“Neanche a farlo apposta, il mio ultimo romanzo è ambientato quasi totalmente all’interno di una casa”. Antonio Benforte, in libreria con “Lo spazio tra le cose”, su ilLibraio.it riflette sull’uscita dal lockdown: “E’ necessario capire che il ritorno alla normalità non potrà mai essere la normalità come la intendevamo prima”

Una mascherina sfilacciata abbandonata sul marciapiede, un guanto in lattice rotto senza il suo compagno di mano, un flacone di gel igienizzante lasciato fuori dal cassonetto, quasi disorientato. Arrivata la fase 2, una sorta di liberi tutti, gli esseri umani sono tornati ad affollare le strade, a riempire le piazze, a vivere una parvenza di normalità.

Nessuno è rimasto più a cantare dai balconi, nessuno più a gridare un poco convinto “Ce la faremo”. Ce l’abbiamo già fatta, in realtà, a cambiare le nostre abitudini, a sperare che tutto mutasse, per poi fare una piroetta su noi stessi e tornare identici a prima. Finita la polemica sui congiunti, resta quella sul corretto uso di mascherine sulla bocca e sul distanziamento sociale. E nella narrazione collettiva il mostro piccolo e letale che ci ha tenuti chiusi in casa negli ultimi mesi, sembra essere diventato un racconto horror, una favola sfocata, un ricordo del passato.

Barricati in casa abbiamo vissuto piccole epopee di grande umanità. Con le quattro mura a difenderci e a proteggerci, abbiamo indagato in noi stessi ed esplorato a fondo i rapporti interpersonali. Sotto lo stesso tetto, famiglie lontane si sono riunite e ritrovate. Hanno riscoperto i rituali dimenticati del pranzo insieme, a tv spenta. Hanno riposto in un cassetto gli orologi – il tempo si è dilatato, è diventato inutile – e abbandonato le agende. Nessun appuntamento era più urgente, senza poter oltrepassare la porta di casa. Chi ha vissuto da solo, ha riscoperto il potere salvifico della parola, al telefono o in videochiamata con amici e parenti lontani. Alcuni, abituati già al silenzio e alla solitudine, non hanno percepito scossoni. Altri, dall’equilibrio precario, li hanno sentiti eccome, e piano piano ne stanno uscendo, ancora più disorientati.

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La casa è diventata il nostro guscio, il porto sicuro dove trovare riparo dal virus. Abbiamo imparato a conoscerla, ad amarla. Ci siamo riappropriati di spazi che, nella frenetica routine quotidiana, spesso vivevamo per poche ore al giorno. Abbiamo riempito le pareti di fotografie, abbiamo approfittato per coltivare vecchie abitudini abbandonate. Mentre in strada tutto sembrava essersi fermato, in ognuno di noi c’è stata una piccola o grande rivoluzione. Abbiamo dedicato tempo, abbiamo condiviso tempo. In casa abbiamo avuto modo di riflettere e pensare alla vita com’era prima, alla vita che vorremmo per il nostro futuro. Per ripensare noi stessi e i rapporti con gli altri. Ci sono state alcune dinamiche di questi mesi di quarantena che sono rimaste attaccate addosso, entrate sottopelle.

Neanche a farlo apposta, il mio ultimo romanzo* è ambientato quasi totalmente all’interno di una casa. Una casa che si sta svuotando durante un trasloco. Buffo, no? Il protagonista, Paolo Sartori, è in crisi, prima personale e poi di coppia, e proprio i pochi giorni in cui è occupato a riempire gli scatoloni gli servono per fare ordine, rimettere insieme i pezzi. Svuotando armadi e cassetti, ogni cosa assume un valore, ogni oggetto innesca un ricordo. Ad accompagnarlo in questa avventura, resta un giradischi, sul quale Paolo lascia andare la colonna sonora della propria esistenza. Affascinato dall’arte giapponese del kintsugi, prova a ricucire le crepe e a ricoprirle di polvere dorata, per farle apparire più belle. Il trasloco diventa così metafora del cambiamento interiore del protagonista, che progressivamente fa spazio, getta via le cose che non funzionano più e lascia solo ciò che conta davvero.

In questi mesi ci siamo interrogati tutti su cosa conti davvero. E ora che siamo fuori casa? Che cosa ci racconteremo? La retorica dell’andrà tutto bene ha ceduto il passo alla dura realtà. Ed è necessario capire che il ritorno alla normalità non potrà mai essere la normalità come la intendevamo prima. La normalità di prima era il problema. Era una normalità sbagliata, evidentemente. Come Paolo nel romanzo, stiamo acquisendo consapevolezza, senza perdere l’ottimismo. E ci ripetiamo costantemente: “Il bello della vita è anche questo, il suo continuo costruire e abbattere, una serie di successi e fallimenti, gioie e dolori”.

antonio benforte

L’AUTORE E IL LIBRO – Lo spazio tra le cose* (Scrittura & Scritture) è il nuovo libro del napoletano Antonio Benforte. Classe 1983, ha sempre lavorato nel mondo del giornalismo, della comunicazione e dell’editoria. Attualmente è social media manager del Parco aarcheologico di Pompei.

Il protagonista del romanzo, Paolo, ha appena tolto l’ultimo quadro dalla parete del suo bilocale. Sotto, ci scorge una crepa di cui non sapeva: quando si è creata? Nello stesso momento in cui si è incrinata la sua vita coniugale? Perché non se ne è accorto prima? Le scatole sono ammonticchiate lì, vicino alla porta, alcune ancora piatte rastrellate in giro un po’ alla volta in previsione del trasloco verso una casa più spaziosa. Altre scatole, invece, sono già piene, impilate in ordine, lo stesso ordine maniacale con cui Paolo tiene sistemati tutti i suoi vecchi dischi, colonne sonore della sua giovinezza, della sua e di quella di Marta. Marta… dov’è ora? Lo ha lasciato solo ad affrontare un trasloco di cose e di cose-ricordi. Ed ecco che in quella casa oramai quasi vuota e forse troppo stretta, ogni scatola assume un valore, ogni oggetto innesca un ricordo. A ogni canzone che Paolo fa andare sul giradischi – ultimo baluardo a campeggiare ancora al centro del salone – scorre nella sua mente la metaforica ricerca di una libertà che, per paradosso, rinsaldi il legame con la moglie, che chiuda quella crepa nel muro vuoto e apra la porta della sua nuova vita. Ci riuscirà?

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