Scritto nel ’56, “Crudeltà” di Pavel Nilin ebbe in Russia un grande successo, tanto che nel ’59 se ne trasse un film. Ora il romanzo torna in Italia, e sarebbe fuorviante leggerlo come un giallo, ma anche come opera del dissenso. Semmai, è un libro di guerra e di avventure, un’epica della foresta siberiana, dove due giovanissimi poliziotti danno la caccia ai “banditi” nei primi anni ’20, quando l’autorità sovietica si stava imponendo, peraltro con difficoltà e spargimenti di sangue. L’interesse del libro è nella sua dosata ambiguità…
Sarebbe fuorviante leggerlo come un giallo, ma anche come opera del dissenso. Crudeltà, di Pavel Nilin, che ora Edizioni readerforblind ripropone con una interessante prefazione di Antonella Nocera, è semmai un libro di guerra e di avventure, un’epica della foresta siberiana dove due giovanissimi poliziotti danno la caccia ai “banditi” nei primi anni ’20, quando l’autorità sovietica si stava imponendo peraltro con grande difficoltà e spargimenti di sangue.
La guerra civile è finita, l’armata bianca è stata sconfitta: ma la guerriglia è ben viva, e territori lontani e isolati come il distretto dove avvengono i fatti non sono per nulla sicuri. Bande di “mugichi” e di “kulaki” agli ordini di ex ufficiali zaristi infestano la zona, assalgono i villaggi, saccheggiano e uccidono in modo feroce (per esempio crocifiggendo viva – e nuda – una maestra di scuola). Li si combatte in nome del comunismo a venire e della retorica leninista riecheggiata con una certa rigidità (ed effetti forse involontariamente comici); mentre il controllo reciproco fra i bolscevichi (qui soprattutto i giovani del komsomol) è piuttosto paranoico e il clima, tutto sommato plumbeo.
Riecheggiano imperativi ideologici feroci, allora come ora: “Talvolta, nelle questioni politiche, è necessario punire con severità qualcuno, affinché l’esempio serva d’insegnamento a tutti gli altri”, dice ad esempio uno degli inquisitori a proposito d’un ragazzo che ha partecipato a un battesimo e subisce una sorta di processo, appunto, politico.
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Il romanzo (da noi tradotto già per Feltrinelli all’inizio degli anni ’60), scritto nel ’56, ebbe in Russia un grande successo tanto che se ne trasse un film nel ’59, e indubbiamente intercettò la cosiddetta fase dell’incerto “disgelo” post stalinista: incerto se pensiamo che di lì a poco, nel ’64, Iosif Brodskij, il grande poeta destinato all’esilio e al Nobel, veniva arrestato e condannato per “parassitismo”. Nessun rischio di questo genere per Nilin, il cui anticonformismo, se c’è, è ben temperato.
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Crudeltà è infatti una vicenda amara e drammatica, a tinte forti, per alcuni aspetti ottocentesca e incentra soprattutto sulla psicologia del protagonista, il giovanissimo investigatore Veniamin Malysev, detto “Ven’ka” che crede nell’umanità e soprattutto nella verità. È l’eroe sfortunato di questa avventurosa caccia a una banda ribelle, e alla fine benché “vincitore” si sentirà tradito dalle istituzioni, ovvero dalla polizia di cui fa parte, che mancherà a una promessa e falsificherà a scopo propagandistico la ricostruzione dei fatti; ma è anche una vittima d’un amore assolutamente romantico, in questo caso per una imprevedibile serie di equivoci che lo condurranno alla disperazione. Non sarà forse il caso di anticipare la trama, piuttosto avvincente tra incontri misteriosi con i banditi, lunghe marce con gli sci ai piedi nella tormenta, cavalcate nel buio della foresta, incontri pericolosissimi con orsi all’occorrenza feroci. Basterà segnalare l’abilità con cui Ven’ka tesse la sua tela.
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Diventa amico d’un guerrigliero (diciamo così “riluttante”), nel senso di un mutuo rispetto; organizza la trappola decisiva spostandosi senza sosta da un villaggio all’altro (e sono grandi distanze); si innamora perdutamente d’una affascinante attivista finita per caso o beffa del destino nella cittadina dov’è la stazione di polizia: tanto perdutamente che si perderà.
Intorno a lui personaggi con spesso un fondo ambiguo: un giornalista cialtrone, un capo dotato di una certa rigidità mentale, giovani operai ignoranti ma simpatici e idealisti, e il compagno fedele che è poi la voce narrante. L’interesse del libro è proprio nella sua dosata ambiguità: in fondo Nilin – che in gioventù era stato proprio un funzionario di polizia investigativa in quelle lande lontane e la foresta, questo si vede ed è il pregio maggiore, la conosce bene – aveva avuto una carriera da giornalista e persino un premio Stalin nel ’41, per la sceneggiatura di un film tratto da un suo romanzo del ’36 sui minatori del Donbass.
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Quando scrive, è ben integrato, parte di un’élite. Ma il suo romanzo si gioca tutto su un difficile discrimine: e la conclusione amara della voce narrante, a molti anni di distanza, non condanna per così dire il sistema ingiusto, semmai le ingiustizie – la singola ingiustizia in questo caso – che si commettono “in nome di una forza superiore”.
Condanna o meglio rifiuta la storia come impostura inevitabile, e le bugie “a fin di bene” che in questo caso finiscono per stritolare un uomo libero e coscienzioso; anzi le ribalta sul presente: “E il senso di dolore e collera e rimpianto – sono le ultime parole del narratore, con cui si chiude il libro – ancora oggi non si è affievolito in me”
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