Quante volte ci forziamo a reprimere un’emozione? Lo facciamo perché ci vergogniamo dello sguardo degli altri. O perché siamo abituati a diffidare delle emozioni, analfabeti del discorso emotivo… Su ilLibraio.it il capitolo su “Rimpianto e rimorso” dal nuovo libro di Ilaria Gaspari “Vita segreta delle emozioni”

Quante volte ci forziamo a reprimere un’emozione? Lo facciamo perché ci vergogniamo dello sguardo degli altri. O perché siamo abituati a diffidare delle emozioni, analfabeti del discorso emotivo. Eppure, è proprio quello che sentiamo a permetterci di conoscere il mondo.

Ognuna delle emozioni che proviamo ha una storia: la storia di tutte le persone che l’hanno provata, detta, cantata, rivelata, studiata. Una storia di vita segreta e di metamorfosi, legata alla filosofia, che ne ha costruito paradigmi di osservazione e di studio; ma anche alla letteratura e alla poesia.

Vita segreta delle emozioni (Einaudi), il nuovo libro di Ilaria Gaspariche da tempo collabora con ilLibraio.it, è un viaggio emotivo per tappe: ricostruendo le vicende delle parole con cui diciamo i nostri stati d’animo, traccia, un pezzetto alla volta, un autoritratto frammentario, imperfetto. Perché nel nostro essere vulnerabili ci somigliamo tutti; e riconoscerci emotivi significa prendere coscienza del fatto che abbiamo dei bisogni e che proprio questi bisogni ci rendono umani.

L’autrice ha studiato filosofia alla Scuola Normale Superiore e si è addottorata all’Università Paris I Panthéon Sorbonne con una tesi sullo studio delle passioni nel Seicento.

Nel 2015 per Voland è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario. Nel 2018, per Sonzogno, Ragioni e sentimenti – L’amore preso con Filosofia. Per Einaudi ha pubblicato anche Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (2019), già tradotto in diverse lingue.

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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo:

Rimpianto e rimorso, ovvero: confesso che ho vissuto

“Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d’allora.
Il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovine ancora”.
Guido Gozzano

Soffro di un lieve disturbo cognitivo, si chiama amusia e, per dirla in due parole, mi ostacola la fruizione della musica, un po’ come la dislessia rende più difficile a chi ne è affetto leggere e scrivere. Non è che io non senta la musica; la sento benissimo, solo che fatico a ricordarla, a riconoscerla e a decifrarla, a meno che non mi ci concentri con tutte le mie forze. Perché la musica mi parli, perché mi emozioni, devo fare uno sforzo in più rispetto agli altri; mi dico che forse è nata da qui, la mia attrazione profonda per le parole. Non è un dramma, si vive lo stesso; era amusico Freud, pare, e sicuramente lo era Che Guevara, che una volta imbarazzò tutti ballando un tango sulle note della milonga, o forse era il contrario? Non lo so, e comunque, che differenza fa; tanto non capirei cosa cambia. Ma se mi chiedessero un desiderio da esaudire per un giorno, risponderei: vorrei capire la musica, sentirla. Poter ballare a tempo, cantare intonata, per un giorno. Ascoltare una melodia e saperla imprimere nella memoria. Il mio grande rimpianto è che invece probabilmente non saprò mai che cos’è davvero la musica.

Quando avevo dieci anni, forse anche nove, mi regalarono un libro di poesie di Ungaretti. A quel tempo mi piaceva imparare le poesie a memoria – forse era il mio modo di compensare il fatto di soffrire di amusia e non essere quindi in grado di cantare se non con grande strazio e stridor di denti? Non lo so; so che di quelle poesie ne imparai a memoria una che ricordo ancora, e non era M’illumino | d’immenso, ovvero quella che per scherzo tutti gli adulti, vedendomi con il libricino in mano, mi dicevano di aver imparato pure loro, pensando che fosse divertente come boutade, e in effetti abbastanza divertente lo era. Ma insomma, la poesia che ancora ricordo, era quella che inizia così: «Si chiamava | Moammed Sceab | Discendente | di emiri di nomadi | suicida | perché non aveva più | patria…»1.

