“Quando ho iniziato a scrivere ‘L’uomo che trema’ mi sono circondato di opere d’arte, di film, di libri, le piccole coperte con cui cercavo protezione”. Andrea Pomella racconta su ilLibraio.it i film (da Melancholia di Lars Von Trier a The Tree of Life di Terrence Malick), le canzoni (da quelle di Elliott Smith a quelle di Claudio Lolli) e naturalmente le letture (Giuseppe Berto, Joan Didion, Helen Macdonald) che lo hanno accompagnato durante la stesura del suo memoir sulla depressione

In una scena cruciale di Melancholia – il film di Lars Von Trier del 2011 – Justine, il personaggio interpretato da Kirsten Dunst, è seduta al tavolo di fronte a sua sorella Claire, la quale è terrorizzata pensando al futuro dei figli. “Seicentosettantotto… il gioco dei fagioli”, dice Justine. “Nessuno ha indovinato quanti ce n’erano nella bottiglia. Ma io lo so, erano seicentosettantotto”. “Beh, è possibile, ma questo cosa prova?”, ribatte Claire. “Che io so le cose. E quando ti dico che noi siamo soli… siamo soli”.

In un’altra scena dello stesso film, Justine dice: “Arranco tra tutti quei fili di lana grigi che mi si attaccano alle gambe. Sono così pesanti da trascinare”.

Il film racconta la depressione di Justine, l’unico personaggio capace di mantenere il sangue freddo al cospetto dell’imminente catastrofe che sta per colpire la Terra: la collisione col pianeta Melancholia. Lo spunto venne dato al regista da uno psicoterapeuta al quale si era rivolto per affrontare una fase di depressione acuta. Lo psicoterapeuta spiegò che le persone depresse, rispetto ai non depressi, hanno la capacità di agire con più calma quando sono sottoposti a uno stato di forte tensione, perché hanno sviluppato una spiccata familiarità con l’attesa di eventi spiacevoli.

Quando ho iniziato a scrivere L’uomo che trema mi sono circondato di opere d’arte, di film, di libri, le piccole coperte con cui cercavo protezione. Non ho affrontato un vero e proprio periodo di preparazione e di studio della materia, poiché volevo essere il più possibile libero da condizionamenti stilistici. Avevo in mente l’esatta forma del mio memoir, non il contenuto, avendo in progetto di scrivere quasi in presa diretta, in contemporanea con gli eventi che accadevano nel mio presente. Le piccole coperte erano lì per dirmi: “Non sei solo, noi ti siamo amici”.

Ho un debito di riconoscenza nei confronti dei miei “amici”. Alcuni di questi li ho resi espliciti dedicando loro pagine o interi capitoli del libro. Su tutti Giuseppe Berto ed Elliott Smith. Il primo: nume tutelare e ispiratore, che col suo flusso di coscienza mi ha spiegato che non esiste una lingua letteraria, ma che esiste una lingua, o meglio, una voce, e ciascuno di noi ne possiede una. Cosicché scrivere non è altro che lasciar risuonare sulla pagina quella voce, senza cercare modalità espressive che non ci appartengono. Il secondo: la dolcezza e la cura, la calma-di-Justine-di-fronte-alla-catastrofe, il cantore dell’infelicità suprema che mi ha accompagnato ogni mattina, in macchina, attraverso le sue canzoni, placandomi i pensieri e distendendomi i nervi.

La musica è uno specchio perfetto per chi scrive, lo è quantomeno per me. Sono morto e risorto mille volte ascoltando La guerra è finita di Claudio Lolli, che raccontando il ventesimo compleanno di un ragazzo che vive su di sé un senso di crudele estraneità al mondo, scatta una fotografia meravigliosa e dolente della realtà percepita da un’anima inquieta: “Qualche regalo tremila lire, per ringraziare non sai cosa dire, tua madre vede per un momento, che non è vero che sei contento”.

E sono stato l’amico fragile cantato da De André, “sospeso dai vostri ‘Come sta’ meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci”.

