“È una cosa bizzarra, questo voyeurismo che si usa esibire nei confronti delle autrici. Come se una donna non potesse mai scrivere nulla di troppo diverso da un diario; come se una donna non sapesse guardare oltre sé stessa. Peccato che la vera impostura sia proprio quella su cui si basa questo pregiudizio: e cioè che l’universale sia sempre maschile, e dunque che solo gli scrittori maschi abbiano abbastanza profondità da riuscire a dare un senso al mondo che raccontano. Del resto, si parla di ‘scrittura femminile’ ma non di ‘scrittura maschile’: se lo scrittore è un uomo, si dice ‘scrittura’ e tanto basta…”. Su ilLibraio.it la riflessione autobiografica della scrittrice Ilaria Gaspari che cita, tra gli altri, le sorelle Brontë, Hilary Mantel, Margaret Atwood, Ingeborg Bachmann, Harold Bloom e Annalisa De Simone, in libreria con un volume dedicato a Jane Austen…

Se conto quanti anni sono passati il numero mi pare irrisorio, perché da allora sono cambiate un’infinità di cose – d’altra parte la vita è tutta così, un susseguirsi di vigilie che non sappiamo riconoscere, perché non possiamo sapere di cosa siano vigilie. Fatto sta che un certo numero di anni fa, pochi ma tantissimi, ho inventato un gioco.

Allora vivevo a Parigi e il Carillon era un bar carino dove nelle sere d’estate ci attardavamo a bere vino senza pretese. Faceva buio tardi, noi stavamo in piedi a chiacchierare mentre i tramonti scolorivano dietro i tetti bassi dell’Hôpital Saint-Louis e nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo in una sera d’autunno, già vicina senza che lo sapessimo: spari, urla, i corpi sul marciapiede, e poi i fiori, le saracinesche abbassate, le candele. Due o tre settimane dopo la tragedia sono ripassata davanti al Carillon chiuso; sulla lavagna erano ancora segnati i prezzi delle birre. Erano gli stessi prezzi della sera che successe quello che non ci si poteva aspettare; gli stessi, anche, delle sere in cui tiravamo tardi là fuori, e giocavamo al mio gioco.

Era molto semplice: il giocatore rispondeva a una serie di domande che gli ponevo in una sequenza variabile, e le risposte a queste domande gli creavano, proprio come si crea un personaggio per una storia, una sorta di alter-ego su misura: un personaggio con un nome, un’età, una posizione nel mondo, un lavoro, un carattere e certe passioni, modellato tutto sui desideri del giocatore, su certe aspirazioni che nella vita di tutti i giorni parevano irrealizzabili. In genere, quelli che si offrivano volontari per giocare rimanevano sorpresi e soddisfatti, ed evocavano poi quegli alter-ego nelle conversazioni e negli scherzi. 

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All’inizio era stato un gioco che facevo con me stessa. A ben guardare, l’avevo inventato per me: ero in un periodo di cambiamenti, lo sentivo, avevo bisogno di osare e non sapevo come dirmelo. Facevo un dottorato in filosofia, ero entusiasta di vivere a Parigi ma molto meno della mia tesi, nonostante l’argomento mi appassionasse; procedevo a rilento, coltivavo con quelle pagine un rapporto masochista. Mi sentivo un’inetta; fu in quel periodo che scoprii l’esistenza della cosiddetta sindrome dell’impostore, e angosciose ricerche sul web mi rivelarono che colpisce spessissimo i dottorandi, specie di sesso femminile. Eccomi lì. Noiosissima prima della classe, certo per errori di valutazione; normalista per sbaglio – ovvio – studentessa di filosofia senza un briciolo del talento, della passione, dell’ambizione dei miei compagni, così carismatici e sicuri di quello che cercavano. Chi ero, io, e cosa stavo facendo?, mi domandavo e mi avvitavo su me stessa; non riuscivo a volgermi completamente a nessun oggetto, ero prigioniera. Cos’avrei potuto combinare? Mi guardavo intorno, cercavo di convincermi che sarei stata un giorno una professoressa universitaria, proprio come l’algida Madame che mi riceveva ogni due settimane perché le consegnassi le pagine stampate su cui avevo il terrore di posare gli occhi e scoprire uno strafalcione in francese. Ma sapevo benissimo che non sarei stata mai come lei. 

