“Qualcuno me l’ha detto con simpatia, qualcun altro con astio: ‘tu sei un po’ Mary Poppins’, ma anche: ‘chi ti credi di essere, Mary Poppins?’, in entrambi i casi, difficilmente ho trovato da obiettare. Il fatto è che la figura di Mary era entrata nella mia testa con inflessibile regolarità, una volta all’anno, fin dall’infanzia, planando con l’ombrello spalancato al vento dell’Est durante le vacanze di Natale. Solo molto tempo dopo, mi sono resa conto di come da bambina io abbia accordato a questo personaggio stralunato, anarchico e straniante, capriccioso e imbizzarrito, il permesso di cambiare il mio modo di vedere le cose”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Ilaria Gaspari, che racconta un lato inedito del personaggio creato da P. L. Travers, “un lato molto in ombra, magnetico e perturbante come certe tristezze saturnine che conosco, che ho conosciuto sempre anch’io”

Ma nessuno sapeva come si sentisse Mary Poppins

L’avevo sempre sospettato come si sospettano le piccole verità nascoste in piena luce. Lo intravedevo nella luce accecante di technicolor del film che ogni anno veniva trasmesso nel pieno delle vacanze di Natale, di sera o di pomeriggio, e allora si potevano lasciar perdere i compiti, le partite interminabili a Monopoli, i mandarini da sbucciare e le noci da spaccare con lo schiaccianoci, i frammenti di guscio sulla tovaglia rossa da scuotere.

Perché quando arrivava Mary Poppins volevamo farci trovare sul divano, in silenzio, con la luce spenta e il gatto che faceva le fusa, e i grandi che dicevano di averlo visto trecento volte, e ancora, ma basta, ma non lo sapete a memoria?, però poi si sedevano accanto a noi e ci sentivamo tutti davvero in vacanza, e pieni di meraviglia. E il fatto di conoscere a memoria le canzoni, le scene, la casa dell’Ammiraglio e il vento dell’Est, e la borsa miracolosa e le facce bellissime di quei bambini che sembrano due vecchietti, rendeva più forte la sensazione di prendere parte a un rito. Era un rito trasfigurante e vacanziero, che trasformava in avventure magnifiche tutte quante le cose noiose, le petulanti piccinerie della vita; un incantesimo che cacciava il grigiore, lo cacciava ma non lo sgominava, perché il vento quando soffia è imprevedibile. E il grigio, allora, poteva sempre ritornare: in me si faceva strada il dubbio che nessun grigiore sparisca mai davvero. 

Per un poco, però, tutto sembrava a posto, e su tutto scorreva quella luce del film, che pare fatta di zucchero candito. Era bello sentirsi cedere ogni volta all’illusione, ricordarsi che non c’è incantesimo possibile se non si prova almeno a illudersi. Crescendo, poi, molte volte mi sono fermata a riflettere su Mary Poppins come capita di riflettere quando qualcuno ti dice qualcosa di te che ti pare vera. Qualcuno me l’ha detto con simpatia, qualcun altro con astio: “tu sei un po’ Mary Poppins“, ma anche: “chi ti credi di essere, Mary Poppins?“. Qualche volta era un premio, quasi una medaglia, altre volte un rimprovero che mi appiccicava addosso l’etichetta temutissima di oca giuliva: in entrambi i casi, difficilmente ho trovato da obiettare.

Il fatto è che il personaggio di Mary era entrato nella mia testa con inflessibile regolarità, una volta all’anno, fin dall’infanzia, planando con l’ombrello spalancato al vento dell’Est durante le vacanze di Natale, in quella pausa dalla noia sterminata dei doveri dei bambini, che a ripensarci poi sembrano minuscoli ma allora non sono minuscoli affatto. Mary arrivava sempre nel momento in cui era sospeso il ripetersi invernale della sveglia alle sette, degli stivali di gomma nelle mattine di pioggia, del buio presto il pomeriggio e dell’efficienza stimolata in tutti i modi. E anche se di certo non era in grado di cancellare tutta quella noia, ogni volta mi mostrava, come sollevando il lembo di una scenografia già troppe volte vista, che si poteva anche provare a dare un’occhiata dietro, osare vedere le cose anche da un’altra prospettiva.

Solo molto tempo dopo, e solo da parole di altri che mi parlavano di me mi sono resa conto di come da bambina io abbia accordato a questo personaggio stralunato, anarchico e straniante, capriccioso e imbizzarrito, il permesso di cambiare il mio modo di vedere le cose. 

