“Per una persona ansiosa, parlare della propria ansia è difficile…”. Ma visto che tutti viviano giorni di angoscia e preoccupazione, la scrittrice e filosofa Ilaria Gaspari ha scelto di farlo, con questa riflessione autobiografica scritta per ilLibraio.it: “Ho pensato di mettere la mia esperienza di ansiosa agonistica a disposizione di chi, magari, sente montare la marea e per qualche motivo – imbarazzo, riserbo, vergogna o semplice, puro, eccesso di ansia? – si trova a fronteggiarla in solitudine…”. Nel suo toccante intervento sottolinea l’aiuto che può arrivare dalla lettura dei classici

Una settimana fa, dopo aver letto tutto quello che potevo sulla seconda ondata, sono scesa a buttare la pattumiera. Pioveva, dunque avevo l’ombrello in mano: ho buttato l’ombrello, e tenuto la pattumiera. Pochi giorni dopo, camminando beatamente per la strada, con la mascherina e tutto quanto, ho perso un orecchino a cui tenevo moltissimo. Sono tornata sui miei passi per cercarlo, qualcuno, vedendomi piegata a squadra a scandagliare il marciapiede si è fermato ad aiutarmi – l’aiutarsi goffo di questi tempi, in cui ci si parla e nessuno capisce niente perché non possiamo vedere le espressioni degli altri, perché le parole arrivano attutite dal tessuto che ci protegge. Non l’ho trovato, mi veniva da piangere. E non era solo per l’ombrello, o l’orecchino. È che quando iniziano a succedermi queste cose, quando mi smarrisco, sono assente, non mi sento più io, so bene di cosa si tratta: è l’ansia che ritorna.

Una vecchia amica, cara più per consuetudine che per affinità elettiva; ci conosciamo bene, e da molti anni. Dentro di me c’è un salottino perennemente apparecchiato per accoglierla: una poltrona comoda, una tazza di caffè fumante che la renderà ancora più nervosa. Un piattino di scones, sono de-li-zio-si. Lei si siede, allunga le gambe sul tavolino: è talmente di casa, dentro di me, l’ansia, che si rilassa, quando arriva. Sa bene che non la manderò via. Inizia a sorseggiare il suo caffè, ecco che sale il nervosismo. Tamburella le dita sul tavolo, ci siamo. Io traballo. È venuta per restare, senza che la invitassi; è tornata. Come un’amica che ti piomba in casa quando sei piena di lavoro fin sopra i capelli, ti butta addosso tutto il suo malumore e non ti molla più. E tu non sai come difenderti, vorresti mandarla via, ma come fai? Poi si offende, è un disastro. E così rimani lì, e l’ascolti, e un poco ti disprezzi per la tua mancanza di nerbo, un poco ti amareggi, un poco ti deprimi. Non sei più tu, ti perdi.

Ecco, per me l’ansia è tutto questo. La conosco bene – la riconosco, la sento avvicinarsi prima ancora di aprire la porta e trovarmela di fronte: ci sono piccole avvisaglie che decifro con una precisione millimetrica. Il cielo bigio, il cambio di stagione; la compulsione a controllare le notizie.

Le notizie che arrivano da tutte le parti e sembrano non lasciarti tregua, sembrano tutte accusarti di non far niente per migliorare le cose, eppure nello stesso tempo, arrivandoti a valanga tutte addosso, ti schiacciano con tanta forza che non hai l’energia per fare nemmeno il piccolissimo, minimo gesto – di solidarietà, di cura – che ti farebbe sentire meglio. I messaggi che continuano a pioverti addosso, valanghe di messaggi a cui devi, dovrai, dovresti rispondere, e si accumulano, e quindi, di nuovo, sensi di colpa – non sei all’altezza dell’attenzione che ti danno le persone, e intanto che ti senti in colpa passa altro tempo e si accumulano altri messaggi.

La casa da sistemare, è un disastro, il bucato da stendere, i calzini tutti spaiati, e bisogna portar fuori la pattumiera, e hai una lista di cose da fare che non finisce mai, si aggiungono sempre nuove voci appena ne cancelli una. Non è una lista, perbacco! è l’idra di Lernia. E poi il tempo che passa, tic tac tic tac, e aggiorna la homepage, altre notizie tremende, contagi, firma la petizione, vittime, rabbia, ansia, ansia, ansia. Ti chiama un call center per chiederti se sei interessata a una nuova offerta per la gestione dell’energia, ma che ne puoi sapere della gestione dell’energia, tu che sei lì con mezza giornata buttata e la tachicardia.