Era una poesia sulla giovinezza parigina di Ungaretti, anzi, sul coinquilino (già amico d’infanzia: si erano conosciuti bambini ad Alessandria d’Egitto) con cui aveva vissuto a pensione in rue des Carmes, «appassito vicolo in discesa» che, molti anni dopo aver imparato quei versi, avrei riconosciuto nel Quartiere Latino, fra negozi di fiori e di dischi, librerie, cinema e brasseries, e naturalmente coiffeurs, poco distante dalla statua di Montaigne a cui si dice porti fortuna strofinare con la mano la punta della scarpa, che difatti è tutta lucida, più chiara del bronzo della calza e della gambetta smilza in posa. Ogni volta, passando per quella strada, che oggi di appassito ha ben poco, ritrovavo il verso sul vicolo in discesa; e pensavo a Sceab, che “fu Marcel | ma non era francese”. Era, quella, una poesia sulla solitudine, e lo sapevo persino a nove anni, mentre per imprimerla nella memoria mi figuravo un’immagine da associare a ogni verso – avevo legato all’aggettivo “appassito” la penombra del vicolo, salvo poi scoprire, quindici anni dopo, che di penombra in rue des Carmes non ce n’era, c’era invece quella bella luce lattiginosa, chiara, opalescente di Parigi, che ti illude di essere vicino all’oceano. Ma non è solo una poesia sulla solitudine dell’apolide suicida; c’è dell’altro. C’è quel qualcosa che faceva dire ai grandi, dopo la battuta su “m’illumino d’immenso”, che forse non erano poesie adatte a una bambina. Io mi adombravo, ero convinta di sapere molte cose, come spesso succede di credere da ragazzini. È diventando adulti che ci si rende conto di non sapere assolutamente niente – almeno, così sta succedendo a me. Comunque, oggi penso che a spingerli a dire che non era una poesia adatta a una bambina della mia età non fossero la solitudine e la disperazione del povero Moammed Sceab. Ma una cosa che capisco solo adesso, rileggendola: che è una poesia sul rimpianto, sul tempo perduto, sulle occasioni sfumate come nella mia testa sta sfumando, ogni mese che passa, il ricordo della vita che credevo di iniziare al tempo in cui scoprivo rue des Carmes, e che poi ha preso un’altra direzione.

Nessun bambino sa cosa sia il rimpianto, se non in quel modo, appunto, in cui i bambini si convincono di sapere le cose; ma il rimpianto è un’emozione che mal si attaglia alla prima giovinezza. Da ragazzini ce lo possiamo immaginare, ma lo immaginiamo per via poetica, per sprazzi di intuizione. Per conoscere il rimpianto bisogna invece aver vissuto abbastanza da sapere cosa voglia dire, e quanto pesi, e quanto sia amara, una frase di sole tre parole: è troppo tardi.

Troppo tardi per salvare Marcel, troppo tardi per tornare, ancora, al vicolo in discesa, schioccare le dita e per incanto ritrovargli la grazia appassita che, è chiaro, nel ricordo intenerisce lo sguardo di Giuseppe Ungaretti già poeta (e soldato), comunque non più sgarrupato studente che vive a pensione. Ungaretti maturo, che ormai sa come sono andate le cose.