Per quanto mi sforzassi, per quante persone – professori, genitori, amici, intellettuali – ammirassi sinceramente, non trovavo nessuno a cui augurarmi di somigliare. Sembra un problema stupido; ma essere incapaci di decifrare i propri desideri non è mica uno scherzo. Ero l’ago smagnetizzato di una bussola, giravo e confondevo i punti cardinali. Non avevo più saputo dire “ecco, da grande vorrei diventare così” almeno dal tempo in cui avevo forse nove anni e volevo essere Jo March – prima di vederla ingrigirsi con il soporifero Baer. Così, mi toccò inventarmi la persona che volevo diventare: lo feci con quel gioco. Angela, ottima pilota di automobili d’epoca ma soprattutto di moto (io al massimo guido la bicicletta), aveva qualche anno più della me di allora e due anni meno di me oggi; era bella e simpatica, lo sapeva e non soffriva quasi mai per amore; seduttrice felice e libera, non aveva paura di niente eppure era dotata di un fascinoso lato oscuro, una malinconia d’artista che affrontava con sufficiente coraggio da non risultare nevrotica o ipocondriaca; aveva un egoismo che la rendeva generosa quando pareva a lei. Non cercava di piacere a nessuno, faceva innamorare quasi tutti. Viveva in una casa ricoperta di edera, o di vite americana, con un cane che la seguiva ovunque. Per mestiere scriveva romanzi fra il giallo e il noir; naturalmente, essendo un alter-ego e vivendo in un modo di fantasia, non aveva problemi finanziari e riusciva a permettersi la sua casa barbuta grazie ai soli proventi di quel lavoro. 

Era dai tempi in cui sognavo di essere Jo che desideravo fare la scrittrice; ma era dai tempi in cui avevo scoperto che Jo sposa Baer e si trasforma in un’istitutrice devota e irregimentata che non parlavo a nessuno di questo mio desiderio. Lasciai che a parlare fosse Angela, la mia controfigura impavida, e ripresi a desiderare di scrivere qualcosa che non fosse la mia tesi, qualcosa che non avesse bisogno di una bibliografia.

Avevo concesso al gioco di proiezioni uno spazio che ragionevolmente avrei dovuto giudicare infantile; ma il rispetto che ho per i giochi mi rese saggia senza saperlo e mi permise di vincere, una volta tanto, il mio severo senso del ridicolo. Poco dopo aver inventato Angela mi ritrovai io stessa, con la mia sindrome dell’impostore e tutto, a scrivere un romanzo vagamente noir. Non avrei osato cimentarmi nell’impresa, non fosse stato per lei; le sarò sempre grata per avermi mostrato la via, per avermi dato il coraggio di fare la cosa che non osavo desiderare.

Quello che Angela però non sapeva, perché non lo sapevo neanch’io mentre scrivevo quella prima storia tutta mia, era cosa volesse dire, davvero, essere una scrittrice. 

Chissà se anche a lei – se fosse vera – capiterebbe di sentirsi porre tante domande su quanto ci sia di autobiografico nei suoi romanzi. È una cosa bizzarra, che dal di fuori non avrei saputo indovinare, questo voyeurismo che si usa esibire nei confronti delle autrici. Come se una donna, per forza di cose, non potesse mai scrivere nulla di troppo diverso da un diario; come se una donna non sapesse guardare oltre sé stessa. Peccato che la vera impostura – ma come poteva saperlo, Angela, che avevo inventato apposta per uscire dalla mia? – sia proprio quella su cui si basa questo pregiudizio: e cioè che l’universale sia sempre maschile, e dunque solo gli scrittori maschi abbiano abbastanza profondità da riuscire a dare un senso al mondo che raccontano. Cosicché, come riassume molto bene Hilary Mantel (scrittrice inglese, nonché prima donna a vincere il Booker Prize ben due volte, nel 2009 e 2012) uno scrittore uomo che racconta il privato, l’amore, il matrimonio, i bambini, sembra che compia un atto di coraggio, che sia un campione di empatia; se lo fa una donna, apriti cielo, è svenevole e frivola e stucchevole. La stessa identica operazione che, svolta da un uomo, è considerata autofiction, se viene dalla penna di una donna è un diario intimo. Del resto, si parla di “scrittura femminile” ma non di “scrittura maschile“: se lo scrittore è un uomo, si dice “scrittura” e tanto basta.

Angela, questo, non lo immaginava. Non si aspettava le frasi sconcertanti: “io non leggo libri scritti da donne” (quanto è raro, invece, sentire qualcuno che dichiari di leggere solo scrittrici? Pensateci un attimo). Non sospettava nemmeno – lei che esisteva solo come incarnazione del mio desiderio di scrivere – quanto fosse crudele il corollario del teorema di Hilary Mantel. Perché, se un uomo che parla di temi considerati “femminili” assurge a modello di umanissima profondità, che ne è di una donna che scrive cose “maschili”? Niente; è una che scrive cose di genere, nel caso: una giallista, per dire, un’autrice di thriller, non una scrittrice.

