“La nostalgia, il più dolce e il più insinuante di tutti i sentimenti che possiamo provare, il più vago e il più difficile da definire, perché fra tutti i sentimenti è quello in cui l’oggetto pesa meno rispetto alla traiettoria di desiderio, di tensione, che descrive – e probabilmente è per questo che non trova pace né soddisfazione, e non può averla mai – distilla, proprio per via dello struggimento che induce, il senso che tutto ciò verso cui tende sia speciale, unico, irripetibile al di fuori dell’illusione ritmata dalla memoria… Eppure sento che nella mia specialissima nostalgia non c’è proprio niente di speciale: è solo un frammento, un riverbero della nostalgia che hanno tutti…”. La riflessione della scrittrice Ilaria Gaspari nei giorni della quarantena forzata

Qualche giorno fa un mio amico dai tempi delle elementari, che abita nello stesso cortile in cui sono cresciuta, ma al capo opposto, dalla sua finestra ha fatto una fotografia al balcone dei miei genitori. Me l’ha mandata su whatsapp.

Io, che di quel balcone conosco ogni millimetro, da quella prospettiva esterna non l’avevo mai visto; eppure, nonostante la foto il mio amico me l’avesse mandata così, nuda e cruda, senza parole, ancora prima di aprirla l’avevo già riconosciuto: la tenda rossa aperta all’aria del pomeriggio, per schermare la cucina dalla luce accecante di questo aprile troppo luminoso, fuori luogo come un bambino che se ne esce con una parolaccia in una situazione solenne; i fiori gialli, ranuncoli e viole del pensiero, che vengono ripiantati a ogni primavera.

Quando torno a casa dai miei, mi piace annaffiarli, come facevo da bambina; ma i ranuncoli di quest’anno, chiaramente non li annaffierò neanche una volta. C’era un lenzuolo blu steso al sole del cortile; un lenzuolo di casa, anche se casa mia ormai è un’altra, ma solo a vederlo sapevo che profumo doveva avere, in quell’aria piena di sole, il profumo dei bucati di casa che non sono mai riuscita a riprodurre nei miei bucati – ormai mi sono bella che rassegnata.

Ho guardato il nostro balcone da quella prospettiva nuova, che però era sempre esistita: da lì, pur essendo lo stesso che io ho sempre visto, crescendo, da dentro casa, è un balcone diverso, un balcone nella teoria verticale dei balconi del palazzo: fra quello dei nostri vicini di sotto con la portafinestra spalancata, e quello di quelli di sopra, che hanno l’abitudine di martellare e spostare mobili all’alba – ma a pensarci così, per un attimo, anche quel baccano incomprensibile di cui ci siamo lamentati mille volte mi è parso incredibilmente rassicurante. Vedere la casa della mia infanzia – che è rimasta sempre la casa dell’infanzia perché l’ho lasciata da anni, quando è stato il momento di iscrivermi all’università – da un angolo così nuovo, in questa primavera strana in cui la distanza è più vera di quanto non sia mai stata, mi ha fatta piangere di nostalgia, ma anche di quel sentimento indefinito, sottile, struggente e irreversibile, che sentiamo quando scopriamo di non essere affatto speciali.

A pensarci, è stata proprio una contraddizione, e forse, mi dico, è la contraddizione dentro cui ci dibattiamo tutti in questi giorni, in cui il detto Pasqua con chi vuoi prende delle sfumature diverse da quelle che ha avuto a ogni altra Pasqua della nostra vita, a ogni primavera della nostra vita, perché forse ci tocca passarla da soli, anche se non è poi così detto che siamo proprio noi stessi le persone in compagnia delle quali vorremmo passarla.

La nostalgia, il più dolce e il più insinuante di tutti i sentimenti che possiamo provare, il più vago e il più difficile da definire, perché fra tutti i sentimenti è quello in cui l’oggetto pesa meno rispetto alla traiettoria di desiderio, di tensione, che descrive – e probabilmente è per questo che non trova pace né soddisfazione, e non può averla mai – distilla, proprio per via dello struggimento che induce, il senso che tutto ciò verso cui tende sia speciale, unico, irripetibile al di fuori dell’illusione ritmata dalla memoria.

Può interessarti anche

Per questo di nostalgia si ammalavano, nel Seicento, i mercenari svizzeri, che rimpiangevano cose banalissime e perciò insostituibili – i suoni dei corni, i canti dei vaccai che ascoltavano nelle sere della loro infanzia: che non erano niente di speciale, probabilmente, per nessun vaccaio e nemmeno per i loro fratelli, o i padri e le madri rimasti, dopo la partenza dei figli, fra le valli e le montagne ad ascoltare la monotonia di quei canti; ma per loro che li avevano persi, per loro che misuravano nella nostalgia la distanza dalle loro infanzie e il senso irreversibile della fine di una fase della vita, anche quei canti così semplici, così rozzi in fondo, diventavano un segno inestimabile, qualcosa di unico e prezioso. Così, il profumo di quel lenzuolo che vedo steso ad asciugare, la tenda rossa del balcone di casa dei miei, di quella che non posso più chiamare casa mia e insieme lo sarà per sempre, mi sembrano gli unici, irripetibili simboli dell’unica vita che posso dire di conoscere davvero – perché non posso avere esperienza del mondo se non per via della mediazione che questa vita mi offre – la mia vita, insomma.

Eppure… eppure, vedere il balcone nella serie verticale dei suoi omologhi, vederlo come lo vede il mio amico, per cui l’angolo di cortile unico, irripetibile, commovente, non è il mio ma il suo, mi fa d’improvviso realizzare che sì, è vero, è quello con la tenda rossa il balcone che sconvolge me; ma che esattamente lo stesso effetto a un altro può farlo quello con la portafinestra aperta, al terzo piano; oppure quello del secondo, dov’è steso un bucato tutto candido, che probabilmente per il ragazzo del secondo, che era un ragazzo quando io ero bambina e quindi ora è un uomo fatto, avrà un profumo specialissimo e indimenticabile, che non riesce in nessun modo a ottenere con la sua lavatrice di Ottawa, dove vive e fa l’ingegnere.

Ed ecco all’improvviso, in questa vigilia di una Pasqua diversa, in cui mi struggo come quei soldati svizzeri per le foglie di salvia fritte da mia mamma, per l’uovo di cioccolato e il passito a fine pranzo, sento che nella mia specialissima nostalgia non c’è proprio niente di speciale: è solo un frammento, un riverbero della nostalgia che hanno tutti. E mi sembra di provare quello stesso sollievo che si sente quando si appoggia l’orecchio alla schiena di qualcuno, mentre parla, e si divide la stessa vibrazione – che è la sensazione diametralmente opposta al sentire la propria voce registrata e scoprire che è una voce come le altre, ma risponde a un identico riconoscimento: del fatto che siamo esseri umani come gli altri, che il nostro io non ci rende affatto speciali, ma che è proprio per questo che, se accostiamo l’orecchio, come dentro una conchiglia si può sentire il mare, nella voce di un altro possiamo sentire la nostra voce che vibra, e nella fotografia del nostro cortile possiamo vedere il nostro balcone come lo vede chi sta dall’altra parte.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

 

Libri consigliati