“Da tempo volevo tentare di scriverne un romanzo epistolare, perché credo che le lettere, tradizionali o mail che siano, vadano scomparendo”. In occasione dell’uscita di “Carissimi”, il suo nuovo libro, Letizia Muratori si racconta su ilLibraio.it: “Scrivere un romanzo contemporaneo significa registrare ciò che se ne va e che si trasforma, non buttarsi a corpo morto sul nuovo che avanza, tanto per usare un’espressione usurata, brutta e pure minacciosa…”

Una delle richieste implicite al lettore da parte del romanzo epistolare è avere tempo e se non lo si ha procurarselo, tentare di comprarselo perfino, perché non c’è altro modo di averci a che fare. Il tempo del lettore alle prese con il romanzo epistolare si dilata e questo gesto così anacronistico – allungare la distanza del tempo – è uno degli esercizi che ci regala Carissimi, il nuovo romanzo di Letizia Muratori uscito per La nave di Teseo.

carissimi letizia muratori

La storia ruota attorno alla costruzione e ricostruzione del nucleo familiare, verso cui tendono i protagonisti e le lettere che si scambiano.

Il ritmo del romanzo è scandito fin dal titolo, Carissimi, da una continua chiamata all’ascolto per chi riceve la posta e una assunzione di responsabilità per chi firma. I personaggi sono descritti attraverso i messaggi che si scambiano; ci sono delle incursioni narrative, racconti nel racconto, ma la maggior parte di ciò che scopriamo accade attraverso le parole dei protagonisti – e qualche loro silenzio.

Letizia Muratori, la scelta di dare spazio a questa storia attraverso il meccanismo del romanzo epistolare è stata una necessità o è maturata a un certo punto della scrittura?
“Carissimi è nato epistolare. Il luogo del libro non è Israele e nemmeno l’Italia, ma la distanza tra una lettera e l’altra. Mi piacciono molto i romanzi epistolari”.

Perché?
“Quando sono riusciti, hanno l’andamento naturale di uno scambio, quasi sportivo: si lancia e si risponde, si attende. Ma, al di là dei gusti personali, da tempo volevo tentare di scriverne uno perché credo che le lettere, tradizionali o mail che siano, vadano scomparendo. Non pretendo di cambiare il corso degli eventi, né ho un atteggiamento ostile ai cambiamenti, è che mi interessano i mondi alla fine, le code, le uscite di scena. Scrivere un romanzo contemporaneo significa registrare ciò che se ne va e che si trasforma, non buttarsi a corpo morto sul nuovo che avanza, tanto per usare un’espressione usurata, brutta e pure minacciosa. Al momento viviamo in un contesto di conversazioni scritte, non c’è dubbio. I ragazzi, ad esempio, non si parlano quasi più, si scrivono. La parola scritta oggi non ha bisogno di rivendicare primati, di fatto li ha, ma sostituisce la voce in una conversazione, con tutto quello che comporta, il rischio di essere fraintesi è infatti altissimo”.

E le lettere, invece?
“Sono una cosa completamente diversa: la voce di una lettera è analitica, si misura con un movimento che è quello del ragionamento, del pensiero, in qualche caso la voce può essere intima, confessionale. Un tempo, che appare molto lontano, le lettere avevano anche una funzione di collegamento, per lettera ci si scambiavano banali notizie, non solo verità.
In Carissimi ho cercato di seminare tracce delle corrispondenze del passato, attraverso lo stile epistolare dei personaggi più anziani del libro, e ce ne sono diversi. Lo stesso destinatario collettivo, quel carissimi, tradisce l’urgenza di comunicare con più persone in un colpo solo, urgenza che esisteva in epoca pre-telefono, o meglio, quando telefonare a persone lontane non era così semplice”.

