“L’infanzia è un territorio selvaggio che andrebbe protetto perché possa rimanere popolato di piccoli esseri felici, innocenti e senza cuore da cui, come da un bulbo fiorisce un iris in primavera, sbocceranno un giorno gli adulti che saranno. Non è una malattia da curare, non uno stato di minorità da normalizzare, e nemmeno un laboratorio per porre le basi per la costruzione di ometti e donnine iper-efficienti, competenti e competitivi…”. Su ilLibraio.it la scrittrice Ilaria Gaspari si confronta con il tabù dell’innocenza dei bambini. E lo fa citando, tra gli altri, Proust, Peter Pan, Alice, Mary Poppins, Pippi Calzelunghe, Winnie The Pooh, Harry Potter e…

Credo che nessuno scrittore, con l’eccezione forse di Proust, abbia capito l’infanzia come James Matthew Barrie, l’inventore di Peter Pan, di cui pare che Stevenson – nientepopodimeno – abbia avuto a dire: “Io sono un artista, ma lui è un genio”.

Proust, dell’infanzia, ha conservato per sempre il dolore di essere cresciuto imbozzolato nel bambino che era stato, come un bonsai o un insetto prigioniero nell’oro dell’ambra. Barrie, invece, l’ha compresa e raccontata da lontano e da vicinissimo insieme: la sua lente è stata la nostalgia rassegnata di un esule. D’altra parte, quell’esilio è il destino di chiunque cresca; e doveva saperlo bene Jamie Barrie, che a sei anni perse un fratello poco più grande di lui e si trovò, bambino, a consolare una madre disperata, a sentire il richiamo degli anni dell’adolescenza come la minaccia di una gran nube grigiorosea pronta a inghiottire destini; e che da adulto seppe raccontare la vita nascosta dei bimbi perduti, di una mamma addormentata accanto alla finestra aperta, in attesa di un figlio che non vuol saperne di tornare, ma la guarda oltre i vetri e torna a volare come gli hanno insegnato gli uccelli, e del bacio mai dato, che come un fossile resta all’angolo della bocca della signora Darling.

Perché alla fin fine – è un’ovvietà – ci sono solo due modi di scrivere di bambini e per i bambini. Il primo, è essere direttamente dei bambini; il secondo, più diffuso – o meglio: più diffusamente testimoniato, perché in genere i libri che si pubblicano non hanno autori bambini, il che, a ben guardare, qualche volta è proprio un peccato – è farlo da adulti, cioè dopo essere stati esiliati dal regno dell’infanzia. Scendere a patti con il dolore di questo esilio non è semplice, ma di certo non è nemmeno impossibile, e molti libri bellissimi che da parecchi anni sono considerati classici per l’infanzia sono la testimonianza di quanto possano essere fecondi, se assecondati bene, la nostalgia e l’amore (perché molto spesso i personaggi che popolano questi libri, come Alice o Mary Poppins, Pippi Calzelunghe, Winnie The Pooh, Harry Potter e lo stesso Peter Pan, nascono da quella speciale forma di amore che è il raccontare storie a un bambino a cui si vuol bene).

Verso la fine di Peter e Wendy (1911), il romanzo meraviglioso e perturbante che racconta le avventure del folletto Peter Pan, compare una frase bizzarra: e compare proprio in una pagina che dalla nostalgia degli esuli dell’infanzia distilla ogni possibile goccia di dolore. Wendy ha incontrato Peter quando era una bambina saggia e coscienziosa e, da brava sorella maggiore, sentendolo singhiozzare ai piedi del suo letto, gli ha fatto subito la domanda che, come una formula magica, basta ad addomesticare il folletto: Perché piangi, bambino?, gli ha chiesto prima di industriarsi, con molto pragmatismo, a ricucirgli con ago e filo l’ombra stropicciata. Ma ora è cresciuta: “Non dovete dispiacervi per lei. Era una di quelli che sono contenti di diventare grandi. Anzi, finì per diventare grande un giorno prima delle altre ragazze, per sua propria volontà”, scrive Barrie indovinando lo sconforto che prende ognuno dei suoi piccoli lettori – e anche dei suoi lettori grandi – a leggere dell’irreversibile metamorfosi di Wendy Moira Angela Darling, il cui stoicismo non basterà a consolarci, quando la vedremo nascondere le lacrime di fronte al folletto per sempre bambino, che non è più capace di riconoscerla. È cresciuta mentre Peter, anno dopo anno, si dimenticava di tornare a prenderla e portarla con sé sull’Isola, perché per lui il tempo non esiste.

La frase conturbante la pronuncia proprio Wendy, per la quale il tempo è esistito eccome: infatti, come vi dicevo, alla fine del libro è diventata una donna, e non riesce più a volare. “Come vola il tempo”, dice alla sua bambina, una bambina furba di nome Jane, che le chiede di raccontarle la sua infanzia perché vuole che la mamma ricordi. “Perché ora tu non riesci più a volare, mamma?” domanda la bambina furba, ed ecco che Wendy tira fuori questa frase strana, enigmatica. Le persone, quando crescono, dice, dimenticano come si vola, perché “non sono più felici, spensierate, innocenti e senza cuore. Solo coloro che sono felici, innocenti e senza cuore (the gay and innocent and heartless) riescono a volare”.