Questo libro era dentro le canzoni che ascoltavo fin da adolescente, provando per esse un senso di comprensione profonda. Mentre la mia personale cognizione del dolore era al contempo così lontana dall’essere compresa. Compresa dai miei amici. Compresa dalla mia famiglia, dalla piccola cerchia che costituiva il mio mondo. Le canzoni colmavano in parte la distanza.

Canzoni, libri, film. In The Tree of Life, di Terrence Malick, un film sconcertante per ambizione, vastità, altezza, delicatezza, stupefazione, splendore, la voce fuori campo si interroga continuamente sul senso ultimo della vita, e lascia che il pensiero dello spettatore vaghi attraverso gli spazi sconfinati dell’evoluzione dell’universo. A un certo punto il personaggio della signora O’Brien, citando Tommaso D’Aquino, dice: “Le suore ci hanno insegnato che ci sono due vie per affrontare la vita: la via della Natura e la via della Grazia. Tu devi scegliere quale delle due seguire. La Grazia non mira a compiacere se stessa. Accetta di essere disprezzata, dimenticata, sgradita. Accetta insulti e oltraggi. La Natura vuole solo compiacere se stessa e spinge gli altri a compiacerla. Le piace dominare, le piace fare a modo suo. Trova ragioni di infelicità quando tutto il mondo risplende intorno a lei e l’amore sorride in ogni cosa”.

L’uomo affronta la vita seguendo la via della Natura e tralasciando la via della Grazia, e per questo prova infelicità e un continuo senso d’inadeguatezza. Ma nella pura, cristallina vastità dell’abisso depressivo, io ho sperimentato anche la via della Grazia, quando la realtà di natura perde di significato, e ogni materia oggettiva diventa puro corpo e sostanza, si depriva di valore. Se quella è la Grazia, ossia se la Grazia è la benevolenza della natura che ci svincola dalle sue leggi, io ho visto in essa la fine dell’uomo.

Ho letto tanti libri che si occupano di perdita, di malattia, di estraneità. Hanno tutti una cosa in comune: sono libri che parlano d’amore. Amore per la vita, certo. Come Lettera a D. di André Gorz che mi ha svelato l’appiglio supremo a cui la mente dell’uomo deve far ricorso nei momenti in cui l’insignificanza si espande come una coltre oppressiva: “Non avevi avuto bisogno di scienze cognitive per sapere che senza intuizioni né affetti non c’è intelligenza né significato”. E che in un pugno di pagine densissime giunge fatalmente a toccare il cuore molle della realtà in cui siamo immersi: “Bisogna accettare di essere qui e non altrove, di fare questa e non un’altra cosa, ora e non mai o sempre, d’avere solo questa vita”.

O classici come L’anno del pensiero magico di Joan Didion e Questo buio feroce di Harold Brodkey. Ma anche opere più recenti, come il meraviglioso Io e Mabel di Helen Macdonald, e il primo libro, intitolato La morte del padre, dell’autobiografia in sei volumi scritta da Karl Ove Knausgard, La mia lotta.

Testi che hanno agitato ombre intorno a me, fino a rendere reale l’irrealtà. Perché quando lo scrittore scrive, muove le cose, mette in moto la materia ineffabile. E il lettore crederà di aver visto qualcuno muoversi in un posto dove normalmente non c’è nessuno. Lo scrittore si limita a soffiare, a far muovere l’intuizione, ed è questo che dà significato.

L’uomo che trema ha questo titolo perché ricalca una frase del Grande Sertão di João Guimarães Rosa: “L’uomo? È una cosa che trema”. L’uomo che ho visto nel mio personale viaggio al termine della notte non trema per paura, né per febbre, né per fragilità.

L’uomo trema perché è vivo.

L'uomo che trema andrea pomella

L’AUTORE – Andrea Pomella è nato a Roma nel 1973. Ha pubblicato delle monografie su Caravaggio e su Van Gogh, I Musei Vaticani (Editrice Musei Vaticani, 2007), il saggio 10 modi per imparare a essere poveri ma felici (Laurana, 2012) e tre testi narrativi: Il soldato bianco (Aracne 2008), La misura del danno (Fernandel, 2013) e Anni luce (Add, 2018). Per Einaudi ha da poco pubblicato il memoir L’uomo che trema (2018).

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