindividuale della sua esistenza, l’analisi demistificante sui rapporti sociali che hanno determinato la sua traiettoria, il discorso sul significato del simbolo doloroso che il poeta ha incarnato e, soprattutto, il senso della sua poesia: perché “non staremmo a occuparci del signor Dino Campana se non ci fossero i Canti Orfici qui a chiedercelo”. 

Libri consigliati