“Rileggere ‘Alice nel paese delle meraviglie’ è una sorpresa. È un libro tragico e perturbante travestito da libro per bambini…”. E ancora: “Non è un libro per l’infanzia, ma sull’infanzia, che dell’infanzia racconta – indirettamente – la fine”. Su ilLibraio.it la scrittrice Ilaria Gaspari si confronta con un grande classico

Se tu conoscessi il tempo come me
Rileggere “Alice nel paese delle meraviglie” 

Del mio primo incontro recalcitrante con Alice nel paese delle meraviglie, letto dopo aver visto rapsodicamente il cartone Disney (spezzato in molte pigre sere di Santo Stefano), ricordo uno strano genere di noia.

Era una noia esitante, che a tratti si incrinava nello stupore – come poteva essere che una bambina diventasse piccola come una coccinella, poi subito enorme, una gigantessa che straripava da una casa improvvisamente minuscola? E perché mai la Regina di Cuori era così crudele, con quella sua mania di decapitare tutti?

alice nel paese delle meraviglie

A questa strana noia zoppicante era intrecciato un inspiegabile senso di delizia e di riposo che si appuntava su alcuni dettagli, i quali chissà poi perché mi parevano irresistibili: la scritta BEVIMI su una bottiglietta, la scritta MANGIAMI su un pasticcino; rose bianche pitturate di rosso, che si trasformano in rose; le tartine imburrate del Cappellaio Matto, il nome misteriosamente spassoso della Lepre Marzolina.


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La storia era impossibile da ricordare, sfilacciata, esasperante come le trame dei sogni raccontate a colazione, quando perdono l’incanto che al risveglio lasciava stupefatti; questo infastidiva la bambina che ero, che amava seguire il filo delle storie sbrogliando matasse di figure in cui impigliarsi, e disprezzava i racconti stilizzati che scivolano via lasciando solo, qua e là, come sparuti massi erratici, piccoli appigli all’immaginazione.


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Ma riletto ora, Alice, è una sorpresa. È un libro tragico e perturbante travestito da libro per bambini; e, rileggendolo oggi, mi sorprendo a pensare a quanto sia ironico considerarlo un classico per ragazzi.

Non è un libro per l’infanzia, ma un libro sull’infanzia, che dell’infanzia racconta – indirettamente – la fine; e capisco adesso che, se da bambina non mi piaceva, è perché allora non lo potevo capire. Nessun bambino può capire, perché non sa ancora, davvero, che il tempo passa; nessun bambino può immaginare come il suo modo di pensare, di parlare, di sognare, un giorno cambierà – tanto da scomparire, da rimanere solo (forse) una traccia sfuggente. Mentre Peter Pan racconta la crudeltà dell’infanzia che finisce assumendo un punto di vista che è perturbante proprio perché esageratamente infantile, incarnato in un folletto dionisiaco, in un turbinio di avventure, indiani e pirati, Alice trasforma la fine dell’infanzia in un frullo di assurdità e nonsense che raccontano quanto è disperante cercare di pensare come bambini senza esserlo più. È un libro beffardo e allo stesso tempo pieno di nostalgia e adorazione; un libro che mi commuove, perché mi sembra rivolto a chi non lo può capire fino in fondo, e trovo disperante e bellissima, oggi, questa incomprensione, e la noia con cui lo lessi da bambina, quando non potevo capire.


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Se conoscessi il tempo come me, dice a un certo punto il Cappellaio Matto ad Alice, non parleresti di perderlo. Non c’è da stare a preoccuparsi del tempo, il tempo che ossessiona il Coniglio Bianco perennemente in ritardo, come se potesse cambiare qualcosa a seconda dell’uso che se ne fa; il tempo, semplicemente, non sopporta di essere battuto, e si vendica con chi cerca di vincerlo, come si è provato a fare il Cappellaio.

Ma questo Alice non lo sa, e nessun bambino ha davvero l’urgenza di capirlo, finché è bambino; e forse, se intravede in qualche modo confuso il senso dello scorrere del tempo e la violenza del non poter tornare indietro – in un libro come Alice magari, o forse in uno di quegli attacchi di nostalgia preventiva che arrivano, qualche volta, verso la fine dell’infanzia, come piccole epifanie mascherate – ne prova solo fastidio, o addirittura insofferenza. E magari ostenta indifferenza, come la piccola Alice Liddell in una fotografia famosa che le scattò proprio Lewis Carroll quando era la bambina che ricevette l’omaggio più galante che si potesse pensare: le avventure della sua omonima, inventate da Charles Dodgson, un istrionico accademico balbuziente, amico del padre, per divertirla durante una gita in barca.


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Alice è in un giardino, musa bambina con gli occhi scuri e il broncio e un vestito bianco, i piedi nudi e l’aria di meritarsi – senza aver fatto granché – tutta questa devozione cortese, ma di non sapere bene che farsene. (Trovo un’altra foto di Alice Liddell in poltrona, una signora anziana compassata, elegante  alla maniera di una vecchia zia. Ha l’aria stanca, un cappellino scuro e un vestito a pois; sono passati più di sessant’anni da quando è stato scritto per lei Alice, e probabilmente ha conosciuto il tempo, perché non sembra più tanto insolente.)

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa ed è al debutto nel romanzo per Voland con Etica dell’AcquarioQui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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