Saremmo tentati di pensare che il rimpianto somigli alla nostalgia, e invece credo che sia qualcosa di ben diverso. La nostalgia riguarda i luoghi (luoghi a cui il tempo sbarra l’accesso). Mentre il rimpianto, e il rimorso – da cui ci affanniamo ogni volta a distinguerlo, sostenendo per esempio che di rimpianti non vogliamo averne, mentre il rimorso siamo disposti ad affrontarlo – riguardano il tempo: occasioni perdute nel caso del rimpianto, errori più o meno volontari, nel caso del rimorso. Ma, in realtà, se li guardiamo bene e facciamo scattare una molla segreta, si spalancano gli ingranaggi e vediamo che, più che al tempo, si riferiscono entrambi, rimorso e rimpianto, alle scelte. Alle scelte che non abbiamo avuto il coraggio di fare, e rimpiangiamo; a quelle che invece abbiamo avuto l’ardire di affrontare – e però, erano sbagliate. Mi è sempre parsa strana l’idea che il rimorso sia più tollerabile del rimpianto; penso che sia legata semplicemente al suo carattere pragmatico, performativo, all’idea di poter riparare. Mentre il rimpianto ci costringe ad arrenderci al pensiero che niente ritorna più, e non ci bagneremo due volte nello stesso fiume: la stessa terribile verità che la nostalgia ammanta fin da subito di polvere magica per addolcirla ai nostri occhi. Rimpianto e rimorso, invece, sono accomunati dal senso del tempo che scorre tutto in una direzione; dalla coscienza di aver vissuto. E vivere, anche se non lo vorremmo, è questione di responsabilità e scelte.

Per questo, a differenza della nostalgia, che può colpirci già fin nell’infanzia o poco oltre, il rimpianto aspetta che siamo cresciutelli. Perché ci vuole un cuore, se non spezzato, almeno un po’ incrinato, per capire il peso della libertà. Perché la giovinezza non conosce il pentimento, o meglio, non lo conosce se non in un senso ideale, o immaginato, o ingigantito; non nel reale assottigliarsi delle occasioni, nel consumarsi delle possibilità. Avete mai visto cosa succede a un mazzo di tulipani in un vaso? Prima sbocciano, e sembrano completamente nuovi: come se niente potesse minacciarli, come se quell’aria levigata dovesse durare per sempre. Poi, in un batter d’occhio cambiano: si aprono, si spanano, sembrano sporgersi in fuori dagli steli. Sono belli lo stesso, ancora per poco, poi i petali cadranno. Si vede che non possono durare in quelle condizioni. La vita, quando è tutta nuova, è immune al senso d’irreparabile, o comunque lo ignora facilmente; come in una poesia molto bella di Sandro Penna: «Forse la giovinezza è solo questo | perenne amare i sensi e non pentirsi»2.

Pentirsi da bambini, in effetti, è un’impresa, o almeno lo è stata per me. A otto anni, alla mia prima confessione, lasciai allibito il parroco: singhiozzavo, in ginocchio nel confessionale, «non riesco a pentirmi». Avevo scandagliato la mia vita in cerca di peccati, ero convinta di averne scovati fin troppi – non saprei più dire quali, se non: parolacce che mi provocavo a pensare, non a dire, allo scopo preciso di trovare materiale da confessione. Il parroco mi diceva, ma sì, di’ un’Ave Maria, anche due se vuoi, vai pure; ma io, continuando a singhiozzare che non riuscivo a pentirmi, di uscire dal confessionale non ne volevo sapere.

Oggi rido, ma ricordo anche, e benissimo, quanto mortalmente seria mi apparisse all’epoca la faccenda. Inaccettabile la latitanza del rimorso; fuori luogo il sorriso del parroco, che indovinavo dietro la raccomandazione alla preghiera. Non sapevo, a otto anni, non avendo letto Melanie Klein, che nell’infanzia è più forte, più assoluto, il desiderio – il bisogno – di farci perdonare: poiché nelle fantasie infantili sono i nostri genitori i più vulnerabili alle nostre malefatte, è a loro che chiediamo disperatamente perdono, cercando di fare ammenda. L’intensità che ha il rimorso da bambini, quando esiste come fantasia, è difficile ritrovarla, se non nel ricordo, una volta che ci si è abituati al mondo.