Però, per tutto quel tempo io l’avevo comunque sospettato: lo sentivo, che Mary Poppins aveva un lato molto in ombra, magnetico e perturbante come certe tristezze saturnine che conosco, che ho conosciuto sempre anch’io. E se mi chiedo oggi come mai io abbia lasciato proprio a questa figura, che dal film del ‘64 alla fin fine emerge come piuttosto convenzionalmente anticonvenzionale e pazzerella – oltretutto è una bambinaia, e com’è possibile che una bambina si identifichi più in una bambinaia che in altri bambini? – una tale libertà di accesso alla mia immaginazione, la risposta la trovo, da adulta, leggendo il libro di P. L. Travers da cui il film con Julie Andrews è stato tratto, al prezzo delle solite battaglie fra scrittori e produttori (raccontate, e opportunamente edulcorate con qualche stereotipo in più e qualche tensione sociale, artistica e politica in meno, in un altro film del 2013, Saving Mr Banks).

Così scopro le radici della mia fascinazione in un sospetto latente, finalmente confermato: leggo il libro e mi rendo conto che il lato sinistro di Mary Poppins, che già avevo intuito, adombrato nella sua irredimibile solitudine, è molto più potente di quanto pensassi. Ed è probabilmente questo segreto impossibile da riassorbire in qualsiasi quadro rassicurante, ad avermi attratta fin da molto tempo prima che all’attrazione si potesse sovrapporre la tentazione di identificarmi nel personaggio.

Come molte fra le figure più irresistibili della letteratura per l’infanzia, come Pippi Calzelunghe, Winnie The Pooh, Alice e Peter Pan, anche Mary Poppins è nata da racconti inventati per dei bambini in carne e ossa. Sulle prime sembra strano, strano quasi come un miracolo, che i personaggi che sanno parlare a tutti i bambini siano spesso nati per essere raccontati a bambini che chi si inventava quelle storie chiamava per nome, a bambini che seduti sull’erba di un parco, o sdraiati nei loro lettini, sono stati i primi spettatori della nascita di eroi ed eroine che poi sono diventati gli eroi e le eroine di tutti i bambini del mondo. Eppure, proprio questo ci ricorda una cosa che a volte dimentichiamo: che raccontare è una forma di amore, un modo per prendersi cura di qualcuno che ascolta una storia, e spalanca gli occhi allo stupore, o ride, o si commuove sotto gli occhi di chi sta raccontando; e per quanto possa essere sorprendente, c’è sempre qualcosa di universale nel prendersi cura davvero di qualcuno, nell’amare proprio qualcuno e non, genericamente, l’umanità o qualche sua categoria specifica.

Addirittura, Mary è nata dalle storie che una ragazzina si inventava per consolare altre bambine. Pamela Lyndon Travers si chiamava ancora Helen Lyndon Goff, e viveva non in qualche rispettabile sobborgo di Londra, ma nel profondo bush australiano. Travers Robert Goff, il padre della futura Pamela, era un inglese di origini irlandesi, si era trasferito in Australia e lavorava in banca, proprio come il signor Banks, il padre dei bambini accuditi da Mary, che nel film sono solo due, Jane e Michael, mentre nel libro la confusione domestica è alle stelle anche perché ci sono pure due gemellini in culla (John e Barbara), cui si aggiungerà una quinta bambina, Annabel, nel corso degli otto libri della saga.

Solo che il signor Goff era un uomo molto tormentato, e soffriva di una grave forma di alcolismo che lo portò a morire poco più che quarantenne, dopo una serie di traversie sul lavoro: Pamela (allora Helen) aveva solo sette anni e due sorelle più piccole. La loro mamma, Margaret, rimasta vedova con tre bambine e molti debiti, ebbe un comprensibile crollo nervoso. Una notte, qualche tempo dopo la morte di Travers, Margaret, che ancora soffriva troppo, se ne scappò di corsa di casa nel bel mezzo di una tempesta, urlando al vento che si sarebbe buttata nel fiume che ribolliva lì vicino. In quella notte di bufera, sotto la coperta che la futura scrittrice aveva teso sulla testa sua e delle sue sorelline per creare una capanna, nacque Mary Poppins.

Ispirandosi al carattere di una loro prozia piuttosto eccentrica, Helen Morehead, che andava in giro con un ombrello con il pomo a forma di testa di pappagallo e una borsa fatta di tappeto, questa bambina che evidentemente aveva preso sul serio il suo ruolo di sorella maggiore, per consolare altre bambine mentre la loro famiglia andava in pezzi si inventò il personaggio di Mary Poppins, che risolveva i problemi con pragmatismo stralunato, che arrivava e poi scompariva quando non c’era più bisogno di lei. 