Io sono stata bocciata cinque volte all’esame della patente, e tutte e cinque per l’ansia; mi facevo passare avanti tutti, per rimandare il momento in cui avrei dovuto sistemare lo specchietto retrovisore, e intanto mi ingozzavo di pasticche di Valeriana Dispert. Alla farmacia mi conoscevano, quando andavo a comprare la valeriana mi chiedevano: hai l’esame di guida?, e io annuivo. Alla sesta prova l’ho passato, credo per esasperazione dell’esaminatore; ma per l’ansia, poi, non ho mai guidato. Tutt’ora non guido – se non altro, camminare è uno dei rimedi anti-ansia più efficaci, almeno per me. L’ansia è la mia risposta più spontanea a qualsiasi cosa succeda: il primo impulso, il primo pensiero, sempre corrono al peggio. Sono fatta così, e la cosa non mi rende certo speciale.

Per molti mesi, qualche anno fa, ho avuto un’ansia tale che non riuscivo a respirare. Era come se l’aria mi rimanesse strozzata in gola, non riuscivo a mandarla giù. A quanto pare si chiama dispnea sospirosa: a me, comunque, sembrava di soffocare. Facevo finta di niente, per non disturbare, perché noi ansiosi spesso abbiamo oltretutto anche questa paura – ci vergogniamo, ci nascondiamo, non vorremmo dar fastidio: solo scomparire.

Io, come molti ansiosi, ho l’ansia di buttare la mia ansia addosso a chi mi sta vicino, cosa che spesso è inevitabile: così negli anni ho cercato di costruirmi intorno una piccola fortezza. Per difendere gli altri dalla mia ansia. Solo molto tempo dopo aver tirato su il ponte levatoio mi è venuto il sospetto che forse – forse – avevo eretto quel fortino non per proteggere gli altri dalla mia ansia, ma la mia ansia dagli altri. È lì, infatti, nel cuore della fortezza, che si trova il salottino che vi dicevo.

Per una persona ansiosa, parlare della propria ansia è difficile. E non solo perché (anche se pure questo conta) siamo sottoposti a una pressione sociale che ci vorrebbe sempre vincenti – uso proprio questa parola, che trovo rivoltante – trionfanti, splendenti, efficienti. Non solo perché scoprirsi, mostrarsi vulnerabili, può voler dire offrire un bersaglio a chi non sa rispettare la debolezza, può voler dire finire derisi, o peggio: respinti, diffidati, insultati. Ma anche perché l’ansia non vuole essere raccontata, si irrita, si offende, si infastidisce, e farà di tutto per impedirti di spiattellare a destra e a manca le sue abitudini, le sue manie. Ora, per esempio, sto facendo uno sforzo insolito a scrivere questo articolo. Eppure lo voglio fare, voglio arrivare fino in fondo, voglio parlarvi dell’ansia – e non per sfidarla, o almeno, non solo.

Ormai lei e io, come vi dicevo, siamo vecchie amiche e non c’è sfida che tenga. Il motivo per cui mi intestardisco a scrivere queste righe è che in questo periodo credo che l’ansia, più che mai per le persone ansiose, ma anche per chi normalmente l’addomestica senza fatica, stia salendo, come una marea. E allora ho pensato bene di mettere la mia esperienza di ansiosa agonistica a disposizione di chi, magari, sente montare la marea e per qualche motivo – imbarazzo, riserbo, vergogna o semplice, puro, eccesso di ansia? – si trova a fronteggiarla in solitudine.

Perché appunto, io mi ricordo come mi sono sentita quando ho letto, su un forum di ansiosi trovato compulsando furiosamente Google mentre tutti dormivano, che la dispnea sospirosa non era indizio di qualche malattia mortale, ma un sintomo dello stato in cui mi trovavo: il sintomo non si è dileguato, ma almeno mi sono sentita sollevata. Meno sola. Sono stata meglio, un pochettino meglio. E allora scrivo queste parole come un messaggio in bottiglia per chi oggi è come la me di pochi anni fa, con il respiro corto senza sapergli dare un nome; o come la me di oggi, con il respiro corto che però adesso ha un nome.

Beh, mi direte voi: benissimo, condividiamo pure dei bei momenti di angoscia, ma se non hai una ricetta per guarirla, questa benedetta ansia, non farci perdere altro tempo. E ovviamente a questo punto vi dovrò confessare che non ho proprio nessuna ricetta. La Valeriana Dispert può aiutare, come molte altre cose, ma di certo non basta. Quello che posso dire è che secondo me ci si può educare a una convivenza luminosa, financo (a tratti) piacevole, con l’ansia, osservando qualche accorgimento che l’addomestichi, che le permetta di esprimersi – di solito, per quanto molesta, vuole dirci qualcosa – ma non di ricattarci, né di prendere il sopravvento e renderci peggiori di quanto siamo.