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A otto anni piangevo nel confessionale, senza che avessi combinato niente di male; ora, che di confessioni ne avrei a bizzeffe, ho fatto il callo al senso di colpa. O forse no? Forse oggi mi vergogno, più che provare rimorso: il rimorso è in fondo un’emozione ottimista, uno sforzo speranzoso di poter raddrizzare i torti. Dirsi: adesso riparo, sistemo tutto, è tutt’altra cosa rispetto alla vergogna con cui si prende atto dei propri difetti. È un’idea che ha a che fare con l’intento – magari un po’ velleitario – di emendarli, quei difetti. Il rimorso sa appagarsi anche solo nell’immaginazione; oltretutto, come emerge dall’analisi a cui il filosofo J. L. Austin ha sottoposto l’atto linguistico dello «scusarsi», il suo aspetto performativo non ha poco peso: quando chiediamo scusa esprimiamo il nostro dispiacere per qualcosa… proprio nel momento in cui interveniamo per modificarla.

Io passo molto, troppo tempo a scusarmi. Mi scuso se sono in ritardo, eppure continuo a procrastinare, dunque a ritrovarmi in ritardo. Mi scuso se qualcuno mi pesta un piede. A volte mi scuso pure quando mi arrabbio. Ma è rimorso, quello che mi porta a scusarmi? Non credo; non direi. È come se volessi creare un perimetro preciso intorno alla mia persona, proteggerla dal mondo e insieme rendere il mio passaggio nel mondo inavvertito, riassorbirlo quasi, dentro alle scuse. È un atteggiamento molto più nevrotico di quanto non sarebbe il puro e semplice rimorso, che questo mio scusarmi scimmiotta, supera, evita.

D’altra parte, la storia medievale di questa peculiare forma di pentimento mi rivela che non c’è niente di strano se mi sento sdoppiata fra un rituale passionale – lacrime nel confessarmi, scuse compulsive che nascondono, coprono e insieme rivelano un desiderio di espiazione non troppo lontano da quello che un tempo doveva spingere i penitenti a cospargersi il capo di cenere, portare un cilicio che strazia le carni, farsi frustare come niente fosse –, e il ragionevole progetto di fare ammenda. Fra la devozione performativa, espiatoria, che qualche volta metto in atto per difendermi dall’evidenza che esisto, e un atteggiamento propositivo tutto razionale e controllato, un reale proponimento di riparazione simile a quella che Alberto Magno e Tommaso d’Aquino chiamavano contritio e immaginavano come una virtù tutta spirituale, senza bisogno di frustate, cilici o cenere sul capo.

Fatto sta che all’epoca della prima confessione io non cercavo una forma esteriore da dare al mio rimorso, ma una ragione per provarlo. Non la trovavo; e ora mi domando se la mia compulsione a scusarmi non sia in qualche modo il riflesso di quello che oscuramente sentivo in quegli anni: che se non riuscivo a trovare un appiglio, un gancio a cui appendere il senso di colpa informe che si aggirava già dentro di me, allora il mio stesso stare al mondo, di quella colpa doveva essere l’origine. Ho sempre avuto la sensazione che mi mancasse qualcosa, che il mio vivere fosse abusivo: guardavo gli altri, mi sembrava che in loro si sollevasse un vento, un istinto di vita più forte del mio. Io mi sentivo fuori tempo, sempre, a battere le mani tutti insieme all’asilo, fuori tempo a cantare in coro, e infatti non cantavo; fuori tempo a giocare a palla avvelenata, e il pallone mi planava sulla testa.

Ci sono voluti molti anni perché capissi che il mio sentirmi fuori tempo non è una cosa di cui vergognarmi, ma neppure una qualità che mi rende speciale; nasce semplicemente dal fatto che tutto il mondo che vedo, tutta la vita che vivo, la devo vivere da dentro me stessa, esplorando i miei limiti, i vicoli ciechi, le difficoltà. E non sono sola, nessuno è solo in questi sentimenti di esclusione che anzi ci accomunano molto più di quanto pensiamo; però è difficile saperlo, perché per pudore non ne parliamo mai, e facciamo finta di niente, facciamo finta di stare benissimo, di essere pronti a battere le mani insieme agli altri, a cantare quando cantano gli altri, e pazienza se in realtà muoviamo solo la bocca e la voce non esce. Chiedo scusa, oggi, per rimediare al mio sentirmi diversa, o per il desiderio di essere come tutti gli altri? Non so. Di certo, tutte queste scuse sottintendono un dolore, da qualche parte, che ho dimenticato, che ho seppellito a furia di chiedere scusa per le ragioni sbagliate. Fino a quando continuerò a scusarmi anziché prendermi cura dei miei errori, anziché raddrizzarli a uno a uno, con la certezza che non si può riparare tutto, ma provarci sì, non farò che arrabattarmi, avvitandomi sui miei abbagli. Finché non ci credo, finché non lo capisco davvero, resterò la bambina fuori tempo che piange dentro il confessionale ripetendo che non si sa pentire.

