Il sesto volume di “K”, la rivista letteraria de Linkiesta, è dedicato alla Magia. Su ilLibraio.it uno dei racconti inediti: “Denti” di Ilaria Gaspari

Denti

di Ilaria Gaspari

Il sogno era già tornato due, tre, quattro volte; abbastanza spesso da permettermi di pensare di avere anch’io un sogno ricorrente. Era ora: di solito dimentico tutto al risveglio, e quando qualcuno mi parla dei suoi sogni ricorrenti io non so mai cosa rispondere e nemmeno cosa pensare. Da quando ho cominciato sognare la donna in vestaglia, finalmente, una risposta ce l’ho anch’io. È raro, però, che ne parli. Ho sempre la sensazione di tradire un segreto.

Nel sogno c’è il sole. Un sole d’inverno, brillante, freddo nel cielo azzurro – un cielo romano, direi, ma chi lo sa. I cieli della città in cui sono cresciuta non sono mai così azzurri, d’inverno. Comunque, nel sogno c’è il sole ed è importante perché entra dalla grande vetrata, quasi mi acceca tanto è forte; un sole bellissimo, troppo perché io non mi chieda, ogni volta con le stesse parole: com’è che non sapevo di questa stanza?

Eppure la stanza è in casa mia. Nella casa dove abito, che nel sogno è piena d’ombra – forse solo per via del contrasto con la stanza segreta, tutta al sole. Nel sogno cammino per il corridoio scuro, sono scalza. L’armadio in fondo al corridoio, quello dove teniamo i cappotti, non è un armadio, è una porta. Che strano, non ci ho mai fatto caso.

Apro la porta e sono nella stanza. Una vetrata immensa, sostenuta da una struttura sottile di piombo per cui la luce si riversa sul pavimento in un reticolo di quadrettini che per qualche ragione mi riempie il cuore: se il riflesso del sole non fosse spezzato dai profili in ombra, non sarebbe la stessa cosa. Non si capisce bene a che uso sia adibita, questa stanza segreta. Il soffitto è un lucernario immenso, potrebbe essere una serra. O un giardino d’inverno. C’è una piccola giungla di piante, banani e ficus elastica, piante d’appartamento robuste e imponenti, compatte, quasi un’isoletta tropicale di fronte al divano lungo, ricoperto di stoffa lucida. Tutti i mobili sono di plastica dura, rosso lacca. Potrebbe essere il set di una commedia brillante girata negli anni Sessanta, questa stanza somiglia all’illusione di un futuro che presto è diventato antiquariato. Mi piace. Dove ci si aspetterebbe un tavolino da caffè, davanti alla poltrona larga con schienale e braccioli bassi, sempre di chintz rosso fuoco, c’è un piccolo stagno, ma non tondo: quadrato. Dentro ci crescono le ninfee, fiori d’acqua bianchi e freschi sopra foglie scure. Sotto la vetrata corre una libreria bassa, vedo le coste dei libri, tutte bianche. Non riesco mai a leggere i titoli. Nell’angolo, al sole, fioriscono le orchidee. C’è anche un bancone alto, e seduta al bancone, arrampicata anzi su uno sgabello, c’è una donna in vestaglia che fuma una sigaretta molto sottile e sfoglia una rivista di moda.

Non l’ho mai vista in vita mia, se non nei sogni, dove ricompare ogni volta identica: ogni volta è il nostro primo incontro.

Mi sorride e non mi tratta da intrusa, anche se è chiaro che lì si sente a casa. Il che è singolare, dato che siamo dentro casa mia. Nemmeno io, però, la tratto da intrusa: sta talmente bene, con la sua vestaglia di velluto a fondo nero e fantasia floreale, con la sua rivista, la sua sigaretta sottile.

Me ne offre una, mi porge il pacchetto, dico di no. Anche se mi piacerebbe provare com’è, fumare in sogno. Chissà se nuoce alla salute. Magari, una volta o l’altra proverò.

Le dico: non sapevo che ci fosse questa stanza.

