“Insieme alla rivincita della scrittura e al trionfo dell’informalità (ricordate la polemica sull’abuso del “tu” di Umberto Eco?), l’altro elemento che caratterizza l’italiano del terzo millennio è la ‘glocalizzazione’ del lessico…”.
Per fare il punto sulle tante questioni aperte legate all’evoluzione dell’italiano al tempo del web e dei social, ilLibraio.it ha intervistato il linguista Giuseppe Antonelli: “L’e-taliano è una varietà diversa dall’italiano scritto tradizionalmente inteso…”

Se l’estate è per molti l’occasione per lasciarsi un po’ andare, anche utilizzando lessico e sintassi non sempre sorvegliati, settembre riporta tanti a fare i conti con esami universitari, con la scuola, con l’insegnamento, o anche semplicemente con il mondo del lavoro.
Per fare il punto su una serie di questioni aperte che riguardano la discussa evoluzione della nostra lingua, abbiamo intervistato Giuseppe Antonelli, docente di Linguistica presso l’Università degli studi di Cassino e impegnato a parlare di italiano su molti fronti, tra cui la trasmissione seguitissima di Radio 3, “La lingua batte”. Non solo: su questi temi Antonelli ha pubblicato, tra gli altri, Comunque anche Leopardi diceva le parolacce. L’italiano come non ve l’hanno mai raccontato (Mondadori, 2014), e l’8 settembre sarà nuovamente in libreria con Un italiano vero. La lingua in cui viviamo (Rizzoli).

Giuseppe Antonelli

In una interessantissima e recente raccolta di atti di convegno, L’e-taliano (a cura di Sergio Lubello, Franco Cesati editore, 2016), nel suo saggio omonimo ha parlato di questa nuova variante linguistica, che sta prendendo piede, connotata da un punto di vista diamesico, diafasico (o diastratico). A suo parere, si sta attuando una rivoluzione della lingua scritta?
“Quello che è accaduto negli ultimi vent’anni nella storia della nostra lingua rappresenta senz’altro una rivoluzione. Per la prima volta, infatti, l’italiano si ritrova a essere non solo parlato ma anche scritto quotidianamente dalla maggioranza degli italiani. Una novità apparentemente paradossale, visto che l’italiano è vissuto per secoli quasi soltanto come lingua scritta. In realtà clamorosa, se si pensa che l’italiano scritto è sempre stato forte nella sua codificazione ma debole nella sua diffusione, ostacolata prima dall’analfabetismo, poi dal dominio dei mezzi audiovisivi. Ora invece, dopo aver conquistato l’uso parlato (a scapito del dialetto), la lingua nazionale ha finalmente conquistato anche l’uso scritto di massa (a scapito del non uso). Nel primo caso il merito è stato in buona parte della televisione; nel secondo, tutto della telematica. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti: grazie alla telematica moltissime persone che fino a vent’anni fa non avrebbero scritto un rigo, oggi producono e consumano quotidianamente una mole impressionante – sia pure frammentaria e quasi atomizzata – di testi digitati. E questo comporta il venir meno delle coordinate che avevano caratterizzato e condizionato la scrittura per secoli.
L’e-taliano, infatti, è una varietà diversa dall’italiano scritto tradizionalmente inteso. Una varietà diamesica, senz’altro (un «italiano trasmesso dell’uso scritto», come è stato definito); che però può essere considerata anche diafasica o diastratica, a seconda di quanto sia ampio (verso l’alto) il repertorio di chi la usa. Per le persone cólte rappresenta solo una scelta stilistica, uno dei tanti registri possibili: l’evoluzione di quell’«italiano dell’uso medio» descritto da Francesco Sabatini (l’e-taliano come italiano dell’uso immediato). Ma per tutti quelli che scrivono soltanto in queste occasioni potrebbe finire col diventare l’unico modo di scrivere: l’unica scelta possibile, ghettizzante e socialmente deficitaria. L’e-taliano, in questo caso, come italiano neopopolare: mutazione tecnologica di quell’italiano popolare usato per secoli da chi, sapendo a malapena tenere la penna in mano, doveva cimentarsi con la scrittura”.