Come con la poesia di Ungaretti, anche allora si rideva di me e io non capivo; prendendomi molto sul serio, mi offendevo. Ma che ne potevo sapere, a otto, nove anni, di cosa vuol dire è troppo tardi? A nove anni non è tardi quasi per niente, o se lo è, non è ancora chiaro. Nel 1916 Ungaretti di anni ne aveva ventotto ed era al fronte, lontano da Parigi, dalla pensione al numero 5 di rue des Carmes; per lui, allora, era già troppo tardi, non poteva più salvare Moammed Sceab. Da quella lontananza, da Locvizza, scrive di lui. Ma a nove anni non sai cosa significhi «tardi»: quello che sai, al massimo, è che non trovi ragioni per pentirti. A ben pensarci, però, il rimpianto prematuro, il rimorso impossibile, sono tentazioni che ritornano, canti di sirene che ho sentito tante volte. Perché? Probabilmente è per via della mia paura di vivere. Tante volte, pur di non prendere una decisione, mi sono affidata, senza sceglierle, a cose che chiamo con altri nomi: pigrizia, trascuratezza, dimenticanza, procrastinazione. Addirittura, all’occasione, un bel lapsus freudiano – un atto mancato, a essere fiscali: la mia carriera accademica si è interrotta il giorno in cui ho letto male la data di scadenza di un concorso, l’ho letta come se il termine per presentare il dossier cadesse un mese più in là di quando in effetti cadeva. E ci ho creduto, e non ho inviato nessun dossier. E certo, poi avrei potuto aspettare qualche mese e riprovarci; ma quel che è successo dopo è che mi sono chiesta il perché di quella clamorosa sbadataggine. Ho provato a darle ascolto e mi sono accorta che avevo, semplicemente, fatto quello che volevo: solo, mi era tanto difficile confessarmi che io, quel concorso, non lo volevo fare, che il mio desiderio aveva dovuto tentare la strada dell’inconscio, dell’atto mancato. Se avessi avuto più coraggio mi sarei sobbarcata la responsabilità di una scelta consapevole, con annesso il suo rimpianto chiaro e tondo: niente carriera accademica, perdo quest’opportunità, chissà come sarebbe stato se invece…

La strada che ho scelto ha portato conseguenze identiche, identici rimpianti; solo che mi sono arrivati addosso di sorpresa, in un senso di fallimento, di rimprovero per l’eclatante trascuratezza della mia distrazione. Mi è servita, però, quella delusione cocente di me stessa, per riflettere su quanto vivere sia anche imparare a scegliere, e quindi a perdere. Per ogni cosa che facciamo, per ogni cosa che portiamo in atto, ce ne sono mille a cui ci tocca rinunciare.

