Parte dalla commedia “Ti ho sposato per allegria” di Natalia Ginzburg (da cui è stato tratto il film con Giorgio Albertazzi e Monica Vitti) e arriva alla galleria di irresistibili ritratti femminili firmati da Franca Valeri, la riflessione di Ilaria Gaspari su ilLibraio.it. Che è anche un viaggio nella condizione femminile, tra passi avanti e “pozzi in cui continuiamo a cadere”. Eppure, come sottolinea l’autrice, “oggi, per una scrittrice, maneggiare l’umorismo oltre i limiti dell’autoironia sembra un rischio – il rischio di non essere presa sul serio, di essere considerata meno brava, meno scrittrice, di chi affronta i temi seri”. E invece “c’è bisogno più che mai del senso dell’umorismo delle autrici, di sfoderare sguardi dissacranti su quello che ci offende, di farci su una risata e, alla fin fine, di scrivere solo per allegria”

C’è una cosa che scrive Natalia Ginzburg in una sua commedia dolcissima e stralunata del 1964, Ti ho sposato per allegria, che mi è rimasta conficcata in testa da quando l’ho letta per la prima volta, prima di vedere il film irresistibile che Luciano Salce trasse nel ‘67 dalla pièce, con Giorgio Albertazzi e Monica Vitti nel ruolo di Giuliana. La quale è una giovane donna squinternata, aspirante suicida fallimentare, impelagata in problemi che all’epoca in cui fu scritta la commedia erano problemi molto seri, gravi, problemi che avevano a che fare con un’idea ancora parecchio paternalistica e patriarcale dell’estensione del dominio dei diritti delle donne: il diritto di disporre del proprio corpo, il diritto di lavorare e ottenere riconoscimento per il proprio lavoro. Il diritto di essere quello che si vuole essere.

Giuliana ha sposato Pietro, si direbbe, per soldi; in realtà, sospettiamo, l’ha sposato per allegria, e proprio per allegria è stata impalmata da lui, nonostante i suoi mille complessi, la sua povertà, la sua convinzione di non avere abbastanza stile, nonostante i suoi momenti di disperazione, nonostante la sua sfacciata inconcludenza, il suo lagnarsi impertinente.

A un certo punto della commedia compare questo dialogo, tutto giocato sul filo dell’assurdo, e di una profondità che ci attrae a guardare oltre i due personaggi in scena, oltre la loro schermaglia, a chiederci perché, per cosa, ci sposiamo, o ci sposeremmo, o non ci sposeremmo affatto, noi che assistiamo:

“PIETRO Non essere scema. Eri sola, è vero, senza soldi, senza lavoro, e ti disperavi, ma a me non facevi pietà. Io non ho mai sentito, guardandoti, nessuna pietà. Ho sempre sentito, guardandoti, una grande allegria. E non ti ho sposato perché mi facevi pietà. Del resto, se uno dovesse sposare tutte le donne che gli fanno pietà, starebbe fresco. Metterebbe su un harem.
GIULIANA Già. Questo è vero. E perché mi hai sposato, se non mi hai sposato per pietà?
PIETRO Ti ho sposato per allegria. Non lo sai, che ti ho sposato per allegria? Ma sì. Lo sai benissimo.
GIULIANA Mi hai sposato perché ti divertivi con me, e invece ti annoiavi con tua madre, tua sorella, e la zia Filippa?
PIETRO Mi annoiavo a morte.
GIULIANA Lo credo, povero Pietro!
PIETRO Adesso sei tu che hai pietà di me?
GIULIANA Però non è che dovevi stare sempre con loro? andavi in giro, viaggiavi, avevi ragazze?
PIETRO Certo. Viaggiavo, andavo in giro, e avevo ragazze.
GIULIANA Ragazze noiose?
PIETRO Ragazze.
GIULIANA E io? io perché ti ho sposato?
PIETRO Per i soldi?
GIULIANA Anche per i soldi.
PIETRO Credo che uno si sposa sempre per una ragione sola. Gli anche non hanno nessun valore reale. C’è una ragione sola, dominante, ed è quella che importa.
GIULIANA Allora io non l’ho ancora ben capita questa ragione, per me.
PIETRO Non mi hai detto: Sposami, sennò chi mi sposa?
GIULIANA Sì, e be’?
PIETRO Be’, non era questa la ragione? che volevi avere un marito? comunque fosse? chiunque?
GIULIANA Chiunque. Sì.”

È passato oltre mezzo secolo da Ti ho sposato per allegria, tante cose sono cambiate. Oggi è difficile che una giovane donna si trovi a vivere le avventure di Giuliana con lo stesso spirito; per fortuna, malgrado tutto il lavoro che resta da fare, siamo molto più libere di determinarci di quanto non fosse lei.

Eppure… eppure cadiamo nei pozzi, come ha scritto sempre Ginzburg da un’altra parte, non in una commedia ma nel suo Discorso sulle donne, pubblicato dalla rivista Mercurio nel 1948 (oggi su può leggerlo nella raccolta di saggi Un’assenza, Einaudi):

“L’altro giorno m’è capitato fra le mani un articolo che avevo scritto subito dopo la liberazione e ci sono rimasta un po’ male. Era piuttosto stupido […]. Quel mio articolo parlava delle donne in genere, e diceva delle cose che si sanno, diceva che le donne non sono poi tanto peggio degli uomini e possono fare anche loro qualcosa di buono se ci si mettono, se la società le aiuta, e così via. Ma era stupido perché non mi curavo di vedere come le donne erano davvero: le donne di cui parlavo allora erano donne inventate, niente affatto simili a me o alle donne che m’è successo di incontrare nella mia vita; così come ne parlavo pareva facilissimo tirarle fuori dalla schiavitù e farne degli esseri liberi. E invece avevo tralasciato di dire una cosa molto importante: che le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante; ma a me non è mai successo d’incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro, qualcosa che proviene proprio dal temperamento femminile e forse da una secolare tradizione di soggezione e schiavitù e che non sarà tanto facile vincere; m’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi indiceva a commiserarle e che capivo molto bene perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai. Due donne infatti si capiscono molto bene quando si mettono a parlare del pozzo oscuro in cui cadono e possono scambiarsi molte impressioni sui pozzi e sull’assoluta incapacità di comunicare con gli altri e di combinare qualcosa di serio che si sente allora e sugli annaspamenti per tornare a galla”.