Probabilmente se le avessero chiesto un parere sulla questione, Angela avrebbe risposto più o meno come Margaret Atwood a The Paris Review: “Non credo nel ‘punto di vista maschile’ più di quanto creda nel ‘punto di vista femminile’… Diciamo che la buona scrittura, di qualunque genere, è sorprendente, intricata, dura, sinuosa“. Ed è ovvio che i pensieri di Angela sono pensieri miei: quelli che avevo quando desideravo scrivere senza essere stata in nessun modo iniziata al mondo dei libri, se non come lettrice. 

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Dopo molte domande su quanto fosse autobiografico il mio libro, cominciai a chiedermi se a un uomo le domande sarebbero state poste alla stessa maniera (cioè per cercare di capire se non si trattasse per caso di un diario). Mi resi conto allora di quanto fossi stupida io, nelle mie risposte: mi affannavo a giustificarmi, a denigrare la mia protagonista, a prendere le distanze. Eppure, più maliziosa sulla pagina che nella vita, io con il pregiudizio che vuole la voce delle donne meno universale di quella degli uomini (evidentemente, anche se ancora non lo conoscevo bene, avevo avuto modo di intuirlo) ci avevo giocato costruendo il mio primo libro intorno a una prima persona irritante e seduttiva, iper-femminile perché prigioniera degli stessi cliché che fanno dire frasi come “io non leggo libri scritti da donne”. Mi sarei dovuta limitare a ridere di come funzionava bene la piccola trappola che avevo costruito; invece a quel punto iniziai a sentirmi amareggiata. E dire che avevo voluto scrivere un noir proprio per cimentarmi con un genere – una vocetta dentro di me suggeriva: certo, volevi cimentarti con un genere che tu stessa ritenevi maschile, e questo è il risultato! Ero forse la prima, io, a ritenermi troppo femmina per fare lo scrittore? Mi ero messa alla prova per fallire? Può essere. Fatto sta che quell’amarezza mi è servita. Mi ha fatto capire molte cose, prima fra tutte che, una volta vista la faccenda dall’interno, non potevo più proteggermi dietro l’ingenuità di Angela.

Certo, mi direte voi, come generalizzi, come la fai tragica! Non è mica così cupo lo scenario. Va bene, Daphne Du Maurier ha scritto racconti fantastici da farti accapponare la pelle, ha lasciato pagine che non hanno nulla da invidiare a Bram Stoker, eppure, proprio lei che con Rebecca è riuscita a far entrare milioni di lettori nell’incubo perfetto, per tutta la vita è stata considerata una svenevole autrice per signore. Ma è uno sfortunato incidente, mi direte. Guarda invece Shirley Jackson, che di recente è tornata sulla bocca di tutti, lei che ha scritto quei magnifici horror gotici, lei che viene citata da Stephen King come maestra di stile. È vero: se leggete Paranoia, però, ci troverete dentro parecchie pagine in cui Jackson racconta quanto sia difficile essere una scrittrice e dover mandare avanti una casa piena di bambini, e ritrovarsi continuamente a lavare i piatti, “stanca di scrivere graziose storielle autobiografiche in cui mi fingo una linda casalinga con un grembiule a fiori, che rimescola appetitose cibarie sulla stufa a legna”. 

Queste pagine che con ironia corrosiva raccontano la combinazione fra la vita domestica e il lavoro di scrittrice mi hanno ricordato una frase che avevo letto da adolescente, in anni in cui fra me e me, come Jo March ragazza – ma un secolo e mezzo dopo – desideravo solo essere un maschio per non dovermi impelagare in certi dilemmi. È una frase di Harold Bloom su Jane Austen: “Se si fosse maritata, Austen non ci avrebbe lasciato nessuno dei suoi romanzi”. Per puro caso, la rileggo ora che ho tante amiche scrittrici: più reali di Angela, tutte diverse e ardimentose. Con loro rido degli inceppi contro cui abbiamo a volte la sensazione di incagliarci: il paternalismo, la condiscendenza o addirittura, qualche volta, l’offesa correttiva se sembriamo troppo diverse da come ci si aspetta che dovremmo essere (perché se scrivi e sei donna, o sei del tutto “convenzionale”, e allora sei un’innocua convenzionale voce femminile, oppure è facile che ti si consideri una pazza); un senso di esclusione che per fortuna – anzi no: non per fortuna, ma grazie all’impegno delle molte persone che lavorano per estinguerlo – è sicuramente meno forte di un tempo eppure, come la malattia di un convalescente, ha ogni tanto qualche recrudescenza. La frase di Bloom la ritrovo nel libro di una scrittrice che ho conosciuto proprio durante un dibattito su questioni di femminismo, e mi ha colpita per l’intelligenza e l’anticonformismo delle cose che diceva: Annalisa de Simone, che ha scritto per Marsilio (collana PassaParola) un libro in cui racconta il suo rapporto con Orgoglio e pregiudizio.