Il legame fra rimpianto e perdita, del resto, è evidente fin dai primi tempi in cui il francese antico iniziò a impiegare la parola regrés, per dire un dolore, una delusione; da cui l’inglese regret, che nel Quattrocento entrò nell’uso comune a indicare il lutto per aver perso una persona cara, o anche la propria posizione sociale: all’epoca, due perdite altrettanto irrimediabili. Pure in italiano, il significato più antico di rimpiangere, come di compiangere, è «piangere un morto». L’unica differenza è che, nel compianto, non si piange soli, ma insieme ad altri. La più perfetta raffigurazione plastica del verbo è lo sconvolgente gruppo scultoreo quattrocentesco di Niccolò dell’Arca, che occupa la prima cappella a destra dell’altare nella chiesa di Santa Maria della Vita, a Bologna. Attorno al cadavere si affollano le donne sgomente che, nel rimpianto e nel compianto, seguono un rituale devozionale preciso, senza perdere per questo in spontaneità. È così vero, quel gruppo, perché getta in faccia a chi lo guarda la scomposta violenza del dolore; che nelle donne, sfigurate dal gran piangere, è sonoro e movimentato malgrado la materia immobile del legno; mentre nell’apostolo Giovanni è un torturante crepacuore silenzioso, che lo rinchiude su sé stesso, lo attorciglia in un mutismo ancora più evidente per il contrasto con il chiasso immaginato delle Marie.

Il rimpianto, con il passare dei secoli, si è fatto più simile al dolore di Giovanni: più muto, privato, vicino all’indicibile. Conserva il legame con un qualcosa di perduto; ma ci è sempre più immediato associarlo a una perdita che riguarda noi in prima persona, non altri. Rimpiangiamo molto le occasioni sprecate, e questo anche perché subiamo una forte pressione, da un lato, a «realizzarci», a essere competitivi (e quindi ci pare imperdonabile «perdere il treno», come si dice, o rimanere indietro); mentre dall’altro lato, una pressione corrispondente ci spinge a consumare, a orientarci in una vastissima offerta a cui la pubblicità ci ha insegnato ad associare un modo di «disegnare» noi stessi e la nostra identità. Quindi perdere un’occasione – nel senso di un affare –, non comprare in saldo l’oggetto che ci renderebbe, per quel che possiamo immaginare, somiglianti all’idea di noi a cui ci vogliamo conformare, è a sua volta scaturigine di un rimpianto3. Sentiamo dire spesso: «preferisco un rimorso a un rimpianto», da chi per rimpianto intende l’occasione mancata, quella che non si è avuto il coraggio di cogliere. Oggi del rimpianto si ha vergogna, forse più che del rimorso: lo vediamo come un sintomo di fallimento, come uno scarto della paura, un atto di vigliaccheria. In realtà, però, è solo il segno che stiamo vivendo.

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Il rimorso è, in un certo senso, la controparte attiva del rimpianto: un po’ fuori moda, oggi, soprattutto se usiamo la minaccia del rimpianto come stimolo – se non cogli quest’occasione, lo rimpiangerai! Ma alla fin fine stiamo parlando di cose che si somigliano molto. Sono modi complementari di capacitarci del tempo che passa e non può avverare ogni condizionale; che anche i periodi ipotetici hanno una loro maniera di dissolversi, lasciando una traccia lieve, iridescente, visibile solo a una certa inclinazione, come bava di lumaca. E, naturalmente, che il privilegio del libero arbitrio lo paghiamo al prezzo di tutte le scelte che non faremo, via via che i dubbi li inghiotte il futuro anteriore, e si fa troppo tardi per fantasticare.

Oggi capisco che bisogna aver vissuto, e aver perso anche un po’, per conquistarsi una visione retrospettiva della vita. Oggi rido della bambina che si offendeva quando le dicevano che era troppo piccola per capire la poesia su una pensione disgraziata al numero 5 di rue des Carmes. E mi dispiace capire, però: mi sento come Wendy quando ormai è cresciuta, è una donna, e ha qualcosa da nascondere – le sue lacrime. Del resto, Peter Pan è probabilmente la cosa più bella che sia mai stata scritta sul rimpianto; e dire che ne sono state scritte parecchie. I bimbi perduti che vivono sull’Isola-che-nonc’è sono bambini morti in tenera età; per questo conservano l’infanzia, per questo non la perderanno mai, mai conosceranno il rimpianto di non essere più bambini – né i rimpianti dell’età adulta, tutti legati al senso del tempo che passa, al senso del «troppo tardi», sconosciuto finché è ancora presto. Il balzello che gli tocca pagare, però, per questa immunità al rimpianto, è alto: non vivere, non crescere, non conoscere che una meravigliosa esistenza irreale, su un’isola che non c’è.