Leggendo i diversi contributi del suddetto lavoro, si riscontra un certo scoramento davanti a ciò che molti linguisti, provocatoriamente, definiscono un’involuzione della lingua. Lei come si pone nei confronti di questa nuova sfida (ammesso che si possa definire “nuovo” uno degli inesausti cambiamenti della lingua…)?
“Se si guarda ai post di Twitter – ma anche agli status di Facebook, ai messaggi di Whatsapp e persino ai ‘vecchi’ SMS – ci si accorge subito che i testi digitati sono ben diversi dai tradizionali testi scritti. Solo che la differenza non sta nella loro presunta oralità (mancano quasi del tutto – in questi testi – le marche sintattiche tipiche dell’italiano parlato). Né tantomeno nelle soluzioni grafiche ad effetto (i vari xké, c6, tvb e simili), rispondenti in gran parte a meccanismi antichi e avviate ormai a un rapido declino (oggi, per i giovani, le abbreviazioni sono una cosa «da sfigati» e chi le usa è un «bimbominkia»).
La vera novità dell’e-taliano è un’altra: è la frammentarietà dei testi che ogni giorno – quasi ininterrottamente – scriviamo e leggiamo. Testi non solo brevi, ma incompleti; testi che per esprimere a pieno il loro senso hanno bisogno quasi sempre di un elemento esterno. Come nei dialoghi, in cui ogni battuta si appoggia a quella dell’interlocutore. Come nei post dei social network, in cui la multimedialità di link e immagini non rappresenta più un’espansione, ma una condizione necessaria. Non ipertesti, dunque, ma ipotesti. Questo spiega perché li possano scrivere – e ovviamente leggere – anche i tanti italiani che non toccano mai libri o giornali, anche i tanti che quando leggono un articolo di giornale non sono in grado di capire cosa dice”.

La scrittura, sempre più rapida e immediata, richiesta dai social network premia un’informalità crescente, e le forme di cortesia risultano piuttosto zoppicanti o addirittura ostentate. Secondo lei, anche l’italiano andrà verso lo svuotamento di senso della forma di cortesia?
“In uno dei suoi ultimi interventi pubblici – quello tenuto al Festival della comunicazione nel settembre dello scorso anno – Umberto Eco si schierava apertamente contro l’abuso del tu: «il problema del Tu generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati».
La dittatura del tu, in effetti, riguarda ormai i rapporti tra persone che si conoscono appena, tra colleghi di lavoro, coi clienti, con i destinatari dei messaggi pubblicitari, con gli elettori. E ha portato con sé un deciso abbassamento del registro linguistico medio di tutti gli italiani. Come notava Cesare Segre in un articolo del 2010, «i giovani sono quelli che sembrano ignorare di più i registri, e con ciò stesso si mettono in condizione d’inferiorità, perché mostrano di non aver rilevato, nel parlare, che la scelta linguistica denota la loro attitudine a posizionarsi rispetto ai propri simili».
Nel frattempo il telefonino, percepito ormai come una sorta di protesi, ha portato con sé l’allargarsi indefinito della sfera del privato (si parla dei fatti propri in qualunque momento, in qualunque situazione, di fronte a chiunque), con un conseguente abbassamento del senso del pudore linguistico. A ciò si aggiunge la facilità con la quale si possono cogliere, registrare e diffondere situazioni comunicative che fino a poco fa si sarebbero esaurite nella dimensione privata (la sindrome You tube). Nell’èra della riproducibilità tecnologica a oltranza, il confine – anche linguistico – tra privato e pubblico è diventato sempre più labile, consentendo un continuo sconfinamento della prima sfera nella seconda.
Tutto questo, nel bene e nel male, sta finendo col capovolgere la situazione che da sempre ha caratterizzato la storia della nostra lingua: ancora «all’inizio del Novecento l’italiano risultava una lingua fortemente deficitaria per gli usi informali; all’inizio del nuovo millennio l’italiano risulta tendenzialmente deficitario per gli usi formali» (come Michele Cortelazzo scriveva già nel 2002)”.

Estate o autunno, proseguirà la deriva di hashtag sui social network. Sembrerebbe un linguaggio estremamente rarefatto e basico; eppure, spopolano hashtag divertenti che danno molto spazio alla creatività. Un tentativo di non farsi imbrigliare e riconfermare la libertà del linguaggio (e della fantasia)?
“Come per le famigerate virgolette mimate con le dita, anche l’hashtag è ormai un gesto: indice e medio delle due mani si incrociano uniti un paio di volte a rendere quell’incrocio di linee che da tempo nel linguaggio musicale rappresenta il diesis. In realtà, è fin dalla sua comparsa (su Twitter, nel 2007) che l’hashtag ha rappresentato un gesto: gesto semiotico, se non fisico, dato che indica, sottolinea, propone – a volte impone – un tema all’attenzione di una comunità.
Sono molti gli hashtag che in questi anni sono diventati una specie di slogan o di tormentone: formule creative, spesso ironiche, riprese nei contesti più disparati. Come #sapevatelo, da un’invenzione del comico Corrado Guzzanti o #mainagioia, poi diventato il titolo di un libro del blogger Stefano Guerrera. Altri hashtag hanno segnato momenti drammatici della nostra storia recente: come quel #JeSuisCharlie che, dopo gli attentati terroristici a Parigi del 7 gennaio 2015, è diventato in tutto il mondo uno dei più usati di sempre.
A proposito di fantasia e idee, per la giuria dei Macchianera Italian Awards il miglior hashtag dello scorso anno è stato #DaUnIdeaDiStefanoAccorsi, legato alla serie televisiva 1992 (nata appunto, come si sottolineava con enfasi nei titoli di testa, da un’idea dell’attore bolognese). E allora ecco «le ruote #daunideadistefanoaccorsi»; «pecorino grattugiato #daunideadistefanoaccorsi», «acqua calda #daunideadistefanoaccorsi»
Da un’idea di Monica Nonno viene invece l’hashtag a cui tengo di più: quello della #giornataproGrammatica che Rai Radio Tre organizza insieme al Ministero dell’Università e della Ricerca, all’Associazione per la Storia della Lingua Italiana e all’Accademia della Crusca. In ognuna delle tre edizioni realizzate fino a oggi, l’hashtag è arrivato – almeno per qualche ora – ai primi posti tra i cosiddetti trending topics italiani. Una bella conferma del bisogno di grammatica mostrato dagli italiani negli ultimi decenni: della diffusissima curiosità, ma anche «lealtà» (come l’ha chiamata Luca Serianni) nei confronti della propria lingua, percepita come un riferimento identitario fondamentale”.

