“Di lei sapevo solo due cose, all’inizio. Una passione infelice, e la morte”. Su ilLibraio.it Ilaria Gaspari parla del suo avvicinamento all’opera di Ingeborg Bachmann (Klagenfurt, 25 giugno 1926 – Roma, 17 ottobre 1973), scrittrice e poetessa austriaca (a cui ha dedicato il suo nuovo libro, “A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa”), autrice, tra gli altri, di “Malina” e “Il trentesimo anno”: “Dal suo candore e dalla sua passione, che la bruciarono per davvero, come la camicia di Nesso – ho avuto, e l’ho ancora, paura di bruciarmi anch’io”

Di lei sapevo solo due cose, all’inizio.

Una passione infelice, e la morte. Sapevo che aveva amato Paul Celan, che il loro amore era bruciato presto, che lui aveva avuto un altro amore ufficiale, anche se non si erano mai dimenticati – non sapevo, però, fino a che punto avessero scordato di dimenticarsi. Non sapevo delle lettere e dei segnali, anzi, veri e propri senhal alla maniera dei trovatori occitani, omaggi in codice, messaggi imperscrutabili a occhi estranei, che disseminarono anche dopo la rottura nelle rispettive poesie, per parlarsi a distanza, per costringersi a vicenda a decifrare i dettagli di una conversazione interrotta troppo presto. Come la foglia secca che lui le offrì a Vienna quando si conobbero, e che nel romanzo che lei pubblicò un anno dopo il suicidio di lui diventa il presagio – annunciato da uno sconosciuto – della morte dell’amore.

Queste cose le ho scoperte strada facendo, con un senso di partecipazione che quasi mi spezzava, e di cui non riuscivo, non riesco tuttora, a comprendere l’origine esatta. All’inizio, comunque, sapevo solo di questo amore, un amore nato e finito in fretta, nondimeno importante – ma non sapevo quanto, né perché.

E sapevo poi com’era morta, a grandi linee. Me l’aveva detto la stessa persona, di cui stranamente non riesco a ricordare il nome né il viso, che mi aveva parlato di lei e di Celan. Mi sembra inspiegabile, eppure anche qui ci sarà certo una ragione: ricordo esattamente le parole, le prime parole con cui ho iniziato a conoscerla, non la voce che le pronunciava.

Le parole, però, non le scorderò mai. È morta per una sigaretta, fumava mezza addormentata e la vestaglia ha preso fuoco.

E si è bruciata? È andata a fuoco?, chiedevo. A quel tempo – perché anche se non ricordo chi mi abbia parlato di lei, il tempo invece lo ricordo bene – stavo scoprendo il cinema tedesco, che mi appassionava. Adoravo le atmosfere dei film anni ’70 e ‘80, il primo Wim Wenders e i suoi vagabondi im Lauf der Zeit, nel corso del tempo. E la piccolissima Alice nelle città. E poi Fassbinder, che amavo alla follia – Hannah Schygulla scarmigliata e irresistibile, e quei titoli perfetti, Le lacrime amare di Petra von Kant, La paura mangia l’anima. Mi piacevano da morire, questi film, gli interni delle case, i linoleum. Mi piacevano i romanzi di Heinrich BöllOpinioni di un clown, Foto di gruppo con signore, soprattutto però L’onore perduto di Katharina Blum – che raccontavano una Germania divisa, le carte da parati soffocanti, lo stupito dolore del dopoguerra, del dopo-nazismo, del dopo-orrore.

Con i materiali che avevo a disposizione – un bric à brac di alloggi, abiti e arredi visti nei film, le atmosfere e i personaggi della narrativa e del cinema tedesco che iniziavo a conoscere – mi immaginai quella morte assurda e spettacolare. Solo in un secondo tempo venni a sapere che il dramma non si era consumato in Germania; oltretutto, lei non era tedesca ma austriaca, e aveva eletto a sua seconda patria l’Italia. Fatta in Carinzia, disfatta a Roma, in un appartamento di palazzo aristocratico, nel pieno centro storico, all’alba di un giorno di fine settembre del 1973. Sarà stata un’alba incantevole come lo sono le albe a Roma nelle stagioni di mezzo, l’autunno, la primavera. Corressi la scena con un tocco di Profondo rosso – anni ’70, una straniera che vive sola, la morte che pare irreale, la vestaglia di rayon sintetico.

Mi ipnotizzavano i pochi dettagli che avevo, mi attirava una forza misteriosa a desiderare di saperne di più.