Il rimpianto, l’occasione persa, è il tributo che tutti, se cresciamo, dobbiamo alla vita. Per un appuntamento che è finito con un bacio, ne abbiamo persi quanti? Per una cosa vera, un incipit riuscito, non scriviamo milioni di altre storie. Per questo il rimpianto è un’eccellente emozione letteraria, feconda in maniera quasi esagerata; come la gelosia, come la nostalgia; più ancora, forse, dell’amore. Con l’eccezione, naturalmente, dell’amore perduto, quello che per l’appunto si tinge di rimpianto.

Quando ho visto svanire l’ultimo amore che ho perso finora, lavoravo per una casa di moda. Con lui non ci parlavamo, io non volevo, per orgoglio, mostrargli che soffrivo, non volevo che lo sapesse. Con il senno di poi, so che sarebbe stato impossibile, per due come noi, troppo simili nei nostri difetti, un futuro insieme; penso che in fondo lo sappiamo entrambi, che non è stato un amore sprecato, ma un amore finito, semplicemente, a un certo punto. Tuttavia, come succede ogni volta che un amore mostra di essersi consumato fino al torsolo, sulle prime sembra inconcepibile. Ci si chiede: com’è possibile che sia successo a noi, che eravamo invincibili? Dove finisce l’amore, dove va a finire la nuvola densa che ci avvolgeva tutti e due, che ci faceva splendere per strada, se camminavamo mano nella mano, e chi ci vedeva pensava, ecco, questi due si amano? Dove si nascondono gli atomi di quella nube, quando svapora l’amore? Pensavo queste cose mentre vestivo e svestivo manichini. Lavoravo in una maison che faceva abiti da uomo, i manichini erano alti quanto il ragazzo che avevo amato fino a qualche giorno prima. Quando ero certa che non mi vedesse nessuno, abbracciavo la sagoma ricoperta di canapa sottile, e mi sembrava di abbracciare lui; ma il manichino non aveva volto, solo una testa liscia, ovoidale, una testa non umana, una testa che spiccavo dal busto con un certo piacere inconfessato, per infilare meglio il collo dei maglioni.

Cosa sarebbe successo, da lì in poi, se le cose fossero andate diversamente, se il manichino fosse stato vivo, se fosse stato lui, se gli avessi detto cosa sentivo, i miei dubbi, la paura di ritentare? Non lo so, non lo sapremo. Probabilmente la vita avrebbe trovato altre strade – atti mancati, trascuratezze, stanchezze – per separarci di nuovo, perché quello era il destino che ci spettava; un destino umano, non un fato impersonale, una storia che si tesse a poco a poco, e trova sempre un modo per realizzarsi malgrado le resistenze.

È così che va il mondo, diciamo, e non da ieri, e per sempre, possiamo credere legittimamente; già ben prima che il francese antico forgiasse il termine regrés, del resto, Saffo raccontava con insostenibile precisione la vertigine del rimpianto per amore: cosa non avrebbe dato, solo per vedere ancora una volta la sua Anattoria, ormai lontana: «il suo amabile passo, | il candore splendente del viso»4!