Lei dice: e invece dovresti saperlo. Io non so mai cosa rispondere. Allora lei insiste: secondo me te lo sei dimenticato. E continua a fumare e a sfogliare la sua rivista, come se io non fossi lì.

Con un dito sento se la terra nei vasi delle piante è umida. Lo è sempre, e tiro un sospiro di sollievo, perché se quelle piante contavano su di me per sopravvivere, certo non sono stata di grande aiuto. Eppure stanno benissimo.

Non preoccuparti, mi dice lei come se indovinasse i miei pensieri, e io non so se la devo ringraziare per essersi presa cura di quelle piante. So solo che soffrirei, se rientrando le trovassi tutte morte.

Se avessi tempo di andare dall’analista, so già che cosa mi direbbe. Mi direbbe che la stanza segreta non è segreta, che rappresenta un mio qualche desiderio rimosso, se non addirittura una parte di me che rifiuto di riconoscere. E mi verrebbe da ridere, perché sono talmente tante, le parti di me che rifiuto di riconoscere, che c’è l’imbarazzo della scelta. Prima che arrivi a identificarne una, sarebbe passato un altro spicchio di vita, e probabilmente è questa la ragione per cui non riesco a trovare il tempo per andare dall’analista. Del resto, la cosa che mi premerebbe fare, insieme all’analista, sarebbe trovare un modo più razionale di gestire il mio tempo: finché non ci vado, rimane un gomitolo aggrovigliato e inservibile di ore, giorni, settimane. Impossibile trovare il bandolo, lascio tutto com’è.

Non ho tempo, non lo trovo, non lo troverò.

Il fatto è che la donna, sarà anche stupido, ma mi ossessiona. Soprattutto dacché l’ho sognata l’ultima volta. La notte dopo che avevo perso il dente.

Da cui la domanda, a prima vista superstiziosa, ma serissima: che sia lei, la mia signora in vestaglia, la famosa fatina dei denti?

La storia del mio dente è molto lunga, e anche noiosa, come spesso sono le storie dei nostri malanni. E, naturalmente, anche quelle dei sogni. Qualsiasi manuale di scrittura creativa vieta di raccontarle. Invece eccoci qua. Il dente, dicevo: rotto per la prima volta all’età di undici anni, durante la ricreazione. Correvo con una gamba legata alla gamba di Fiorenza Nuvoloni, era una gara fra non so più quante coppie di bambine, tutte con la gamba legata a quella della compagna. Uno dei giochi più stupidi che abbia mai fatto. Solo noi due però abbiamo avuto l’incidente. Un ragazzino che giocava a calcio, all’altro capo del cortile; era il portiere, la porta due felpe buttate per terra, ho urlato un attimo prima dell’impatto ma non mi ha sentita, non si è spostato. Gli hanno messo sette punti all’orecchio, io mi sono spaccata il dente. Il giorno dopo, a scuola mi chiamavano Mike Tyson.

È venuta a prendermi la mia mamma, non molto contenta, come si può facilmente immaginare. La circostanza inquietante è che anche lei, molti anni prima, quando aveva undici anni come me si era rotta lo stesso dente, giocando. Incisivo superiore sinistro.

A diciassette anni un nuovo trauma: un ragazzo mi bacia di sorpresa, io non me l’aspettavo e gli do una testata. Salto su strillando che mi si è rotto il dente, è estate, con la lucina del suo Nokia cerchiamo nel prato il frammento, non lo troviamo, lui non è per nulla contento, io sono nel panico. Dopo il primo urto di sei anni prima, quando ero una bambina, il dente di nuovo si è rotto.

E di nuovo, quest’anno, che non sono più una ragazza ma una donna. Nel frattempo mi hanno messo un impianto, e una sera d’inverno l’impianto si è staccato, come niente fosse. È stata una strana sensazione, anche perché non potevo più mangiare: ho cercato di non pensarci, mi sono pure rallegrata che avrei perso quei due chili che mi piace pensare di perdere, di tanto in tanto. Continuavo però a pensare al momento in cui il dente si è staccato. Sono andata a dormire affamata, e nel sogno ero ancora nel corridoio buio.

