Per ilLibraio.it, la scrittrice Ilaria Gaspari ha riletto uno dei testi che ha più amato da bambina, “Peter Pan”, uno dei libri “più perturbanti che ci siano, ben diverso dalla versione addomesticata del cartone Disney, un romanzo amorale, e cupo, e pieno di tabù da fare a pezzi… una storia d’amore, che ha, delle storie d’amore, tutto quello che fa più soffrire…”

Boy, why are you crying?

A sette anni, ho recitato per l’unica volta in tutta la mia vita. Ero Peter Pan nella recita delle seconde elementari. Allora ero una bambina magrolina e impacciata come un puledro, e disperatamente timida, e non so se per via dell’una o dell’altra di queste caratteristiche, dovettero tagliare molte parti dello spettacolo, per la precisione quelle in cui Peter, cioè la me stessa di sette anni in calzamaglia verde e gambette secche, cantava e ballava. Immagino di essere stata il Peter Pan più malinconico e goffo della storia.

La verità è che la storia di Peter era a quel tempo il mio libro preferito, e che, come succede a volte ai bambini molto timidi, mi sembrava già troppo audace parlare con qualcuno di una cosa che amavo tanto; figuriamoci poi interpretarla davanti a una schiera di genitori armati di macchine fotografiche usa e getta. Sacrilegio. Così, per non tradire la mia passione per Peter, lo tradii trasformandolo in una piccola maschera triste.

PeterPan

L’ho riletto, in questi giorni, Peter Pan, e sto per fare ora quello che più di vent’anni fa non avrei mai osato fare – parlarne. La cosa più bizzarra è che capisco solo adesso perché mi sembrava così sacrilego parlare del libro di Peter Pan, e così comodo, invece, fingere di conoscere solo la versione addomesticata e gioconda e piacevole del cartone di Walt Disney (anche se poi la mia prova di attrice di giocondo doveva avere ben poco).

Il fatto è che Peter Pan – che in realtà si intitola Peter e Wendy – è uno dei libri più perturbanti che ci siano. È, forse, fra tutti i libri, quello che più si avvicina a rivelare la cosa che sempre ci si ostina a rimuovere quando si pensa all’infanzia: la sua crudeltà. È un libro amorale, e cupo, e pieno di tabù da fare a pezzi; è una storia d’amore, e ha, delle storie d’amore, tutto quello che fa più soffrire. Il senso della fine, dell’impossibile, delle distanze che non si possono colmare.

Peter Pan

È un libro di avventure, per bambini, certo. Ci sono gli indiani e Giglio Tigrato e le fate e Capitan Uncino e i pirati, e i bambini perduti, tutti maschi, perché le bambine, dice il libro, sono più sagge e non si perdono, e l’unica bambina sull’Isola è Wendy, che è già, per gioco, una mammina, la mamma che i bambini, uno a uno, hanno perso, e insieme tutte le mamme che, uno a uno, hanno perso loro. Ma la verità è che Peter Pan è così perturbante perché tutto quello che ha della fiaba per bambini è incastonato in un continuo richiamo alla vita degli adulti. Rileggerlo, da grandi, significa trasformarlo in una sorta di negativo di quello che è quando lo si legge da piccoli. Se un bambino sogna le avventure nell’Isola e dimentica, quasi, la cornice della vita demenziale e serena della famiglia Darling, chi lo legge da adulto vede quelle stesse avventure come una fantasticheria che sfuma nell’assurdità dello scorrere del tempo; un tempo scandito proprio dalla vita della famiglia, con le piccole preoccupazioni e quelle grosse, con il passare degli anni e gli incontri stralunati fra il realismo più crudo e il sogno. Il sogno che rimane impigliato nella nursery di una casa della Londra vittoriana in un mucchietto di foglie mai viste in Inghilterra, ai piedi dei lettini di tre bambini che si addormentano ogni sera con una fiaba e hanno, per bambinaia, un cane di nome Nana.

Rileggendolo ora, ho sentito il potere regressivo del racconto come un richiamo violento alla distanza incolmabile che c’è fra la vita adulta e l’infanzia; alla morte dell’innocenza, quella piccola morte indispensabile a vivere da adulti, a vivere nel mondo in cui non è più possibile essere semplicemente felici, innocenti e senza cuore. Peter è un bambino mai cresciuto perché è, in realtà, un folletto ctonio, un iniziatore di misteri; il suo non è un invito a non crescere, a restare sempre bambini, ma a non vivere e a dimenticare, con una risata, il richiamo della vita.

Quello dell’Isola che non c’è è il fascino della morte, con tutta la sua perversa poesia, con tutta la crudeltà e la violenza che proprio questo richiamo rivela, per contrasto, nella vita, nei suoi rituali spietati e vittoriani dissolti dal sorriso sghembo e irresistibile di Peter, un ragazzino che pensa che un bacio sia un bottone, che non conosce la lingua degli adulti e parla una sua lingua, poetica e imperfetta ed evocativa, e comprensibile in un modo che è insieme assurdo, paradossale e conturbante. Peter si presenta piangendo nella casa dei bambini Darling, e poi, molti anni dopo, della bambina di Wendy (e poi della bambina della bambina di Wendy, perché il mito non finisce e non si consuma mai, e attraversa la caducità delle generazioni e non gli importa che la vita scorra e non si fermi mai).

E Wendy, e la sua bambina molti anni dopo, gli rivolgono per prime sempre le stesse parole: perché piangi, ragazzino?, come una formula magica che gli fa dimenticare le lacrime, gli fa dimenticare la sua ombra persa e staccata e ricucita con una pazienza da donnina da Wendy Moira Angela Darling; che gli fa dimenticare, poi, il suo terrore alla vista di Wendy cresciuta e incapace di consolarlo, perché ormai lo può consolare solo attraverso la voce della sua bambina. Le lacrime di Peter Pan si asciugano subito, e scoppia una risata – gioiosa, innocente e senza cuore com’è lui. E rileggendolo da grandi viene voglia di nascondersi e piangere come Wendy, a cui, come a una Persefone in camicia da notte, la mamma aveva concesso una gita annuale nell’Isola che non c’è, ma che per molte, troppe primavere Peter ha dimenticato di andare a prendere, perché il senso del tempo lui non ce l’ha proprio, e neanche quello delle stagioni, perché non c’è mai stato un folletto più arcaico di Peter nemmeno in tutta la mitologia messa insieme.

E se ci viene da piangere come a Wendy, che di fronte al ritorno di lui si vergogna improvvisamente della sua vita di moglie e di madre e di donna, e non essendo più una bambina, si deve nascondere per piangere – forse, in realtà, dovremmo guardare più a fondo in quella risata di folletto crudele, e pensare che sì, qualche volta può fare un male cane essere alti e adulti e cresciuti, e che però si può ridere lo stesso, anche se fa paura, insieme a Peter. E senza nascondersi, ridere piangendo magari anche un po’.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari (nella foto, di BrunoK), classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa ed è al debutto nel romanzo per Voland con Etica dell’Acquario. Abita e lavora a Parigi, dove sta scrivendo una tesi di dottorato.Qui i suoi articoli pubblicati da ilLibraio.it.

Libri consigliati