“La mia è un’educazione sentimentale fatta soprattutto di parole, parole lette, ascoltate, recitate. Ma se dicessi che viene tutta dai romanzi ottocenteschi, russi e francesi che leggevo da ragazzina, con qualche incursione della commedia romantica più classica, quanto mentirei!”. Su ilLibraio.it il racconto della scrittrice Ilaria Gaspari, che ricorda l’influenza che ha avuto per lei la lettura di un “giornaletto sottile e scritto fitto” fondato nel 1946: “Intimità”

Mi sono chiesta spesso – anzi, mi chiedo spesso – di quante mai minuscole influenze, spiate appena, qualche volta solo sfiorate, qualche altra ossessive e martellanti come le fissazioni dell’infanzia e dell’adolescenza, sia fatta l’educazione sentimentale di una persona qualsiasi, nella sua parte più teorica, diciamo, o più bovaristica, se preferite: voglio dire, quella che si costruisce non vivendo ma sognando di cominciare a vivere, fare, baciare, quando ancora l’inizio di tutto pare lontano perché si è troppo giovani per la vita, come non fanno che ripeterti in quella fase in cui la lunghezza delle gambe copre quattro quinti dell’altezza complessiva, e ci si deve esercitare a dare un bacio facendo le prove sulla mano, e a tratti fa schifo, a tratti sembra divertente; a tratti non si vede l’ora di cominciare la vita vera, a tratti ci si spaventa di vederla avvicinare, come il profilo di una costa indovinato dal finestrino di un aereo; e si ha ragione di non vedere l’ora, e si ha ragione di prendersi paura.

La mia, per esempio: è un’educazione sentimentale fatta soprattutto di parole, parole lette, ascoltate, recitate. Ma se dicessi che viene tutta dai romanzi ottocenteschi, russi e francesi che leggevo da ragazzina, con qualche incursione della commedia romantica più classica, quanto mentirei!

Perché a dire la verità, la mia prima educazione all’amore viene da un giornale che leggeva la mia nonna, di cui anzi collezionava i numeri passati, che io rubavo e mi leggevo di nascosto, all’insaputa di tutti eccetto lei, che volentieri divideva con me il segreto e mi passava con discrezione la rivista nei pomeriggi d’estate in cui non c’era niente da fare se non ascoltare invisibili cicale, lamentarsi del caldo e leggere, nel grande giardino in cui passavamo luglio e agosto, sotto le querce, sotto il cielo blu.

Ovviamente non c’era nessun bisogno di tenere segrete quelle letture, che non avevano niente di sconveniente; forse era un po’ strano, ma di certo non scandaloso, che una bambina di otto anni leggesse vecchi numeri di Intimità, giornale fondato nel 1946, come recita il suo primo editoriale, che trovo adesso in rete, per “tutte le donne del mondo,” che “in questo tormentato dopoguerra”, “hanno qualcosa da raccontarci. Qui avranno il loro rifugio, il loro angolo intimo, il loro specchio fedele”.

A quanto pare, ma io allora non lo sapevo, Intimità nei suoi primi anni di vita ha ospitato anche grandi firme del genere rosa, come Liala e Luciana Peverelli; quando l’ho iniziato a leggere io, verso la metà degli anni Novanta, era un giornaletto sottile e scritto fitto, concepito come una raccolta di racconti scritti in prima persona dalle presunte protagoniste, che avevano in genere nomi vagamente americani e cognomi costituiti da un’unica iniziale puntata. Si firmavano con sigle come Susan R., Judy P., qualche volta spuntava un Mark N.; ma, per lo più, erano nomi femminili, Carol o Diana, Louise e Liza.

