Parte da “I mnemagoghi”, un racconto straziante e poco conosciuto di Primo Levi, la conversazione tra la scrittrice Ilaria Gaspari e il regista Valerio Mieli (autore di “Dieci inverni” e, più recentemente, di “Ricordi?”: “Il profumo, credo, è il mezzo più potente attraverso cui il ricordo entra in noi”

C’è un racconto di Primo Levi, pubblicato sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila nella raccolta Storie naturali, con un titolo misterioso – I mnemagoghi. È la storia di un giovane medico condotto che, appena accettato l’incarico, arriva in corriera nel paesino di montagna a cui è stato assegnato. Per prima cosa va a trovare Montesanto, il medico che è stato chiamato a sostituire: dopo qualche chiacchiera di circostanza il vecchio dottore gli rivela di essersi imbarcato, negli anni, in un bizzarro esperimento. Non potendo sopportare l’idea che i suoi ricordi andassero perduti, ha sintetizzato e rinchiuso in apposite provette gli odori che hanno segnato la sua vita.

Dentro ognuna delle boccette a tappo smerigliato che ha disposto in bell’ordine in un armadio – e che il vecchio dottore chiama mnemagoghi, cioè “suscitatori di memoria” – è imprigionata una sensazione. Sono, però, avverte Montesanto, strettamente personali: anzi, in un certo senso sono proprio “la sua persona” (“poiché io, almeno in parte, consisto di essi”). Tanto personali che quando il dottore giovane, Morandi, su invito di Montesanto svita qualche tappo e annusa, salta fuori che per lui quelle essenze che per il vecchio dottore sono la vita, qualche volta non sanno proprio di niente – cioè, di nient’altro che degli elementi da cui son state estratte.

Ce n’è una che per Morandi sa solo di acido fenico; ma per il vecchio Montesanto è il ricordo di una primavera lontanissima, del suo antico entusiasmo giovanile per “Biagio Pascal”, di un certo languore alle reni e alle ginocchia e di una compagna di corso, che nel frattempo è diventata nonna.

Quello che per il dottorino è l’odore di due pietre focaie che si sfregano fra loro, per Montesanto è l’essenza “della pace raggiunta”, il ricordo di escursioni solitarie in montagna, del momento in cui si sedeva sulla cima e sentiva di aver finalmente raggiunto uno scopo. In una boccetta Morandi sente il profumo della frutta troppo matura, ma lì è racchiusa l’essenza di una crisi religiosa, sopravvenuta alla morte del padre del dottore. Quello che per il medico giovane è odore di caserma, per Montesanto è la sua scuola elementare. E così, fino all’ultima boccetta, che emana un leggero odore “di pelle pulita, di cipria e di estate”: il vecchio medico, che ha tanto detto, tanto raccontato, che si è confidato con Morandi come può fare solo chi rompe una lunga solitudine, di colpo è laconico, quasi brusco. Questo non è né un luogo né un tempo, dice; è una persona, e non aggiunge altro.

È un racconto bellissimo, sobrio e straziante come molte delle cose scritte da Primo Levi; ed è ingiustamente – inspiegabilmente – poco noto. Io per esempio l’ho scoperto solo grazie a Valerio Mieli, che a questo racconto è molto legato (“È una delle mie passioni letterarie, e pensa che l’ho letto per la prima volta da ragazzo senza sapere che fosse di Primo Levi: pensavo che fosse di questo tale Malabaila, e solo dopo essermi innamorato del racconto ho scoperto chi era, in realtà, Damiano Malabaila”).

Mieli è il regista di Dieci inverni (2009) e più recentemente di Ricordi? (2018), che oltre a dirigere ha anche scritto, e che è stato candidato ai David 2020 per la miglior attrice protagonista (Linda Caridi), la fotografia di Daria D’Antonio e per la sceneggiatura originale.

Di quell’idea del ricordare che ne I mnemagoghi è l’ossessione e la missione del vecchio Montesanto, il film di Mieli riesce a dare un’interpretazione visiva straordinariamente sinestesica, tanto efficace da farmi scoppiare a piangere nel bel mezzo del cinema durante la scena in cui il protagonista senza nome (interpretato da Luca Marinelli), entra in una profumeria per cercare il profumo che ricordava addosso alla ragazza che amava. E, ahilui, ahinoi, lo trova. Chiunque abbia perso un amore, anche solo una volta nella vita, sa benissimo quello sconvolgimento, di ritrovarlo – tutto intero e di punto in bianco irrimediabilmente assente – nella traccia invisibile di un odore. È un’epifania della perdita che chiunque abbia amato e perso e sofferto conosce; qualcuno l’ha sperimentata, magari reiterando la dolcezza di quel dolore autoinflitto, nel reparto dei profumi di un grande magazzino, cercando di sfuggire gli occhi di commesse troppo sollecite mentre spruzza l’assenza su un cartoncino bianco con su scritto Rinascente; qualcuno per caso, sul metrò affollato, in una folata che arriva dal bavero di un cappotto sconosciuto e già lontano, già in fondo al vagone. Ma di certo in molti la conoscono, quella sensazione di struggimento a cui è impossibile sottrarsi a meno di pinzarsi il naso con un mollettone; tant’è vero che non ero la sola in lacrime durante la proiezione.