Nurit, la protagonista diciottenne del romanzo, è alle prese con un documentario: esiste un legame emotivo tra la forma documentaristica e il romanzo epistolare?
“Il legame esiste eccome, perché i documentari si avvalgono di testimonianze e le lettere spesso restituiscono versioni diverse di un’unica storia. Le lettere sono documenti molto utili alla ricostruzione di un ambiente, del temperamento di chi scrive e delle circostanze in cui sono state concepite. Un epistolario può avere un valore discutibile, può perfino inquinare, ma il documentario non pretende di raccontare la verità, al contrario, illumina i frammenti, gli angoli di una storia, si alimenta di disconoscimenti, più che di conferme, e allo spettatore è dato il privilegio di farsi un’idea. Ovviamente apprezzo che l’autore abbia una sua opinione in merito ai fatti che va analizzando, non può non averla, però mi interessa scoprirla, se mi viene imposta come minimo mi insospettisco”.

Giorgio, invece, il personaggio a cui si dà voce post mortem, è in prima istanza filtrato dalla voce o dai ricordi di tutti gli altri; Giorgio prenderà la parola, a un certo punto, e nel romanzo questo è un atto di profonda rivelazione, il romanzo accelera e noi lettori sappiamo dunque la verità quando è il protagonista stesso a raccontarcela di suo pugno, con la sua voce e non con le sue parole. Il racconto (o il documentario) è solo un mezzo partigiano per arrivare alla verità? È una sorta di dichiarazione di fallimento?
“Inizialmente il personaggio di Giorgio, il donatore, non solo è morto, ma è un’invenzione di Nurit. Questo libro, lo ripeto spesso perché è davvero importante, non racconta la famiglia, ma l’invenzione della famiglia. Nurit somiglia un po’ a quei ragazzi che a un certo punto della loro vita si inventano di essere stati adottati. La ragazza ha la sua famiglia e ha un donatore. Si sente, scrive, ‘creata’ più che generata, e il donatore, malgrado sia realmente esistito, resta prima di tutto la sua invenzione, la sua fuga, non c’è mai in lei il desiderio di conoscere i suoi consanguinei in quanto tali. Il sangue in questo libro, in tutti i miei libri, conta davvero pochissimo. Tra il sangue e l’esperienza, il mio primato va a quest’ultima, va all’esperienza. Tornando a Giorgio, quando comincia a parlare si smarca dal ruolo, dalla funzione che Nurit gli ha assegnato, sparisce il donatore e appare altro, non la verità, ma altro”.

La famiglia di Giorgio, Nurit, tutti noi, ci siamo avvalsi per un periodo di Facebook per ritrovarci, per agganciare nuovamente un contatto con chi era lontano (nel tempo e nello spazio). La connessione sarebbe naturalmente sfumata, se non fosse stato per quel meccanismo innaturale di riconciliazione. Lei che rapporto ha con questo aspetto dei social network, con la “riconciliazione mediata”?
“Per quanto riguarda il ritrovarsi attraverso Facebook – faccenda che oggi ha un sapore addirittura archeologico, si faceva all’inizio dell’era social – non ci vedevo, né ci vedo niente di male in sé, ma ritrovarsi non porta per forza a una riconciliazione che spesso è data per scontata. Di questo sistema mi ha sempre colpito, fin dall’inizio, la geniale e perversa autosufficienza. Ci si ritrova: l’importante è l’azione social, mentre la riconciliazione è cosa fatta. È un mondo influentissimo perché assimila le conseguenze”.

I personaggi femminili del romanzo – penso a Nurit, certo, ma anche a Lisa – conoscono i fatti. Quando loro scrivono abbiamo l’impressione che la solidità degli eventi sia preservata, a differenza ad esempio di quando prendono parola i figli di Giorgio. Loro modellano e dominano la storia e non ne sono sovrastate. Questa scelta ha un motivo preciso?
“’Chi conosce i fatti’ è più avanti degli altri, lettori compresi. In questo caso si tratta di personaggi femminili, una madre e una figlia, però non c’era un intento specifico dietro, dovrei inventarmelo a posteriori. In genere preferisco non violare il solito mistero delle storie che nascono così come sono e, loro sì, modellano e dominano la testa di chi le scrive”.

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