Nella mia casa, in un tempo non lontano, ha vissuto un bambino. Non l’ho conosciuto, ma ho visto le tracce del suo passaggio. La stanza in cui dormiva è diventata il mio studio. Ho pitturato le pareti di un altro colore, e tante volte, mentre lavoro, penso a lui che giocava su quel pavimento. Chissà se gli piaceva, la finestra sul cortile, o se era troppo alta per arrivare al davanzale. Chissà se ora, che vive in un’altra casa, si ricorda di questa cameretta che è stata sua, e che ora è piena di libri e di candele, di quadri e di talee. La stanza segreta del sogno si spalanca da un armadio a muro che sta proprio accanto al mio studio, già cameretta del bambino che ho visto solo una volta in fotografia – non so se lo riconoscerei, incontrandolo. Oltretutto nel frattempo sarà cresciuto, i bambini diventano ragazzi a una velocità impressionante, sarà cambiato troppo per poterlo ritrovare. Nel sogno, comunque, lui non c’è mai, e la donna del sogno, ci giurerei, non somiglia a sua madre.

La ritrovo nella stanza piena di sole la notte che ho perso il dente. La donna, dico; sempre in vestaglia, con la sua rivista aperta davanti.

Di nuovo mi offre la sigaretta sottile e di nuovo le dico di no. Ho paura a sorridere perché non voglio che veda il dente – il dente che mi manca. Dormo, ma non ho perso la consapevolezza di quel vuoto. L’ultima volta che avevo avuto la finestrella aperta avevo sei anni, forse. Poi undici, poi diciassette. Spero che questa sia l’ultima volta, per sempre, mi dico, e forse lo dico anche alla donna del sogno.

Lei ride e mi dice di stare tranquilla.

Io le rispondo che sono tranquilla, ma non è comunque una bella sensazione.

Lei mi dice che se guardo sotto il cuscino magari ci troverò qualcosa. Non succedeva così, quando perdevi i denti?

Io le dico che allora ero una bambina, ora non lo sono più.

Lei mi dice, ma sei proprio sicura?, e qualche dubbio viene pure a me.

La mattina, quando mi sveglio, apro gli occhi e la bocca e sento che il dente non c’è. Speravo di averlo sognato, somigliava a un sogno di quelli persistenti, che ti lasciano addosso una brutta sensazione. Invece era tutto vero, persistente sì, perché reale – ci sarebbe da stupirsi del contrario. Il sogno mi torna in mente e infilo una mano sotto il cuscino.

C’è una chiave.

Chiedo all’uomo con cui vivo, che dice che mi ama lo stesso anche se per qualche giorno sarò senza dente (ma io non so se fidarmi, all’inizio, e parlo con una mano davanti alla bocca), se è uno scherzo. È stato lui?

Non è stato lui.

E del resto, come avrebbe potuto sapere del sogno che ho fatto stanotte? Non fa una piega. I sogni sono strettamente personali, è una delle cose che mi fanno rompere la testa sulla bizzarria del dormire insieme.

Ma com’è possibile che non sia stato lui?

Magari sei stata tu. Insinua che sia una sonnambula. Figurarsi.

È allora che mi viene il sospetto che la donna del sogno in realtà non sia che la fatina dei denti.

Il fatto è che adesso ho una chiave. Di quelle con lo stelo lungo e il dentino scanalato. Ho scoperto che la parte della chiave che sposta il chiavistello si chiama dentino, non è buffo? La signora del sogno, se è davvero la fata dei denti, deve avere un curioso senso dell’umorismo. Ma, dicevo: il fatto è che adesso ho una chiave, una chiave identica a tante altre – anche se so che ogni dentino è diverso, altrimenti sarebbero tutte passe-partout e le serrature non servirebbero a niente – che però non mi pare di aver mai visto prima. Non so da dove salti fuori e non so cosa apra.

