Lo spettacolo “Cuore di cane”, adattamento teatrale del classico di Michail Bulgakov, scritto da Stefano Massini e interpretato da Paolo Pierobon sotto la direzione di Giorgio Sangati, è una riscrittura che coglie infiniti spunti e sottolinea l’attualità del libro del 1925. E nel sottosuolo di questa messa in scena (letteralmente una gabbia dove si aggira in principio la bestia umana, in quello che sembra una sorta di spazio oscuro incastrato dallo scenografo Marco Rossi sotto al palco, ad altezza cane, e di spettatore) albergano il gotico di Frankenstein e il distopico orwelliano, il surrealismo di Alice e l’onirico ironico kafkiano… – L’approfondimento

Teatro bello è, chi bello teatro fa. Si potrebbe anche dire così, usciti da questo spettacolo, mimando le inversioni sintattiche anacolutiche di un Forrest Gump tutt’altro che cane, messe in muso a quel idiot savant rivelatore, incarnato dal bravissimo Paolo Pierobon, che si agita sotto e sopra al palco.

Cuore di cane
Cuore di cane, fino al 10 marzo al Piccolo Teatro Grassi di Milano

Per impersonare questo ragazzo selvaggio dal cuore animale alle prese con la lingua degli uomini (e i suoi gioghi di parole) e col ruolo di nuovo homunculus assegnatogli dalla società sovietica (un piccolo scarto di pronuncia, in fondo, distingue il peso del “diranno” da quello del “tiranno”), l’attore usa ogni parte del corpo e ogni tono della voce, inverte le parole-verso, combinandole in intuizioni politicamente sempre più taglienti e rivoluzionarie: Pallino infatti, nel divenire Pallinov (via trapianto di ipofisi e pigmalionico addestramento, per altro anche qui per minimo slittamento linguistico), in una metamorfosi a contrario e in controluce rispetto a quella dell’appena precedente Gregor Samsa, transita con virtuosa gradualità – per proseguire sul sentiero cinefilo piuttosto che cinofilo – dal muto lamento di un elephant/dogman a una grimasse criminale robertdenirica (fra la paura di Cape Fear e l’Al Capone di Gli intoccabili), da una prigionia dominante e minacciosa alla Hannibal Lecter alla melliflua crudeltà di un mostruoso Peter Lorre reincarnato nel fascino spietato e mefistofelico di un Kevin Spacey.

Questo solo per dare un’idea plastica allusiva e illusiva della trasformazione e del trasformismo (dei cambi di pelle e di pellicola) che l’attore, sotto la direzione solida di Giorgio Sangati, inietta in un personaggio che, nelle pagine veggenti di Michail Bulgakov del 1925, tradotte per le tavole del palco odierno da Stefano Massini, è il cuore, fisico e simbolico, di una riscrittura che coglie infiniti spunti e sottolinea l’attualità del libro. E nel sottosuolo di questa messa in scena (letteralmente una gabbia dove si aggira in principio la bestia umana, in quello che sembra una sorta di rientranza del golfo mistico o di rivelazione del luogo mitico del suggeritore, spazio oscuro incastrato dallo scenografo Marco Rossi sotto al palco, ad altezza cane, e di spettatore) albergano, e a tratti emergono nel laboratorio degli orrori e degli errori allestito in superficie, il gotico di Frankenstein e il distopico orwelliano, il surrealismo di Alice e l’onirico ironico kafkiano.

Cuore di cane

La messa (in scena) laica e scientista è officiata con pathos dal prof. Filipp Filippovič e dal fido e crudele dottor Bomentàl (rispettivamente un Sandro Lombardi ben compreso nel superomistico ruolo, e un Giovanni Franzoni al servizio perfetto del padrone e del personaggio), che entrano alle spalle del pubblico, ascendendo, per marchingegno scenico, al luogo del loro delirio di onnipotenza scientifica, politica e alchemica, un palco adibito a pulpito ideologico, laboratorio faustiano ed eugenetico, spazio di una nuova forma di cittadinanza, in cui emancipazione e neo-servitù si confondono (il soggetto-oggetto del diario clinico è del resto nato con la camicia… di forza). Questo altare sacrificale è illuminato da tutte le declinazioni delle luci artificiali (dal bulbo della lampadina all’algido neon, dal verde led al lampadario borghese, dal fumo di ghiaccio secco al lampo del magnesio fotografico), per far scoccare la scintilla illusoria e spietata da cui può/deve nascere l’Uomo Nuovo.

Il registro grottesco dell’apologo imperituro di Cuore di cane è potente e denso, stratificato, proprio perciò da maneggiare con grande cura. I rischi, di evocare più lo spirito di Frankenstein Junior che quello di Mary Shelley (vedi alcuni tratti caricaturali), di appiattire troppo la parabola su di un presente alla Grande Fratello vestito alla 1984 (forse non è un caso, correnti sotterranee e spirito dei tempi, che proprio nell’URSS della ricerca scientifica sia ambientato in questi giorni a Parigi DAU, esperienza esperimento di ricreazione di un laboratorio scientifico definito dal Guardian un “Truman Show stalinistadi cui tanto si parla in questi giorni), a tratti fanno capolino, così come le sottolineate analogie con l’homo grillinus paradossalmente rischiano di guastare, proprio perché intese troppo alla lettera, la loro efficacia.

Cuore di cane

Eppure lo spettacolo tiene benissimo le sue due ore e venti di involuzione, fra raccapriccio e satira, raccontando con un virtuosismo che è più nell’interpretazione e nell’interazione che nella scrittura, una storia che in molti tratti ci tocca ancora (come fa la bestia, scendendo in platea prima dell’intervallo), nelle nostre illusioni di salvezza e palingenesi come nelle ferine e canagliesche derive che ci possono abitare, sotto sotto.

L’AUTORE: sulla pagina autore tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

 

nota: le foto dello spettacolo sono di Masiar Pasquali

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