“Siamo in grado di chiudere il libro che stiamo leggendo e diventare noi quella scrittura e quella essenza che ci turba? Siamo capaci di dismettere la nostra condizione di ombre, dietro le pagine di un libro, dietro gli schermi di uno smartphone, e recuperare lo spazio dei nostri corpi? Diventare le nostre parole, diventare addirittura la nostra storia, e quindi essere noi stessi il libro?”. Una riflessione stimolata da “L’amore fa i miracoli”, il nuovo libro di don Paolo Alliata, sacerdote che sa parlare di spiritualità attraverso le pagine dei grandi classici della letteratura (che di spiritualità – confessionale e non – sono di certo intrisi)

Tu stesso

La lingua italiana possiede un modo per trasformare la parola in carne.

Non si tratta di un misterioso abracadabra né tantomeno di un gioco di illusionismo linguistico: usa semplicemente un aggettivo, di quelli che vengono chiamati «dimostrativi», l’aggettivo dimostrativo stesso/stessa. Sembra incredibile, ma appena lo pronunciamo o lo scriviamo, crolla una barriera granitica, la distinzione tra l’ipotesi e la realtà, tra il pensiero e il corpo. Quando lo leghi a qualsiasi parola, assume subito il significato di «in persona», «in carne e ossa», «proprio lui e non un altro», «qui e ora in tutta la sua presenza». Ha un valore altamente esplosivo, questo aggettivo. Va utilizzato con cautela.

Ci riflettevo leggendo alcuni frammenti del Viandante cherubico del poeta mistico tedesco Angelo Silesio, che se ne serve sempre con l’intento di innescare nel lettore o un paradosso interiore da risolvere o una trasformazione a cui aspirare:

«Niente ti muove, tu stesso sei la ruota,
che si muove per sé stessa, e non ha pace».

Oppure:

«Io stesso devo essere sole e con i miei raggi
devo colorare l’incolore mare della divinità».

Tu stesso sei la ruota. Io stesso devo essere il sole. Angelo Silesio – che qui leggiamo nella splendida edizione di Gio Batta Bucciol (Molesini Editore Venezia, 2023) – pensa l’umano come uno spazio metamorfico, che si riconosce e continuante desidera qualcosa di irrefrenabile, di sterminato e incandescente. Un umano che tende all’ascensione, però, soltanto se sente di essere pienamente sé stesso, soltanto se è interamente presente a sé stesso. Affascinante questa idea che trasformarsi, anzi, di più, elevarsi, significa abitare davvero il sé.

Non sarà un caso che Il viandante cherubico si chiude appunto con questa ammonizione:

«Amico, ora basta. Se vuoi leggere di più,
va’ e diventa tu stesso scrittura ed essenza».

Siamo in grado di chiudere il libro che stiamo leggendo e diventare noi quella scrittura e quella essenza che ci turba? Siamo capaci di dismettere la nostra condizione di ombre, dietro le pagine di un libro, dietro gli schermi di uno smartphone, e recuperare lo spazio dei nostri corpi? Diventare le nostre parole, diventare addirittura la nostra storia, e quindi essere noi stessi il libro?

L'amore fa i miracoli. Tra le pagine dei grandi romanzi libri da leggere 2024

Lo spirito di questa eroica eredità di domande credo animi e muova anche le pagine del nuovo libro di don Paolo Alliata, L’amore fa i miracoli (Ponte alle Grazie, 2024).

Sono vivo!

Il metodo del sacerdote milanese risulta chiaro: parlare di spiritualità attraverso le pagine dei grandi classici della letteratura, che di spiritualità – confessionale e non – sono di certo intrisi. È un metodo che ha sviluppato già in libri come C’era come un fuoco ardente e Dove dio respira di nascosto, ma soprattutto nelle serate letterarie della sua chiesa del quartiere Moscova, dove centinaia di persone si ritrovano ogni mese per ascoltarlo su John Williams, Lev Tolstoj e tanti altri scrittori e scrittrici (nel suo ultimo libro, oltre gli autori citati, vengono affrontati C.S. Lewis, Romain Gary, Milan Kundera e John Steinbeck).

Eppure, riassunto così, potrebbe sembrare che quello di Alliata sia un mero esercizio di erudizione, scovare i legami tra la Bibbia e la letteratura è un’attività che non ha mai perso adepti nel corso della storia dell’uomo.

Di contro, il nostro autore pratica un esercizio differente: non si limita a dire quale sia il riferimento biblico nascosto tra le righe di Williams o Tolstoj, ma a quale tensione spirituale, a quale spazio dell’anima, a quale demone o a quale luce, corrisponde la scrittura di Williams e Tolstoj. E, più di tutto, in che modo riguarda me lettore, me persona.

Provo a fare un esempio, partendo proprio Stoner di John Williams, a cui Alliata dedica un capitolo splendido. Un capitolo che non è però la sintesi del romanzo o una catechesi sulle difficoltà di vivere un matrimonio felice e duratura tra Stoner e sua moglie Katherine; piuttosto, è una riflessione su cosa sia profondamente l’amore, che non ha a che fare esclusivamente con le passioni della mente e dello spirito, che non si limita alle frasi da baci perugina, che è un grido di vita, il grido più sperato e intenso, quello che cerchiamo da sempre e per sempre.

Alliata si trova di fronte a queste parole riferite a Stoner:

«A una donna o una poesia, il suo amore diceva semplicemente: Guarda! Sono vivo!».

E risponde così:

«Amore per la vita, semplicemente. Meraviglia e gratitudine per il fatto di essere vivo. È un aspetto fondamentale di quello che la Bibbia chiama “incarnazione”: il radicamento nell’umile gioia di essere al mondo, quasi si trattasse di un regalo».

Ma in tutto questo non siamo ritornati ai versi di Angelo Silesio? Quando Stoner davanti al libro – ovvero all’altro che ti permette di scoprire chi sei, che può essere parimenti una donna o una poesia – dice «Sono vivo!» non sta parlando della metamorfosi in scrittura ed essenza? Quando Alliata evoca quello che la Bibbia chiama «incarnazione», non sta parlando di quella stessa trasformazione?

Il paradosso interiore, e insieme la sfida, più difficile di sempre: riuscire a essere noi stessi, esserne felici, scoprire l’amore in quella felicità, riconoscere l’altro e gli altri in quella felicità. Sentirsi vivi, trasformarsi. Dopo aver chiuso il libro ed essere diventati noi, quelle pagine.

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