“Nei giorni in cui il mondo intero è in quarantena, l’esperienza della solitudine non è prerogativa di una parte della popolazione terrestre, possiamo dire che lo è di tutti. Nessuna epoca storica precedente a questa ha mai potuto sperimentare una diffusione così massiva della solitudine. Non sto parlando di solitudine mentale, e neppure della solitudine cronicizzata dagli stili di vita fatui imposti dalla contemporaneità. Intendo una solitudine comprovata e fisica, com’è quella a cui siamo costretti per sfuggire al contagio”. Su ilLibraio.it, la riflessione dello scrittore Andrea Pomella

Il linguaggio della solitudine

Negli ultimi giorni mio figlio M., osservando i diagrammi in Tv sull’andamento del contagio, ha imparato a fare i grafici. L’altroieri mi ha mostrato un disegno: una sequenza di righe orizzontali attraversata da un tracciato verticale, un apice e una breve linea in discesa. In alto c’era scritto: Grafico dei programmi guardati su Gambero Rosso. “Se domani non guardiamo un’altra puntata di Giorgione orto e cucina”, mi ha messo in guardia, “ci sarà un altro calo”. 

All’inizio della quarantena, M. – che fa la quarta elementare – ha iniziato a mostrare i segni di un piccolo disturbo d’ansia generalizzato. Al che mia moglie ed io abbiamo deciso che durante i pasti avremmo smesso di seguire le notizie del tiggì. Il canale del Gambero Rosso, con le sue piccole e grandi star della gastronomia, è un impareggiabile salvastress. Pasticceri che propongono dolci dall’aspetto squisito, chef specializzati in panini gourmet, e poi lui, il preferito di M., Giorgio Barchiesi in arte Giorgione, l’eroe placido e bonario a cui senza saperlo è toccato in sorte di lenire l’ansia di mio figlio. 

Così ho preso l’abitudine di guardare il telegiornale la mattina presto e la sera tardi. Sono quelli gli unici momenti in cui M. ha potuto spiare i diagrammi in Tv, tra un risveglio di buon’ora e un bacio della buonanotte. Ma a quanto pare quel poco gli è bastato per comprendere il misterioso linguaggio che si cela dietro la rappresentazione grafica di una funzione matematica. 

Un grafico è la trasposizione in una lingua visuale di una realtà che accade nel mondo dei numeri. È una traduzione. Da un punto di vista etimologico la parola traduzione richiama trans (al di là) e dùcere (condurre), il che implica un’idea di movimento, uno spostamento da un dominio all’altro. Nel mondo sensibile tutto è traduzione, e di conseguenza tutto è linguaggio. Non lo è solo la parola scritta o parlata, lo è anche, per esempio, un’espressione del volto, lo è il rumore che fanno i corvi all’alba fuori dal mio giardino, lo è il sintomo di un malessere, lo è un dolore. Ciò a cui mi sto dedicando in questo tempo bianco è soprattutto lo studio di un linguaggio misterioso e sfuggente: quello della solitudine.

Se è vero che ogni fenomeno dello scibile comunica attraverso una lingua, anche la solitudine deve esprimersi attraverso una grammatica, una sintassi, un lessico e un vocabolario. Nei giorni in cui il mondo intero è in quarantena, l’esperienza della solitudine non è prerogativa di una parte della popolazione terrestre, possiamo dire che lo è di tutti. Nessuna epoca storica precedente a questa ha mai potuto sperimentare una diffusione così massiva della solitudine. Non sto parlando di solitudine mentale, e neppure della solitudine cronicizzata dagli stili di vita fatui imposti dalla contemporaneità. Intendo una solitudine comprovata e fisica, com’è quella a cui siamo costretti per sfuggire al contagio.

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C’è un racconto di Edgar Allan Poe che si intitola L’uomo della folla in cui si narra di un vecchio che continua a vagare nella città senza mai aver voglia di tornare a casa, perché tutto ciò che vuole è cercare di stare costantemente in mezzo agli uomini. La solitudine di questo individuo si esprime nel suo contrario, nella ricerca ossessiva della non-solitudine, parla il linguaggio dello sperdimento. La solitudine nostra è pur sempre solitudine, come quella dell’uomo nella folla, ma per esprimersi ricorre a espressioni idiomatiche differenti. La lingua è la stessa, diversi sono i termini e le forme. 

Osservare in questi giorni i comportamenti di mio figlio mi consente di apprendere una parte considerevole della lingua della solitudine, una lingua che credevo di dominare sotto ogni punto di vista e che invece scopro avere insenature per me ancora inesplorate e profondissime. M. stesso avverte l’esigenza di tradurre questo fenomeno in una lingua per lui più immediatamente comprensibile, come quella dei tracciati grafici. Il suo bisogno di traduzione probabilmente è lo stesso che sento io (quel che non sentivo durante i miei molteplici e reiterati pedinamenti della solitudine nel mondo di prima), e lo stesso che sentono tutti.

Forse allora il linguaggio di questa nuova solitudine ci dice qualcosa di benigno. Lo stesso di cui parlava Leopardi: se il vuoto (la paura del Nulla) non può essere riempito se non dalle illusioni, allora è meglio che sia riempito dalla solitudine.

L’AUTORE E IL LIBRO – Andrea Pomella è nato a Roma nel 1973. Ha pubblicato delle monografie su Caravaggio e su Van Gogh, I Musei Vaticani (Editrice Musei Vaticani, 2007), il saggio 10 modi per imparare a essere poveri ma felici (Laurana, 2012) e tre testi narrativi: Il soldato bianco (Aracne 2008), La misura del danno (Fernandel, 2013) e Anni luce (Add, 2018). Scrive su Doppiozero e minima&moralia, e insegna scrittura autobiografica alla Scuola del Libro di Roma. Per Einaudi ha pubblicato il memoir L’uomo che trema (2018), e presto sarà di nuovo in libreria, sempre per la stessa casa editrice, con I colpevoli.

andrea pomella i colpevoli

Il nuovo romanzo racconta la storia di un bambino che dice al padre “Non voglio più vederti“, dopo che il genitore se ne è andato di casa. Lo dice, ma poi soprattutto lo fa. Si rifiuterà d’incontrarlo per trentasette anni. Il bambino che ha pronunciato quella frase, il bambino che ha abbandonato il padre rovesciando la prassi secondo la quale, semmai, accade il contrario, è l’autore di questo libro.

È lui, ormai adulto, a raccontare la ricostruzione del rapporto – impossibile eppure concretissimo – con il padre, a mettersi in gioco senza infingimenti, a ferirsi, a denudarsi una riga dopo l’altra. Usando l’io come una clava, per rompere tutti i vetri e tutti i muri. In cerca di un senso, di una direzione.

Cosa significa, concretamente e simbolicamente, tradire e abbandonare? C’è una giovane donna seduta nel luogo in cui avvenne il tradimento piú famoso della storia: l’assassinio di Giulio Cesare. È in attesa che lui – il bambino diventato adulto – pronunci una delle due frasi che, in un modo o nell’altro, le cambieranno la vita: “Lascerò lei per te“, oppure “Non posso farlo“. E lui pronuncerà la sua frase, e con quella frase forse rifonderà la sua esistenza, proprio come ha fatto il padre trentasette anni prima. Tutte le nostre vite sono costellate di tradimenti e di abbandoni, ma queste pagine – che danno forma a un’indimenticabile e torrenziale lettera al padre – raccontano con forza e verità la storia di una riconciliazione, ricostruiscono un ponte sospeso su un abisso per dare senso compiuto alla parola perdono.

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