Il trentesimo anno

Sull’onda dell’entusiasmo, lessi allora delle poesie che mi rimasero in mente, da una raccolta intitolata Invocazione all’Orsa maggiore. E lessi, soprattutto, una raccolta di racconti – Il trentesimo anno – che mi spiazzò: immaginavo la cronaca di una precoce crisi di mezza età, era tutt’altro. Erano storie di un secolo costretto a fare i conti con la lacerazione che aveva spaccato in due la vita dell’autrice – l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Le voci che tuonano dentro la radio in cucine dove i bambini ammutoliscono sul pane imburrato, gli stivali che a passo marziale calpestano marciapiedi di piccole città della Carinzia. I laghi e i boschi e il richiamo inquieto del viaggiare, come uccelli migratori, senza una meta, un approdo.

Mi ero ripromessa allora, di leggere dell’altro, tanto quei racconti mi erano piaciuti; purtroppo sono sempre stata un’incostante, il mio cuore e la mia mente prendono fuoco con facilità ma spesso poi l’incendio si estingue per distrazione, per dimenticanza. Almeno, così mi pare; perché forse, nel sottobosco, qualcosa aveva continuato a bruciare.

Non lessi altro, distratta da altre curiosità, altre passioni; e a dirla tutta, negli anni seguenti, che mi portarono sempre più spesso verso la Francia, dimenticai il tedesco che avevo studiato con tanto sforzo. Mi cullavo nella dolcezza del francese, e certo, di tanto in tanto qualche frammento di ricordo riaffiorava – una parola, un fotogramma di quei film che avevo amato; ma la mia seconda patria era Parigi, mi ci ero trasferita per studiare, e studiavo, scrivevo, leggevo in francese.

Eppure. Eppure, alla vigilia della pandemia, quando mi fu proposto di scrivere una guida letteraria a una città europea – che non poteva essere Parigi, perché un altro autore già ci stava lavorando – la scelta cadde subito su Berlino. E passato l’istante di sconcerto – conoscevo la città, sterminata, molto meno bene di quanto non conoscessi Parigi – feci presto a capire che era di Berlino che volevo scrivere, non di Parigi.

Volevo scriverne perché ci volevo tornare; perché ci avevo vissuto dei mesi spezzettati, nei miei primi anni d’indipendenza, senza continuità, per frammenti, dunque in quella maniera che rende la vita più intensa, più impietosa anche, ma più viva. Volevo tornare, ero impaziente di tornare, il mio cuore scalpicciava per tornare. Volevo ritrovare la ragazza che ero stata, e che avevo l’impressione di aver dimenticato lì, a Berlino, come si dimentica un bracciale che non si è più usato da troppo tempo, o un profumo quando l’affollamento della mensola del bagno lo nasconde alla vista, e giorno dopo giorno non te lo spruzzi più, e ti scordi anche di quanto ti piaceva – poi lo senti, per caso, a una festa, ritrovi la scia e ti dici, ecco, ma questo profumo non lo portavo anch’io? E il giorno dopo torna a essere il tuo profumo, e ti pare lo stesso, ma diverso. Così doveva succedere con Berlino; dovevo tornare al profumo, al bracciale che di nuovo mi avrebbe serrato il polso, e non sapevo ancora con quanta forza. Perché quando mi chiesero chi avrei scelto come scorta nella città da raccontare, senza riflettere un secondo, il nome che associavo alla vita tedesca, alla lingua tedesca, al viaggiare inquieto del tempo in cui per la prima volta Berlino mi era apparsa come il luogo di una sterminata festa già finita, affiorò al pensiero e alle labbra.

Ingeborg Bachmann.

Fui tanto incosciente da proporre di scrivere di lei anche se avevo, allora, letto così poco; anche se sapevo che era austriaca, non tedesca, e non avevo idea di quanto tempo avesse vissuto a Berlino, né quando. Mi misi a fare ricerche, ripetendomi che potevo cambiare idea, cambiare guida, direzione; che, anzi, sarebbe stato furbo cambiare, scegliere qualcosa di più semplice, più logico, più lineare. Mi sarei risparmiata un sacco di grattacapi; solo che, per qualche ragione, io non volevo cambiare niente. Mi misi a cercare sperando con tutto il cuore di trovare qualche appiglio, di scoprire dettagli utili. Nel frattempo arrivava la pandemia; nel frattempo, il viaggio ero costretta a rimandarlo; nel frattempo, guadagnavo del tempo per studiare la vita misteriosa che luccicava, in fondo ai miei pensieri, con un bagliore lontano.