Ecco, insomma: forse le istanze più spiccatamente pedagogiche della famiglia, che puntavano a farmi crescere ‘coltivata’, non sarebbero state proprio soddisfattissime di quelle letture; però sono sicura che nessuno me le avrebbe proibite. Ma a noi due piaceva mantenere il segreto, mentre tutti dormivano la pennichella postprandiale e solo noi eravamo sveglie nella casa silenziosa: allora uscivamo in giardino, ci sdraiavamo sui due lettini da spiaggia – perché stavamo in una casa di mare – sotto gli alberi e sotto le cicale, e leggevamo ognuna il suo numero di Intimità. In copertina c’era immancabilmente qualche star o starlette della tv che sorrideva un sorriso patinatissimo e a molti denti; e l’annuncio di ‘un romanzo completo’, che poteva addirittura essere staccato dal giornale e ripiegato come un libricino, perché stava tutto nelle pagine centrali e aveva persino la sua copertina, la quale di solito ritraeva qualche nerboruto figlio di vicario, o vicario addirittura, con redingote o marsina, che stringeva con aria ispirata una Lilly o una Jenny, sventurata giovane di umili origini in procinto di scoprirsi nobile, e/o ereditiera di qualche insospettabile fortuna. Tutte quelle parole, vicario, redingote, marsina, e pure ereditiera, le avevo imparate proprio dai romanzi completi di Intimità, che rimanevano pure i loro luoghi naturali; perché il romanzo completo era in genere di ambientazione ottocentesca, o comunque si situava in un vago passato anglosassone in cui la gente viveva in tenute, girava in calesse e aveva rendite in sterline, e la maggior parte degli uomini erano appunto vicari; e le donne, solo però quelle che non erano le protagoniste, erano spesso figlie, mogli, o sorelle, di vicari – nientemeno.

Ma non era il romanzo completo ad appassionarmi, in genere, anche se leggevo pure quello, per ultimo, per completezza, per non lasciare nulla di non letto; la mia delizia erano le storie vere – così strillate, almeno, nel richiamo di copertina. Ogni numero ne ospitava almeno dieci, e mi piacevano tutte da matti. Mi hanno insegnato molte delle cose che so dell’amore, molto ma molto tempo prima che potessi lontanamente intuirle; perché, anche se purtroppo dubito che fossero vere, erano strapiene di tradimenti, perdoni, colpi di scena, e avevano soprattutto una qualità che mi chiedo, oggi, retrospettivamente, quanto fosse voluta: c’era in tutte qualcosa di anarchico, a tratti pure un po’ boccaccesco, che ne contraddiceva le intenzioni e le conclusioni, spesso apertamente edificanti. Prima dei perdoni, prima delle riconciliazioni e degli ‘e da lì è cominciata la mia nuova vita’; prima che tutti finissero felici e contenti, salvo i fedifraghi, puniti o al limite ignorati, ne succedevano di cotte e di crude – innamoramenti inaspettati, catastrofi e tragedie domestiche, cotte clandestine per cognati o amici fraterni; e succedeva tutto con una tale nonchalance, che iniziavo a credere che nell’amore davvero tutto fosse possibile. E anche se c’era, non di rado, qualcosa di inverosimile in quelle storie di ‘vita vera’, anche se in poche righe si virava dal piccante a severe morali, poche cose mi deliziavano come calarmi nelle avventure di quelle sconosciute Judy, o Paula, o Sherry, illustrate da fotografie che mi affascinavano per la loro statica perfezione, in cui modelli e modelle di aspetto radioso e dell’età, più o meno, dei protagonisti dei racconti – età che andavano dai diciassette ai settant’anni, perché le storie di vita vera, animate da evidenti ambizioni enciclopediche, coprivano una casistica vastissima – assicuravano a una perpetua fissità istanti di false vite quotidiane, in cucine piene di sole, o in campi fioriti, o in riva a immobili laghi.

Sarà stato perché erano letture segrete – ma pur sempre di una segretezza condivisa, senza il peso della solitudine; sarà stato perché non avevo la più pallida idea di cosa volesse dire soffrire per amore, o per quelle fotografie incredibilmente statiche e per i nomi improbabili delle autrici; sta di fatto che in quei pomeriggi ho iniziato a sognarmi i miei primi amori, da vivere e da raccontare, e a immaginare di firmarli con un nome un po’ più esotico del mio – diciamo, Hilary G.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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