Ritorno al lavoro significa per molti misurarsi con un lessico specialistico, che spesso si ibrida con l’inglese, attraverso prestiti e calchi. In particolare, Milano pare vivere sempre più da vicino questa mescolanza e parziale sovrapposizione. A suo parere si andrà a creare una sorta di “pidgin tecnologico-anglofono” nei prossimi anni?
“Insieme alla rivincita della scrittura e al trionfo dell’informalità, l’altro elemento che caratterizza l’italiano del Duemila è la ‘glocalizzazione’ del lessico. L’italiano, infatti, risente oggi di una doppia spinta. Da un lato quella delle parlate locali, che – in una comunicazione sempre più improntata all’informalità – tornano a trovare spazio, alternandosi e mescolandosi alla lingua nazionale. Dall’altro, la pressione della lingua inglese; o meglio della sua versione globalizzata: l’onnipresente globish, che permea ormai il lessico di tutte le lingue occidentali e non solo.
In questo momento, stando ai dati disponibili, la glocalizzazione da noi pende molto più verso il locale che verso il globale. Quasi un terzo degli italiani dichiara di esprimersi sia in italiano sia in dialetto quando parla in famiglia o tra amici. E nelle ultime edizioni dei grandi dizionari italiani sono accolte molte parole di provenienza dialettale come il siciliano pizzino ‘bigliettino scritto da un mafioso’, il settentrionale ciulare ‘fare sesso’ o figuratamente “rubare”, il romanesco sbroccare ‘perdere la testa’, il milanese schiscetta ‘contenitore per il cibo’.
La percentuale complessiva di parole inglesi, invece, continua a rimanere intorno al 2%. Stando ai dati dello Zingarelli 2016, le parole di origine inglese (compresi gli adattamenti come bistecca da beefsteak e i calchi come grattacielo da skyscraper) costituiscono in tutto il 2,6% del lemmario. Tenendo conto solo degli anglicismi integrali, gli unici immediatamente riconoscibili come vocaboli stranieri (parole come computer, hippie o zoom), la percentuale scende all’1,9%. Siamo molto lontani, insomma, da quell’ibridazione italo-inglese che ormai da più di mezzo secolo viene paventata come un pericolo imminente”.

A settembre molti studenti si interrogheranno su cosa affrontare all’università. Premettendo che sappiamo che lei è ovviamente e giustamente di parte, perché studiare linguistica oggi, in una realtà che dà sempre meno spazio al mondo umanistico?
“Già: perché studiare, oggi, una materia umanistica? La tentazione è sempre quella di rispondere citando la storiella con cui lo scrittore David Foster Wallace aprì il suo discorso ai laureati di un college americano. «Ci sono due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: ‘Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?ì. I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: ‘Che cavolo è l’acqua?’».
Appunto: cosa diavolo è l’acqua? È qualcosa in cui siamo immersi così tanto da non accorgerci nemmeno che c’è. Qualcosa di cui si prende coscienza solo osservando in maniera critica i propri comportamenti e quelli di chi ci circonda. La storiella, spiega Foster Wallace, «riguarda il valore vero della cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di ciò che è così reale e essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: ‘questa è l’acqua, questa è l’acqua’».
L’italiano è la lingua in cui viviamo: ogni giorno, ogni momento. Al punto che non ci facciamo più caso. Al punto che la diamo per scontata. E questo fa sì che spesso la usiamo senza nessuna consapevolezza. Senza sfruttarne la ricchezza, le sfumature, le diverse tonalità e potenzialità. Ma l’italiano è anche la lingua in cui siamo cresciuti, da cui siamo stati allevati: è la nostra lingua madre. La lingua che ci nutre fin dall’infanzia, educa i nostri pensieri e i nostri sentimenti, plasma la nostra visione del mondo. Tutti noi le dobbiamo tantissimo e per questo merita tutta la nostra riconoscenza: la nostra attenzione, il nostro studio, la nostra cura. Questa è la lingua. La lingua siamo noi”.


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