“L’età fragile”, il nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, è un libro sulla sopravvivenza alla vita, e sulla fragilità come componente stessa dell’essere umano: la vulnerabilità è protagonista e compagna di tutti i personaggi, negli episodi del passato e in quelli del presente…

“Eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e persino morire”.

L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi) è un libro sulla sopravvivenza alla vita, e sulla fragilità come componente stessa dell’essere umano: la vulnerabilità è protagonista e compagna di tutti i personaggi, negli episodi del passato e in quelli del presente.

Ci sono fratture nella vita di Lucia e Doralice, diventate ragazze insieme con i padri amici, c’è una stagione felice dell’adolescenza, e poi c’è una notte, nell’agosto dei loro 20 anni, che cambia tutto per sempre. La loro giovinezza stava per fermarsi e ne erano ignare.

È la scoperta della paura, e della minaccia, che le rende immediatamente grandi. In quella notte, in cui dal campeggio del padre Osvaldo Doralice scompare e con lei due ragazzine di Modena, il mondo di Lucia viene proiettato in un buio che è un passaggio all’età adulta. Da quella notte di attesa impotente, di domande, di ricerche nel bosco, di ritrovamenti e spari, nessuno esce uguale a prima.

La falesia di Pietra Rotonda, il luogo del gioco, delle avventure di bambine, delle confidenze e dei segreti di ragazze, si è svelato un luogo di violenza e orrore.

Ammazzatelo” compare scritto sui muri che prima accoglievano le risate, e ora ospitano l’odio per un orco inaspettato, in un campeggio che risuonava di vacanza, e ora di un vuoto disabitato e sotto sigilli.

Unica sopravvissuta, Doralice si allontana dal paese, cercando un suo centro altrove, Lucia rimane bloccata lì, incatenata da un ruolo di spettatrice e comprimaria, incapace di riprendere la sua vita, impantanata nel senso di colpa, per aver lasciata sola l’amica quel giorno, per aver scelto di andare al mare, mentre suo padre vive con il suono degli spari a svegliarlo ogni notte. Si esce dal buio e si viene restituiti alla vita spenti, sotto il Dente del Lupo.

Anche il paese, al centro dei clamori della cronaca, pian piano ritorna al silenzio. Lucia non sa più avvicinarsi a Doralice, è vigliacca, si vergogna, non trova il coraggio di affrontare il dolore dell’amica, lascia passare il tempo, e poi di tempo per recuperare il bene perduto non ce n’è più e si rimane con i propri non detti.

“Avrei voluto scusarmi per tutte le mie mancanze, ma non avevo le parole.
Mi salivano le lacrime, le trattenevo. Si è appoggiata a un muretto, guardava il paesaggio, smaniosa.
«Come sono verdi questi prati. Ma sotto è pieno di vermi, la terra è marcia».
L’hanno chiamata da dentro il locale e per quel giorno ci siamo lasciate così, con i vermi”.

Lucia cresce e diventa una madre inquieta, costantemente ferita dal suo sentimento di inadeguatezza: una donna che ha paura della figlia fin da quando la porta a casa, che non sa come gestirla da piccola, ha paura a stare con lei e non sa come comprenderla da grande. Lucia le disegna cuori sui biglietti per poi cancellarli, le prepara la colazione pentendosi di gesti troppo infantili, osserva senza sapere come agire, bloccata anche con lei.

Lucia è una donna di provincia, e da lì non si stacca, i suoi orizzonti sono piccoli, invece la figlia Amanda sogna di andarsene e ottiene di studiare a Milano, che per lei è l’Europa. Parte con il suo carico di progetti e supponenza, di bagagli e libri, piena di speranze per una città da cui si aspetta tutto, forse troppo.

Per questo, quando Amanda ritorna forzatamente a casa per colpa della pandemia, Lucia si sorprende di trovarla svuotata, svogliata, cambiata: la figlia non studia, non mangia, non si lava, sta chiusa in camera. “E dopo che faccio?”.

Lucia vede per la prima volta in Amanda una creatura vulnerabile, che nulla ha a che fare con la ragazza saccente che era partita mesi prima. In lei rivede se stessa giovane, le sue ferite, la sua stessa fragilità. Scoprirà che anche per Amanda il luogo della speranza si era rivelato essere un luogo di paura, e un episodio di violenza anche qui ha fermato tutto. Come era stato nel passato, per Amanda è la scoperta che un posto amato e desiderato può farle del male.

Sono le stesse cicatrici a bruciare, la stessa giovinezza catapultata nella realtà, come se fosse un destino ereditato, un lascito di umanità che segna allo stesso modo a distanza di anni, ma fa parte della vita, del suo percorso che è pieno di crepe, disillusioni e indecisioni.

L'età fragile di Donatella Di Pietrantonio

Nella sua casa, imbrigliata in un presente dal quale non si è liberata, da rapporti da cui non riesce a slegarsi, con i maglioni dell’ex marito ancora nell’armadio e una figlia che ha messo in pausa la sua esistenza, Lucia deve fare i conti anche un altro tipo di eredità. Il padre le vuole lasciare dei terreni, quelli abbandonati su cui era sorto il campeggio, proprio quei terreni dove tutto era successo. Perché anche il padre cerca di arrabattarsi nelle sue paure e nella sua sopravvivenza, che lo avvicina alla fine: la vecchiaia è difficile da accettare, e diventa allora un modo per saldare dei conti.

“Mio padre mi chiede di accompagnarlo nel suo ultimo tratto, insiste che prenda quel terreno. A mia figlia devo restituire il mondo. Mi tirano ognuno dalla propria parte, al proprio bisogno. Mi spezzano”.

In mezzo ai bisogni e alle reciproche paure, c’è tanto silenzio, ci sono non detti colpevoli. Sono fragili le parole che aiutano a vivere, diceva Eugenio Borgna, sono quelle che dovremmo riscoprire o ricreare quando il destino ci mette davanti al dolore e alla disperazione, ma sono spesso intrecciate al silenzio.

Se è vero che i luoghi non hanno colpe, è la vergogna a calare su tutti i protagonisti, e a condurli a uno stato di incomunicabilità. L’età fragile è una storia di mani che non hanno il coraggio di alzarsi in un saluto, di frasi che rimangono in gola, di abbracci che non si trova la forza di dare.

Dopo l’Arminuta e Borgo Sud, Donatella di Pietrantonio continua a lavorare con l’universalità dei temi della famiglia, dell’amicizia, della vecchiaia, dei legami con i luoghi delle origini, trattandoli con la sua capacità di illuminare tutte le zone d’ombra dei percorsi interiori, dando spazio al vuoto, e catturando ogni sfumatura, fino alle più intime.

La sua è una scrittura che sa governare i sentimenti, far parlare i rimpianti e raccontare tutta la complessità dei nostri carichi di sbagli.

Donatella di Pietrantonio racconta la nostra fragilità, la difficoltà di governare l’insicurezza, e i confini sottili del tempo, che illude di aver la possibilità di cancellare i danni. In realtà ci sono costantemente domande che rimandano ad altre domande, silenzi che rispondono a silenzi, e cerchi che non si chiudono e che forse solo la propria terra può sanare, con la sua rinascita che dimentica, ricostruendo una speranza.

“Ormai nessuna molecola di quel sangue è nella terra, alle radici delle piante.
Sono passati quasi trent’anni. Tutto è evaporato, trasformato, scomposto. Anche la natura dimentica. Ricresce su tragedie e disastri”.

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Fotografia header: L'età fragile di Donatella Di Pietrantonio (foto Getty Editorial )

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