“La strada per arrivare a un compromesso quantomeno accettabile con il mio aspetto è stata lunga…”: su ilLibraio.it un estratto da “Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza”, saggio breve della scrittrice Ilaria Gaspari in uscita per la collana digitale Quanti di Einaudi

Nel saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza, in uscita per la collana ebook di Einaudi Quanti, l’autrice, Ilaria Gaspari, compie un viaggio che dalle metamorfosi botaniche (i fiori, che per astuzia evolutiva impiegano forme e colori come strumenti di seduzione) arriva dritto a un’epifania infantile che riguarda tutti noi, quando per la prima volta abbiamo capito di possedere un corpo. Solo così per la scrittrice è possibile rimodellare le categorie estetiche, rendendo conto del potere della natura nel dare forma e direzione al nostro sguardo. Che ci fa paura e ci fa ridere, di sgomento e insieme di sollievo. Piú spesso di noi stessi.

Da anni collaboratrice de ilLibraio.it, Gaspari è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Scrive per diverse testate, e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno),  Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioniNel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust.

ilaria gaspari cenerentole e sorellastre
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal saggio in ebook:

© 2022 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency

di Ilaria Gaspari

(…)

La strada per arrivare a un compromesso quantomeno accettabile con il mio aspetto è ancora lunga – ci vorranno anni perché capisca cosa sognare, come sognarmi, come evitare che qualcuno mi dica che devo valorizzarmi, o ignorare chi me lo dirà.

L’adolescenza finisce, per fortuna, come tutte le cose brutte. Dopo il dramma dei 12-13 anni, a onor del vero, le cose migliorano – rimangono gli abissali sbalzi d’umore, l’assolutezza intransigente di felicità e dolori, i picchi spie- tati, innamoramenti e drammi, e tutto quel che ne consegue. Non ho piú l’apparecchio, sono un po’ meno gobba, la pelle si è ripulita, sono goffa, una schiappa negli sport ma il mio giovane metabolismo suggerisce comunque un fisico atletico; sorrido nelle fotografie con una dentatura candida e inscalfibile, non mi fanno piú battute cretine sulla mia bocca. Non infierisco piú contro i miei capelli, anche se per qualche ragione non mi decido a realizzare il sogno della superchioma che coltivavo da bambina. Ho un gusto certo discutibile, ma mio, nel vestire.

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A diciannove anni ho imparato a incassare i complimenti, sto scoprendo il piacere di piacere ai ragazzi, cosa che finalmente mi pare ovvia, semplice – di nuovo, il pensiero botanico di quando avevo dieci anni si riaffaccia. Proprio allora passo il concorso alla Normale, un’istituzione prestigiosa, selettiva, competitiva, con qualche dinamica da caserma fra studenti.

Quando finalmente il mio aspetto non era piú un problema, bruscamente torna a esserlo. Sono una matricola presa di mira dai ragazzi piú grandi: mi lasciano bigliettini e fiori sotto la porta della mia stanza in collegio, mi invitano ad appuntamenti che declino, e allora si vendicano. Mi si appiccica la fama di essere carina e scema – proprio io, la ex secchiona – in un posto in cui essere carini è un marchio d’infamia, perché essere scemi è inammissibile.

Come molte normaliste, anch’io mi sento dire da blasonati professori, all’università, che sono troppo bella per essere una normalista. Sono, effettivamente, abbastanza cretina da crederci. Ai processi alle matricole, usanza casermesca, sfogo di nonnismo, eredità di antichi rituali fra giovani maschi dei tempi in cui ragazzi e ragazze vivevano separati, subisco una serie di angherie che mi umiliano forse piú di quanto non mi appaia sul momento. Salgo le scale in ginocchio, mentre uno degli studenti piú grandi, uno di quelli che mi aveva dedicato attenzioni al mio arrivo, mi tiene per i capelli. Mi infila in bocca una carota.

Non so cosa fare, cosa dire, non dico niente, non faccio niente. A parte boicottare i processi alle matricole l’anno successivo, insieme ai miei compagni, quando sarebbe stato nostro il ruolo degli aguzzini.

Le voci mi si appiccicano addosso. Non voglio essere considerata una scema, è una cosa che mi fa arrabbiare; e cosí, a poco a poco, cambio – di nuovo incrudelisco contro il mio aspetto. Una scelta stupida, ma forse mi è parsa la piú semplice. A vent’anni mi riempio di complessi; di nuovo, come da adolescente, ma per altre ragioni, voglio scomparire. E inizio a fare la cosa che in molte facciamo quando vogliamo scomparire: non mangio, dimagrisco, mi attacco al potere che ho di rimpicciolire il mio corpo. Non mi sento mai abbastanza magra; e sí, voglio scomparire, ma anche essere impeccabile. Voglio che di me non si possa dire niente di male; per qualche via segreta, penso che essere bella, o meglio: essere priva di difetti vistosi, sia importante, che sia come il segno di essere predestinata a una forma di salvezza. A tal punto, evidentemente, è radicato in me l’archetipo di Cenerentola, prescelta e salvata solo perché attraente secondo i canoni; nonostante gli scatti di orgoglio, nonostante le sporadiche intuizioni dell’adolescenza, quelle che mi erano state consentite unicamente dalla mia prospettiva di sorellastra. Mi vesto di scuro, dimagrisco ancora. Non degenera in un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare, grazie all’amore che mi sostiene, della mia famiglia, dei miei amici, del mio fidanzato di allora. Non ero destinata, evidentemente, per mia fortuna, all’anoressia; ma qualche stortura nel rapporto con me stessa, lí ha preso una forma inquietante. A dieci anni dalla laurea, riguardando le fotografie, mi sono vista e ho avuto un po’ di pietà per me, per la mia debolezza che non sapevo ammettere. Forse, per certe persone, guardarsi è possibile solo in prospettiva?

Non è propriamente una storia a lieto fine, questa; certo non è una fiaba, e inoltre non so ancora come finirà. Come mi ha detto la mia amica, è una battaglia che dura. Mi è capitato, anni fa, alla fine di una lunga storia d’amore, di cedere, e dar la colpa al mio aspetto. Se fossi stata piú bella, mi dicevo, non avrebbe potuto lasciarmi. Sapevo, razionalmente, che era un ragionamento stupido, che non stava in piedi. Che lo formulava la mia parte vergognosa, patriarcale, impresentabile, la mia parte-Cenerentola, ma non riuscivo a impedirmelo fino in fondo. Poi ho smesso di pensarci; mi sono educata a smetterla, anche se mi capita ancora di disperarmi per una brutta fotografia, o perché qualcuno mi ha fatto notare che sono ingrassata, anche se conosco – la mia vita conosce – problemi ben piú gravi.

(continua nei negozi online…)

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