La mamma delle bambine Goff tornò a casa, ma presto fu la sua figlia grande ad andarsene via: si costruì un nome d’arte fatto di due iniziali (idea che un giorno avrebbe ispirato un’altra grande autrice di libri per bambini, J. K. Rowling, che di Travers è un’ammiratrice) seguite dal nome proprio del padre. Così, chiunque avesse parlato di lei avrebbe parlato – chiamandolo familiarmente per nome come si fa con gli amici – di quel suo padre molto amato, morto alcolizzato a quarantatré anni dopo aver subito scherni e angherie in un angolo di mondo lontanissimo da quello in cui era nato. 

P. L. Travers, poco più che ragazzina, pubblicava con quel suo nuovo nome articoli e poesie sulle riviste; e sempre con quel nome recitava Shakespeare. C’è una foto di lei ventenne vestita da Titania, la regina delle fate di Sogno di una notte di mezza estate: guarda dritto nell’obiettivo e per farlo protende un po’ la mascella, così ha un’aria squadrata e malinconica, volitiva e spaesata, e intorno a lei, per terra, ci sono fiori che sembrano appassiti, o forse calpestati, chissà.

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Poi si imbarcò per l’Inghilterra. Visse una vita lunghissima e piena di liti e di tempeste; faceva tutto a modo suo, e in un’epoca in cui la cosa doveva sembrare parecchio bizzarra adottò, da sola, un ragazzino irlandese. Fu amica di poeti e di mistici, litigò un sacco con Walt Disney, coltivò idee socialiste in una sua maniera un po’ imprecisa, e morì quasi centenaria. Pianse di rabbia e di dolore (dissero: “di commozione”, ma non era vero) alla prima del film che dava vita al suo personaggio. Possiamo capirla, forse, ora che sappiamo il segreto della nascita di Mary. Quel segreto, secondo me, spiega molto meglio di tante altre interpretazioni quanto dovesse essere gelosa della bambinaia folle che aveva creato in un momento così vicino alla sua remota infanzia spezzata, e che a un certo punto, nei primi anni ’30, in piena Depressione, trasformò in un vero e proprio romanzo per ragazzi, che fu illustrato da Mary Shepard con piccoli disegni di folle poesia, e pubblicato, per una coincidenza dal peso inestimabile, dalla Peter Davies Ltd., cioè nientemeno che la casa editrice fondata da uno dei cinque piccoli Llewelyn Davies (cugini, fra l’altro, di Daphne Du Maurier) per cui James Matthew Barrie inventò Peter Pan.

Nella grazia scanzonata del film del ’64, la depressione è accuratamente rimossa. Sia quella storica, degli anni ’30 in cui il libro è ambientato (a differenza del film, che sposta l’azione indietro nel tempo, trasferendola ai primi del ‘900 in una più rassicurante, e fittizia, età edoardiana), e che si riflette nelle difficili condizioni economiche della famiglia Banks, nella casa di viale dei Ciliegi, la più piccola e la più scalcinata di tutta la strada.

Sia quella psicologica, nel romanzo adombrata in qualche fosca pennellata che lambisce soprattutto i personaggi dei genitori: il signor Banks che goffamente ama la moglie ma è ostaggio della routine del suo infelice lavoro in banca, e in particolare la signora, svampita e un po’ assente, che soggiace al disordine della sua vita. Eppure, riottosa a ogni tentativo di addomesticarla, anche nel film Mary Poppins conserva qualcosa di saturnino e di magnetico, un fascino da folletto senza età; come la capricciosa Titania, come Peter Pan, Mary Poppins ha un segreto un po’ oscuro nascosto in bella vista, nascosto dietro i suoi modi sghembi e incantatori, la forza misteriosa con cui si fa obbedire, dietro la felicità che sa portare nelle vite degli altri. Perché tutti sono stranamente contenti, quando c’è Mary, almeno per il tempo imprevedibile in cui lei attraversa le loro vite. Eppure, nessuno sa come si senta davvero Mary Poppins: “perché Mary Poppins non diceva mai nulla a nessuno“.

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ora è la volta di un libro unico nel suo genere, Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia(Sonzogno), in cui Gaspari mette in scena una storia d’amore. Ma non solo. Vuole anche, con l’aiuto di filosofi e romanzieri (da Montaigne a Flaubert, da Freud a Simone Weil), tentare di sciogliere i grandi nodi che fanno sembrare complicata la vita amorosa.

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