“Il profumo, credo, è il mezzo più potente attraverso cui il ricordo entra in noi: io ho a casa dei profumi di cui tengo sempre una boccetta quasi alla fine, che non uso più, ma che è la traccia di un certo periodo della mia vita. Probabilmente per questa forza che hanno gli odori, la scena in cui lui va a cercare il profumo di lei sapendo che si farà male, ma lo fa lo stesso, è il passaggio più doloroso del film.”

Il film di Mieli, è, sì, una storia d’amore (“che è quello che mi interessa, credo”); ma è, soprattutto, la costruzione visiva di una fenomenologia del ricordo. “Ho detto molte volte senza accorgermene la parola fenomenologia”, ride verso la fine della nostra chiacchierata; d’altronde ha studiato filosofia, e si capisce. “Quello che mi interessa di più raccontare, però, più della storia d’amore, è che in ogni momento noi siamo immersi in un mondo che è il nostro, ed è diverso da ogni altro, anche da quello delle persone che vivono quel momento insieme a noi. È il fatto che il mio mondo di un certo preciso momento è questo perché è influenzato dal mio stato d’animo, da com’è fatto il mio cervello, da quello che ho visto.” Così è nata l’idea di raccontare la storia di un amore intenso ma anche molto “normale”, dall’interno, “senza mai uscire dalla cornice”: cioè unicamente attraverso i ricordi, sbalzati sullo schermo da una parola, una domanda, un’associazione di idee o immagini che li innesca; ricordi che non sono semplici flashback, però, ma frammenti dei mondi dei due amanti. Che, come molti di quelli destinati a innamorarsi, o anche solo a illudersene per un po’, si incontrano a una festa – e noi li vediamo, in effetti, incontrarsi: solo che stenteremmo a riconoscere la stessa festa, che nella visione di lei è luminosa, soffusa, quasi magica, in quella di lui cupa, come sull’orlo di una tempesta. Perché lei, quando si incontrano, galleggia in un mondo lieve e felice, un mondo aereo e pieno di luci, mentre lui è tormentato, pesante, impantanato nelle angosce della vita, ed è anche per questo che si cercano: hanno bisogno una dell’altro per potersi sentire ancorati a terra, ma a un’altezza sopportabile. Persino fra due persone che si cercano con l’urgenza di questi due personaggi senza nome, che vivono insieme un amore forte (“che non vuol dire per forza duraturo”), però, resiste un confine invisibile, una barriera che nemmeno l’intimità più profonda potrà scalfire e che tiene separati i loro mondi privati, i mondi arcaici in cui qualsiasi ricordo viene incastonato, e distorto, e modificato, da altri ricordi, dagli scherzi della memoria, dalle approssimazioni imposte dal vivere.

Io sono partito da un elenco delle occasioni in cui la nostra vita può avere un impatto sul ricordo, può modificarlo – e viceversa: per esempio quei momenti in cui ti sembra di ricordare che stavi con una persona e invece stavi con un’altra, quelli in cui ti torna in mente, come se fosse una cosa che hai vissuto, una scena raccontata in un libro, quindi una cosa che tu non hai mai visto davvero ma solo immaginato. O il modo in cui si modifica un ricordo d’infanzia, a seconda dello stato d’animo a cui lo colleghiamo – e poi arriva qualcuno che ti fa vedere che le cose erano andate diversamente, e allora ti rendi conto d’improvviso che se lo avessi saputo prima, se avessi ricordato un’altra versione rispetto a quella a cui ti sei attenuto per anni, forse anche nella tua vita certe cose sarebbero state diverse. Ci sono tantissimi esempi di questo fenomeno: uno tipico, e comunissimo, è quello della casa che conoscevamo da bambini e ci sembrava gigantesca, e che invece, tornandoci da adulti, si rivela piccolissima.”

Questo della percezione degli spazi nel ricordo, e del tornare sui luoghi del passato per scoprire con tutta evidenza che sono diversi, proprio nell’aspetto più oggettivo – le dimensioni – da come li ricordiamo, è un tema che ossessiona anche me, e chissà quante altre persone; e nel film è reso con un’immediatezza che fa quasi trasalire. “Ma poi – continua Mieli – ci sono anche altri esempi, con un’intensità emotiva anche più alta: per esempio il fatto di essere ossessionati dal ricordo di una persona, di idealizzarla. Sono partito da queste idee, da queste anamorfosi del ricordo, e poi ho incastrato la mia riflessione, che era molto teorica, nei presupposti almeno, dentro il racconto: così questi pensieri, queste osservazioni, si sono trasformate in una storia.” E nella storia, quello che succede è che fra questi mondi destinati a rimanere distinti, privati, personali, si sviluppa un movimento dialettico, per cui scoloriscono, almeno in superficie, l’uno sull’altro, si intrecciano in un breve rovesciamento di ruoli, e i ricordi di lui si riempiono un poco della luce di lei, e quelli di lei assorbono una patina di cupezza che viene da lui. Che è quello che succede quando ci innamoriamo e lasciamo a un’altra persona il privilegio e l’onere di trasformare, un poco, il nostro universo personale, anche se sappiamo tutti che, in fin dei conti, come le boccette di Montesanto, anche l’amore più grande e più felice del mondo ci lascerà dei ricordi che solo noi sapremo riconoscere davvero fino in fondo, andando oltre il profumo che tutti possono sentire, di cipria, o di pelle pulita, o di estate: rimarranno strettamente personali.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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