Probabilmente la signora del sogno vuole che lo scopra. Di che porta è la chiave, questa che ho in mano. La provo in tutte le serrature di casa; le nostre porte, le chiavi le hanno perse, forse non ci sono mai state. Non ce n’è mai stato bisogno. Oltretutto, dietro una di queste porte c’era la stanza di un bambino – è pericoloso, lasciare che un bambino possa chiudersi a chiave. Forse è per questo, mi dico, che le chiavi non ci sono.

La mia chiave non apre nessuna porta nell’appartamento. Controllo se l’armadio a muro abbia un doppio fondo: sarebbe bello, sarebbe poetico e anche un pochino spaventoso, se si aprisse con questa chiave, se mi spalancasse la stanza del sogno. Non succede. Non c’è nessun doppio fondo.

Controllo se apre il cancello della terrazza condominiale. Non lo apre affatto, la chiave della terrazza dovrebbe essere di tutti e invece ce l’ha solo il notaio che sta al quinto piano. Un’ingiustizia bella e buona, ma noi alle riunioni di condominio non ci andiamo mai e quindi non mi pare di avere il diritto di protestare. Per la prima volta mi chiedo se nel palazzo in cui abito ci sia una cantina – non è strano che non mi sia mai posta il problema?

La cantina non c’è, dunque la chiave non può aprirla. E non apre nemmeno la chiostrina dove nessuno può lasciare la bicicletta – altra bizzarria condominiale su cui non mi sono mai soffermata.

Ho una chiave inservibile, non so da dove venga e non so cosa apra. Pesa nella tasca del cappotto come se fosse fatta di piombo – ma forse è solo perché non riesco a pensare ad altro. Cammino piano; la chiave mi rallenta, pendo tutta verso sinistra, verso la tasca appesantita dal pensiero, storta come un tortiglione.

Ho letto che la memoria trattiene solo le cose che vogliamo ricordare.

Io ricordo la faccia del bambino che abitava nella mia casa e dormiva nella stanza che ora è il mio studio. La ricordo e la riconosco anche se il bambino ora è cresciuto, avrà già nove, dieci anni, è alto e sottile, ma gli occhi sono i suoi. È per mano a una donna che forse somiglierà pure a quella del sogno, ma non può somigliarle troppo, perché la donna del sogno non esiste, e questa invece esiste eccome. È la madre del bambino, non ho dubbi.

E chissà perché, sono sicura che loro mi sapranno dire cosa apre la chiave, e perché mi è comparsa sotto il cuscino. Devo solo attraversare la strada.

Ho gli occhi su di loro, la chiave pesa nella tasca, gli occhi su di loro e non faccio la cosa che bisogna sempre fare, prima di attraversare. Non guardo a destra e poi a sinistra, guardo solo quei due che si allontanano lungo il marciapiede, in una piccola folla che li inghiotte.

E pensare che l’avevo pure sperato, di aver perso il dente per l’ultima volta.

k linkiesta magia

IL NUOVO NUMERO DELLA RIVISTA – Il sesto volume di K, la rivista letteraria curata dalla scrittrice Nadia Terranova e da Christian Rocca per Linkiesta, è una raccolta di racconti originali e poesie scritte da autori italiani, ed è dedicato alla Magia.

I 16 racconti sono firmati da Marco Balzano, Camilla Baresani, Elisa Casseri, Antonio Franchini, Ilaria Gaspari (che pubblichiamo per gentile concessione della rivista e dell’autrice, ndr), Irene Graziosi, Anilda Ibrahimi, Federica Manzon, Beatrice Monroy, Raffaele Notaro, Tommaso Pincio, Veronica Tomassini, Michele Vaccari, Carlotta Vagnoli, Daniele Vicari ed Ester Viola. Spazio inoltre all’intervista larga di Annalisa De Simone a Sandro Veronesi, a infografiche e alle poesie di Silvia Bre, Tiziana Cera Rosco, Laura Liberale, Franca Mancinelli, Silvia Righi, Elisa Ruotolo, Sara Sermini e Sara Ventroni.

La rivista si può acquistare nelle librerie e online sullo store de Linkiesta.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice e collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne.

Scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust.  Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.

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