E chiunque abbia amato e perso l’amore, anche se poi l’ha ritrovato in altra forma, la capisce, si intenerisce, non può giudicare male la sua idea di buttare via tutto per uno sguardo, uno solo. Anche chi è guarito dal male al cuore, chi ha un rimpianto già cicatrizzato. Perché certo, arriverà il poi, e il suo senno; arriveranno altri amori, e ci diremo, un giorno: meglio così. Ma, per ogni volta che avremo amato e visto svanire l’innamoramento, dentro di noi scaverà ancora un poco la voce di Saffo che per uno sguardo ad Anattoria perduta offre tutte le cose più belle, tutte quelle che al mondo paiono le migliori, le più importanti, persino i carri dei Lidi e le «battaglie degli uomini in armi». Scaveranno ancora le lacrime sul finale di Come eravamo, quando quei due che si sono tanto amati, pur essendo incompatibili, si rincontrano come due estranei e di colpo prende corpo, ma solo per un istante, il fantasma di quello che poteva essere e non è stato e non sarà, perché ormai siamo nel tempo del futuro anteriore, il tempo in cui nessun futuro semplice è più possibile. E ci rendiamo conto che la grammatica racconta la vita, e la spiega; e che per ogni indicativo muoiono un milione di condizionali, in cui qualche volta ci possiamo cullare, con l’immaginazione, rendendoli migliori della vita che ci spetta, che abbiamo. Nell’immaginazione è più facile, non c’è attrito, e possiamo amare le rose non colte, le cose che potevano essere e non sono state.

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Ma sappiamo bene che è uno scherzo della prospettiva. Imparare a vivere con il rimpianto, e con il rimorso, non è semplice; non è semplice accettare che il patto silenzioso che stipuliamo con la vita ci richieda, per poter vivere davvero, di dissiparci un poco a ogni occasione, di disperdere un’ipotesi di noi ogni volta che facciamo una scelta. Come per ogni emozione profonda, la sfida più urgente e ardua da sostenere è quella di evitare che il rimpianto si trasformi in risentimento; e per evitarlo l’unico modo è attraversare la consapevolezza, anche dolorosa, di ciò che si prova; non rimuoverla, non nasconderla come polvere sotto il tappeto, ma guardarla negli occhi, a costo di lacrimare un po’, o anche parecchio. C’è poesia, in questa condanna a dissolverci, poco per volta, come unica via a determinarci, a essere responsabili delle nostre azioni anche, naturalmente, a costo di sbagliare e di scoprire il rimorso. Forse, se lo affrontiamo, proprio il tentativo di fare ammenda che il rimorso esigerà da noi saprà portarci verso nuovi possibili, ci spingerà a inventarci di nuovo. Soprattutto se pensiamo che il rimpianto e il rimorso, emozioni struggenti perché solitarie, e così private, così nostre, così vicine al limite dell’incomunicabile, esistono, vivono, altrettanto segrete, altrettanto umbratili e arcane, in tutti gli esseri umani: in chiunque ci sta vicino, in chiunque ci sta lontano.

Ancora una volta: siamo soli, e insieme non lo siamo, se riusciamo a indovinare anche negli altri, senza rompere il mistero, intuendola da lontano, la nostra stessa imperdonabile, ma sempre perdonata imperfezione. È poi a questo che serve la letteratura, che non esisterebbe se non esistessero emozioni che da millenni proviamo a decifrare; e anche la filosofia, la storia, in una parola l’umanesimo. O no? Serve a scoprirsi umani, la più utile fra le cose inutili, che ci aiuta a sopravvivere senza trasformare la sopravvivenza in una sterile reazione al dolore di vivere che conosciamo tutti.

E quella poesia di Penna sulla giovinezza? Finiva così:

Forse è meglio soffrire che godere.
O forse tutto è uguale. Anche la neve
è più bella del sole. Ma l’amore…5.

G. Ungaretti, Il porto sepolto, Marsilio, Venezia 2001.
S. Penna, Poesie, prose e diari, Mondadori, Milano 2017.
E qui dico oggetto, ma intendo una vasta gamma di prodotti, esperienze, servizi, addirittura relazioni: la filosofa Renata Salecl, nel suo libro La tirannia della scelta, mette in rapporto la sovrabbondanza dell’offerta tardo-capitalistica con l’idea di un’infinita varietà di liaisons possibili, simultaneamente accessibili a condizione di passare attraverso l’atto di una scelta solitaria, meditata, preventiva in un certo senso, garantita ma insieme anche pretesa dalle app di dating.
I lirici greci. Saffo, Alceo, Anacreonte, Ibico, a cura di G. Guidorizzi, Mondadori, Milano 1993.
S. Penna, Poesie, prose e diari cit.

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Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency

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