Prima di tutto, bisognerebbe (uso il condizionale perché sarei ipocrita a servirmi dell’indicativo: da vera ansiosa so bene che prefiggersi degli obiettivi, e attenercisi davvero, costantemente, sono due cose ben diverse, ma fa parte dell’educazione a una pacata convivenza con l’ansia anche l’imparare a non pretendersi perfetti, perfettamente funzionali e irreprensibili, e accettarsi umani, difettosi, limitati), dicevo, bisognerebbe abbandonare l’ostinazione a vergognarsi dell’ansia. Così le si toglie già metà del suo potere ricattatorio: ammettiamolo, siamo ansiosi, non per questo siamo dei mostri. E smettiamo di colpevolizzarci per l’ansia che abbiamo: smettiamo di sentire che è illegittimo quello che proviamo. Ci dicono: e allora che dovrebbe dire chi sta davvero male, chi soffre seriamente?, e così delegittimano quello che sentiamo. Ma proprio la sensibilità al dolore degli altri rende questi richiami – che vorrebbero essere affettuosi inviti a vedere quanto siamo lagnosi e pavidi, a vergognarcene e a piantarla lì, come bambini che fanno i capricci e si sentono dire, ma insomma, cosa penserà quel signore dall’altra parte della strada? – un ulteriore incentivo all’angoscia.

Per fortuna, più che nei richiami bruschi, più che nella Valeriana, ho trovato nei libri un valido aiuto per mitigare gli strapazzi del cuore agitato. D’altronde, quella di essere una cura, o quantomeno una consolazione, è un’antica vocazione della filosofia, e non c’è da vergognarsi a rivolgersi ai classici in cerca d’aiuto: lo si è sempre fatto, lo faceva gente come Marco Aurelio o Montaigne, perché dovremmo precluderci, noi, questo piacere?

Ovviamente non troveremo, se non per accidente, in nessun libro le ricette precise da applicare alla nostra vita: i libri, si sa, non sono oracoli, ma sanno rispondere a modo loro alle nostre domande. Anche semplicemente costringendoci a formularle, oppure mostrandoci che quello che ci agita e ci opprime ha oppresso altre donne e altri uomini come noi, in tempi e luoghi lontanissimi o vicini. Se siete ansiosi come me, dunque, potreste trovare conforto leggendovi le Lettere a Lucilio di Seneca, ad esempio: “Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro… Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente.”

Oppure potreste rivolgervi a Epicuro, che in un altro tempo di crisi si è inventato il tetrafarmaco – una medicina logica che curi il male peggiore, ovvero la paura quando è tanto forte e tanto intensa da ricattarci, da farsi padrona di ogni piccolo nostro pensiero o azione. Epicuro sostiene innanzitutto che non è mai troppo presto né troppo tardi, ma al contrario è sempre il tempo giusto per cercare di essere felici; e che la felicità non è un momento né un bene solitario, ma attraversa il rapporto con gli altri. Non c’è bene più grande dell’amicizia, dice lui; e per amicizia – filìa – intende un atteggiamento che tradurrei nella fraternité della Rivoluzione francese: di benevolenza, di apertura, di solidarietà diremmo oggi, che lega come un filo gli uni agli altri tutti gli esseri umani della terra. Conoscersi e riconoscersi negli altri, essere solidali, essere anche fragili senza aspettarsi in risposta la forza, e senza rispondere con la forza alla debolezza degli altri, più che mai oggi che stiamo nel regno dell’ansia, è importante: ci libera, ci cura.

Il fatto è che l’ansia, e l’ansia di questi tempi in particolare, ci ricorda una cosa che nessuno può negare; che siamo umani, e che per quanto abbiamo fatto per edulcorare e nascondere ai nostri stessi occhi gli aspetti più tremendi, più sconvolgenti, più selvaggi della vita, essere umani significa sostanzialmente essere vulnerabili, e destinati alla coscienza di questa vulnerabilità. Tanto vale, allora, provare ad accettarlo, e usare questa consapevolezza per modificare – per rendere più indulgente, più generoso e meno assertivo – lo sguardo che volgiamo a noi stessi, e agli altri esseri umani come noi.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, da anni collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne.
Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland).
Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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