Malina Ingeborg Bachmann

Ebbi fortuna – l’istinto mi aveva guidata nella direzione che volevo. C’erano cose da scoprire, cose da studiare, cose da capire. C’erano coincidenze che mi illuminavano il cammino. C’erano due anni trascorsi dalla mia misteriosa scrittrice a Berlino, due anni cruciali nella sua vita, all’indomani della costruzione del muro. C’era un esaurimento nervoso da indagare – come la curarono? come si curò? – un fondo di disperazione da tentare di comprendere, un cuore spezzato – anch’io avevo vissuto col mio cuore spezzato a Berlino, in un altro tempo. C’erano degli indirizzi, delle case da vedere. C’era un progetto letterario che proprio a Berlino aveva preso corpo fra i molti progetti in cui la mia beniamina gettava la sua energia incandescente – un ciclo di romanzi intitolato Todesarten, ovvero: modi di morire.

C’era un discorso su Berlino, letto alla cerimonia per il conferimento di un premio prestigioso, che raccontava la città da una prospettiva allucinata, espressionista – pagine in cui Berlino era un po’ scenografia del Gabinetto del dottor Caligari, un po’ la Terra desolata. C’era un romanzo, l’unico compiuto del ciclo delle Todesarten, Malina: la storia di un triangolo amoroso e di un assassinio. Di un muro famelico che inghiotte la protagonista in una crepa.

C’era un’intervista alla sua padrona di casa, l’ultima; le aveva affittato la casa di via Giulia, dove la sigaretta diede fuoco alla vestaglia. L’aveva soccorsa nelle prime ore dell’alba, un giorno di fine settembre del 1973. A Roma sarà stata un’alba fresca e tenue – mi pareva di vederla. Ma la padrona di casa, Maria Teofili, non si lasciò ingannare dai bagliori rosei del giorno che iniziava; si rese conto che la situazione era grave anche se la sua inquilina non si lamentava, non piangeva, chiedeva solo una pomata per le ustioni. Ma quale pomata! Bisognava portarla in ospedale, lei tutta ustionata, lei così disordinata, i cassetti pieni di scartoffie, non si trovavano i documenti.

Dov’era il passaporto? Per non perdere tempo, Maria Teofili acchiappò una copia della traduzione italiana di Malina. Avrebbe usato il libro, come carta d’identità.

Quando, qualche tempo prima, aveva detto alla scrittrice che non riusciva a leggere il romanzo senza vederla dentro tutti i personaggi, lei le aveva risposto: grazie, è l’unica che l’ha capito.

E io, quando lessi di questa storia, capii che sarei partita da lì, dal romanzo.

Da un muro, da una crepa nel muro – una crepa che non fa passare luce. Dalla voce del personaggio che nel muro scompare, dal suo silenzio di quando è scomparsa, lei che aveva paura di bruciarsi preparando il caffè – se si fosse bruciata sarebbe stata una seccatura, avrebbero dovuto chiamare la polizia.

Dal suo candore e dalla sua passione, che la bruciarono per davvero, come la camicia di Nesso – ho avuto, e l’ho ancora, paura di bruciarmi anch’io.

Dalle parole dell’uomo che diceva di amarla, e che quando lei scompare nella crepa del muro, nasconde tutti gli indizi della sua presenza; suona il telefono, è qualcuno che la cerca, e lui risponde: non c’è nessuna donna, qui.

Una donna invece c’è, eccome, l’ho cercata con ostinazione. E forse, un po’, l’ho trovata; una strana sorella lontana, che non sa chi io sia, io che dalle lontananze l’ho tanto cercata, provando a indovinare cosa la teneva impigliata alla vita, come si impigliano i fantasmi.

 

A Berlino con Ingeborg Bachmann nella città divisa ilaria gaspari

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, filosofa e collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Scrive per diverse testate, e collabora con radio, tv e scuole di scrittura.

Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno),  Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni

Il suo nuovo libro è A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa (Giulio Perrone editore): Bachmann, figura tormentata di apolide per scelta e per necessità poetica, cerca disperatamente per tutta la vita una casa di cui possa essere, come scrive, quella che in altri tempi sarebbe stata la castellana. L’attrazione, così mitteleuropea, per il Mediterraneo, è controbilanciata, in un certo senso, dal periodo di malattia e di crisi che trascorre a Berlino fra il 1963 e il 1965, prima in clinica, per curarsi dopo la dolorosa fine della storia d’amore con lo scrittore Max Frisch, poi all’Akademie der Künste, infine nella Königsallee. Un’agonia sovvenzionata (da una borsa della Ford Foundation); eppure, nei fatti, si tratta di un momento estremamente fecondo. Poeticamente: nella città, che racconta come luogo naturale “delle coincidenze”, affonda non solo la sua radicale riflessione sulla malattia, ma anche il progetto grandioso della sua personale Recherche, ovvero il ciclo incompiuto delle Todesarte…

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