Annalisa De Simone Le amiche di Jane

Ora, inciampata nella frase di Bloom dentro questo libro delizioso che mescola riflessioni e confidenze costruendo un ritratto di Jane Austen che ha il disordine allegro di una chiacchierata, oso chiedermi quello che non osavo quando ero un’adolescente convinta che per fare la scrittrice, e farlo bene, fosse necessario trasformarsi in un’amazzone armata di penna anziché di faretra e che, se davvero avessi avuto l’ardire di tentare quella carriera, avrei dovuto sacrificarle quantomeno l’amore. Quando si parla di grandi scrittrici, è infatti d’uopo mettere l’accento sull’ostinata zitellaggine (un esempio luminoso sono le sorelle Brontë, che beffarono ogni convenzione prendendosi tutta la gloria negata al loro fratello Branwell, rovesciando le previsioni che vedevano lui, unico maschio, affermarsi come artista; scrittrici geniali, furono anche molto scapole, con la parziale eccezione della più longeva, Charlotte, la quale fu la sola a sposarsi ma morì poco dopo le nozze), o comunque su un’infelicità domestica talvolta considerata letale, come nei molti casi di autrici suicide, da Sylvia Plath a Virginia Woolf alla povera Ingeborg Bachmann che trovò la morte in un atto mancato. E se dietro questi suicidi c’era dell’altro, ragioni magari più intricate e, oserei dire, più intellettuali, si tende a non pensarci; e a mantenersi ancorati all’immagine di queste gigantesse del pensiero nelle vesti di sfortunate, svenevoli, debolissime Ofelie. 

Ma oggi, che so che la vita è fatta anche di momenti in cui guardi in faccia le cose che non vorresti pensare o, peggio ancora, accettare di te, mi posso chiedere davvero se la frase di Bloom su Austen sia poi vera. È certo che la vita quotidiana di un autore condizioni la sua opera, nel senso che plasma i tempi e i ritmi della scrittura; Jane Austen, che pure scrisse per tutta la vita senza avere uno straccio di stanza tutta per sé (magari da sposata l’avrebbe anche avuta: ma si sarebbe dovuta occupare della cura della casa che la conteneva per gran parte del suo tempo), vivendo da parente povera ospite dei fratelli, raccontò l’amore dalla prospettiva di una zitella – è vero – ma proprio da quella prospettiva seppe dimostrare di dominare gli ingranaggi delle passioni, e pure la crudeltà dei meccanismi economici che regolano il dispiegarsi di quelle stesse passioni in società. Tanto che fu capace di scrivere, in una lettera alla sorella Cassandra che scopro ora nel libro di De Simone: “Le donne nubili hanno una terribile propensione a essere povere, il che è un argomento molto forte a favore del matrimonio”.

Ora, nelle parole di Bloom non sento più il presagio sinistro che ci sentivo quando ero una seriosa adolescente. Come dice un famoso adagio, la storia non si fa con i se; ma penso che alla fine, zitella o no, Austen abbia vinto tutto quel che poteva vincere, grazie al senso dell’umorismo purissimo e spassoso che seppe distillare dal suo scrittoio pieghevole, mentre scriveva e scriveva intanto che il resto della famiglia chiacchierava, rideva, viveva nel salotto. Penso che anche se si fosse sposata ci avrebbe forse potuto lasciare i suoi romanzi meravigliosamente cinici e ingenui – a patto però di sposarsi con qualcuno che fosse in grado di capire il suo talento enorme, di sostenerla e darle una mano anziché farsi servire e credere che il lavoro di lei fosse fare la moglie. Se non ha incontrato qualcuno che riuscisse a offrirle tutto questo – e converrete con me che nell’Inghilterra di inizio Ottocento, quando Jane era in età da marito, non doveva essere proprio facilissimo – meglio che non si sia sposata. Almeno possiamo leggerci i suoi libri così come sono, e ricordarci che, per dirla con parole di Shirley Jackson, “la cosa più bella di essere una scrittrice è che puoi permetterti di abbandonarti alla stranezza quanto vuoi, e, a patto che continui a scrivere e in un certo senso a consumarla, nessuno potrà farci niente”.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e
Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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