Nei pozzi continuiamo a caderci, tutte quante; a caderci e a sentirci chiedere se è perché ci stanno per venire le nostre cose. Qualche volta ci pensiamo da sole, a giustificarci con la sindrome premestruale – io lo faccio spesso, ora che ci penso; e molte volte è vero. Spesso mi prendo in giro per questi cedimenti – sono la prima a farlo. Ma non è tutto qui. Il fatto è che malgrado gli anni che ci separano dal pozzo del Discorso, dal matrimonio di Giuliana che si disperava perché nessuno l’avrebbe sposata, è ancora troppo fresca la memoria del tempo della sottomissione; non solo è fresca, anzi, ma ne permangono tracce nella nostra esperienza quotidiana. E allora, essere allegre, sposarsi – ma mica solo sposarsi – per allegria, è anche una risposta; una forma di resistenza a quel richiamo cupo, al risucchio del pozzo.

Viola Lo Moro

Un cuore allegro è il titolo di una bella raccolta di poesie che Viola Lo Moro ha pubblicato recentemente per Giulio Perrone, che vibra tutta proprio dell’equilibrio sghembo, instabile, fra il richiamo della gravità e la tentazione della leggerezza:

Tieni il cuore allegro/mi hai detto//la voce seppur filo/assertiva.//Il cuore allegro non so/come si irrora.//Immagino/un cervo/un fiume/lo scomporsi del sole/sull’acqua/il fuoco a sfida del buio:/il cuore allegro.⠀

D’altra parte, “allegro” è un derivato dal latino “alacer” e ha più a che fare con l’ingegnarsi, con il darsi da fare nel mostrarsi lieti, che con l’essere profondamente appagati e felici. C’è, nell’allegria, uno scalpiccio della volontà, un attrito perenne con la pesantezza dell’essere.

L’atteggiamento cool e il culto della coolness nascono, propriamente, come una risposta ferma e sprezzante all’umiliazione, una risposta tanto potente da annichilirla, nell’America nera e ancora segregata degli anni ’20 del Novecento, prima di approdare intorno agli anni ’40 all’ambiente del jazz; allo stesso modo, c’è un aspetto liberatorio, nell’allegria, che ha a che fare precisamente con il sentimento di far parte di un’umanità offesa.

Si ride di quello che non si può dire; si affida alla risata il compito di assorbire e sviare l’aggressività. Giuliana è una donna che vive in un mondo palesemente ingiusto, una donna che fa i conti non solo con la forza gravitazionale che l’attira al pozzo, ma anche con una società che la costringe ad arrovellarsi, e arrabattarsi, con l’angoscia che “sennò chi mi sposa?”. È una donna che vive di espedienti, che ha dovuto abortire clandestinamente; è, anche, una donna profondamente allegra.

Le donne Franca Valeri

Uno dei libri più divertenti che possiedo si intitola Le donne, e l’ha scritto Franca Valeri. È una galleria di ritratti femminili colti attraverso scampoli di conversazioni interrotte – telefonate ascoltate per caso, bigliettini, lettere. Le donne di Valeri sono irresistibili, querule, feroci, tenere, insopportabili; ognuna un personaggio raccontato con sfrontata allegria, ognuna alle prese con i tormenti della seduzione, con la smania di piacere, che è il modo di stare al mondo in un mondo in cui a decidere di tutto sono gli uomini e le donne vengono quotate in base al loro potere seduttivo, o alle doti di mogli e di madri che il loro contegno suggerisce; eppure, ognuna si ingegna a far tornare i conti, ognuna si rappresenta in un autoritratto di sua invenzione, comico perché idealizzato, perché consapevole solo a sprazzi: nulla, invece, sfugge alla penna di Valeri, che senza giudicarle, senza moralismi né querimonie le racconta tutte sfoggiando il suo umorismo formidabile: ognuna fa morire dal ridere.

Ci sono fanciulle fieramente innamorate di attori, signorine milanesi che si annoiano con languore esagerato, tiranniche dive russe che traggono profitto dal rimbecillimento di vecchi vati priapeschi; padrone di boutique, amiche mal maritate che si confidano ad amiche intime, servette e nobildonne, l’amante atroce e l’amante borghese. E ogni pagina fa morire dal ridere; a ogni pagina si sente, ridendo, la fatica e la meraviglia di questa femminilità inconscia e autocosciente, spietata, commovente.

Eppure, oggi, per una scrittrice, maneggiare l’umorismo oltre i limiti dell’autoironia sembra un rischio – il rischio di non essere presa sul serio, di essere considerata meno brava, meno scrittrice, di chi affronta i temi seri.

Ma credo che questa sia solo la riprova del fatto che, invece, c’è bisogno più che mai del senso dell’umorismo delle scrittrici, di sfoderare sguardi dissacranti su quello che ci offende, di farci su una risata e, alla fin fine, di scrivere solo per allegria.

Ilaria Gaspari - foto di Giuseppe di Piazza
Ilaria Gaspari nella foto di Giuseppe di Piazza

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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