Volano solo i felici, innocenti e senza cuore – i bambini, in altre parole. Con questa sentenza sibillina, dolorosa in una maniera irrimediabile e reale, come può esserlo il verdetto di un oracolo, Jamie Barrie, che scrisse tutta la vita di bimbi perduti e che, da bambino, dovette provare a consolare una mamma disperata, riesce a mettere proprio il dito nella piaga. Perché l’innocenza dei bambini è un confine, una differenza incontrovertibile fra noi e loro. Pure gli adulti, qualche volta, sono innocenti, ma quella dei bambini è diversa da ogni altra forma di innocenza: i bambini sono creature nuove al mondo, gli adulti no.

I bambini sono innocenti perché non hanno alternative, e perché sono tutti nuovi: questo significa che per loro stare al mondo è un’avventura, che tutto quanto è ancora da scoprire. Per questo possono essere innocenti, felici e senza cuore, tutto insieme; possono essere tranquillamente amorali perché, beati loro, una morale non ce l’hanno – e non si tratta mica di una scelta, è solo un dato di fatto. E come si legge in un altro passaggio di Peter Pan: “Proprio come le creature più spietate del mondo, che sono appunto i bambini, benché tanto amabili, tutti ce ne andiamo, e per un po’ ce la spassiamo chiusi nel nostro egoismo; ma poi, quando sentiamo necessità di un’attenzione particolare, torniamo dignitosamente a richiederla, fiduciosi di essere accolti con un abbraccio anziché con uno schiaffo”. I bambini sono pronti a lasciare anche chi più amano, non appena sentono il richiamo della novità, scrive Barrie. E il bello è che non li possiamo neppure biasimare. D’altra parte, i bambini, essendo nuovi al mondo hanno un senso strano, fantasioso, qualche volta spaventosamente esatto e qualche altra volta clamorosamente fallimentare, ma sempre creativo, del nesso che lega cause ed effetti. Per loro non è affatto detto che a una certa azione debba corrispondere una determinata reazione; è anche per questo che hanno bisogno di essere protetti. Oltretutto, un bambino dà un valore assoluto alla sua esperienza, si sente al centro del mondo e insieme, del mondo, ignora molte cose: e proprio per questo, come un demiurgo in miniatura, è in grado di costruirsi una sua personale impalcatura magica di cui lui è naturalmente il capo e il tiranno, e di rimanere, nel frattempo, perfettamente innocente.

Purtroppo, tendiamo troppo spesso a dimenticarci che al di fuori dell’infanzia, così come è impossibile volare (persino dentro una fiaba come Peter Pan), è impossibile anche essere insieme felici, innocenti, e senza cuore. Quello è uno stato irripetibile che non ritroveremo mai più, nemmeno nel più sincero rimpianto per l’esilio che l’atto stesso di crescere ci impone; tanto vale rassegnarsi e non cercare di indorare la pillola, né di confondere i bambini con adulti in miniatura, o gli adulti con bambini un po’ cresciutelli. Non ha molto senso dare all’innocenza del bambino una sfumatura morale, e neppure – peggio ancora – confonderla con la bontà; quelle sono cose degli adulti, che non riguardano i bambini. L’infanzia è un territorio selvaggio che andrebbe protetto proprio perché possa rimanere popolato di piccoli esseri felici, innocenti e senza cuore da cui, come da un bulbo fiorisce un iris in primavera, sbocceranno un giorno gli adulti che saranno. Non è una malattia da curare, non uno stato di minorità da normalizzare, e nemmeno un laboratorio per porre le basi per la costruzione di ometti e donnine iper-efficienti, competenti e competitivi.

Raimo-Rossari_Le bambinacce

Purtroppo, nello sforzo di rispettare, difendere e proteggere l’infanzia, tendiamo a non ascoltarla davvero, a non guardarla con attenzione; in una parola, a non rispettarla affatto, e a non rispettare nemmeno, così facendo, i bambini che in segreto ci portiamo dentro, anche quando ci ritroviamo esuli dall’Isola che non c’è, anche quando l’innocenza coincide davvero con una precisa scelta morale e non ha più niente di istintivo e d’ignorante.

Credo che brandire il mito dell’innocenza dei bambini abbia senso solo se serve ad avere a portata di mano un rimprovero da usare contro gli adulti che siamo diventati: contro la pruderie e il moralismo e le prigioni che con questi mattoncini costruiamo per i grandi e per i piccoli, per tutti quelli che vogliamo obbedienti a impliciti criteri di irreprensibilità e presentabilità perpetue, perché siano perennemente pronti a sfilare e a mostrarsi i migliori, i più perfetti, i più adatti a emergere in questo o in quel campo. Questo mito dell’innocenza che un po’ è un tabù e un po’ una verità profonda l’hanno brandito così, per svegliarci e farci allegramente vergognare, Veronica Raimo e Marco Rossari in un libro di filastrocche abiette, sboccate e qualche volta molto allegre: Le Bambinacce, uscito per Feltrinelli con le bellissime illustrazioni, poetiche davvero, di Mariachiara Di Giorgio. Protetti dalla maschera di monelle infantili per finta e scandalose per gioco, con una certa energia anarchica ci ricordano che non c’è niente di più innocente della ricerca del piacere. E che cosa ci perdiamo, ad essere grandi e grossi e ad aver paura di guardare negli occhi il desiderio – tetro e sincero,/nobile e serio – in tutte le forme in cui si può convertire e pervertire, compresa quella di un gran cane nero pronto a lasciarsi ammansire da una bambina innocente, senza cuore, e spaventosamente dedita alla sua felicità.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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