Julian Barnes, che torna in libreria con “Elizabeth Finch”, è uno straordinario frequentatore del genere biografico. La biografia, per lo scrittore inglese, è uno specchio, in cui non manca mai l’ironia (oltre alla strategia sorniona di giocare con il lettore). E anche nel nuovo libro l’autore si tiene lontano dalla messa in scena assertiva e banalizzante di personaggi realmente esistiti… – Con Mario Baudino un viaggio nelle sue opere, a partire dall’ultima uscita

“A volte mi chiedo come facciano i biografi a costruire una vita, nel senso di una vita viva, luminosa e coerente, dal materiale lacunoso, contraddittorio e inattendibile di cui dispongono. Devono sentirsi come Giuliano in marcia con il suo codazzo di indovini”.

Giuliano è il celebre Apostata, l’imperatore del quarto secolo che tentò di disinnescare il cristianesimo ormai trionfante, restaurare gli antichi dei e la cultura dell’ellenismo: va da sé, senza successo. Il personaggio che si pone questa domanda è la voce narrante del nuovo romanzo di Julian Barnes, Elizabeth Finch (Einaudi, traduzione di Susanna Basso); e la coincidenza onomastica fra autore e imperatore potrebbe non essere del tutto casuale.

Elizabeth Finch di Julian Barnes

Barnes è uno straordinario frequentatore del genere biografico, quello che viene convenzionalmente indicato come biofiction, ma in modo per così dire laterale, problematico e spesso ironico, lontano dalla messa in scena assertiva e banalizzante di personaggi realmente esistiti.

In altre parole, non troveremo mai nello scrittore britannico qualche figura del passato che dice alla cameriera di portargli il tè o discute con la moglie, o scrive delle belle lettere, o si abbandona a qualche dichiarazione d’amore, come in un film. Le sue ricostruzioni sono dichiaratamente ipotetiche. Vuole essere – e ci riesce quasi sempre – “divertente e rigoroso”, precetto che in questo libro attribuisce a Elizabeth Finch, personaggio d’invenzione e quindi speculare a Giuliano l’Apostata.

La struttura narrativa si organizza intorno a questi due poli, in un romanzo d’adorazione: un giovanotto si laurea frequentando all’Università un corso per adulti tenuto da una professoressa senza età, ma evidentemente ben più anziana di lui, dal misterioso carisma, e, letteralmente, se ne innamora di un amore totale, devoto, senza implicazioni sessuali: “sono abbastanza sicuro di averla amata; e di amarla ancora, oltre la tomba”.

È un amore di quelli che si riservano ai maestri – anche se Elizabeth Finch come maestro è non poco reticente – e non solo. Il personaggio che dice io, pur nella totale dedizione, si concede del resto qualche dubbio, qualche ironia, qualche tipico tocco d’umorismo barnesiano, come in certe clausole che un lettore affezionato – come per esempio chi scrive – può trovare entusiasmanti.

Può dedicare un paragrafo al fatto che Elizabeth Finch fumava parecchio, pur sapendo che non fa bene ma, come un filosofo stoico (Epitteto, nel caso specifico, molto presente nei pensieri e nelle lezioni) non aveva alcuna paura di morire, ed ecco che improvvisamente va a capo e chiude con un sintetico e un poco apodittico: “Naturalmente, soffriva d’emicranie”. O si diffonde, e per esteso, anche sui martirologi cristiani e alla loro fortuna artistica, per esempio quello assai teatrale di San Sebastiano, e al solito con una battuta improvvisa li riporta a quel che avrebbe concluso su di essi un Giuliano moderno: “Tra i segreti del successo del cristianesimo c’è sempre stato l’affidarsi ai registi migliori”. E così via. È un tratto stilistico ricorrente.

Elizabeth Finch è un romanzo illuminista. Gli elementi di cui è composto, apparentemente eterogenei, trovano una sintesi forse precaria: il protagonista riceve in eredità dalla professoressa, che ha continuato a frequentare anche dopo l’Università, tutti i libri e tutte le carte. E li vive come la trasmissione di un testimonio, per esempio quello di scrivere lui un saggio su Giuliano l’Apostata che Elizabeth non aveva fatto in tempo o non aveva voluto portare a termine; ma anche gli pare di scorgere il suggerimento di dedicarsi a un compito assai difficile: una biografia di lei. Il romanzo si limita però a raccontarcene gli abbozzi, narra un’impossibilità, un’impresa forse inutile perché appunto è difficile se non impossibile (come sapeva Proust) conoscere davvero una persona, sia essa in vita sia essa morta da tempo. La biografia, per Barnes, è uno specchio: tra quei frammenti, quel materiale sempre “lacunoso” di cui si dispone sta parlando di sé in quanto scrittore, o meglio sta interrogando un grande tema, un sentimento, una passione.  Le sue sono biografie ipotetiche.

In questo libro, al centro di tutto è l’amore, nel senso appunto della devozione, ma anche la possibilità di essere felici a dispetto degli inganni storico-culturali, di tutti gli imperativi che iniziano con “mono”, da monoteismo a monocultura a, poniamo, monologo. In altri suoi precedenti romanzi o opere presentate come non-fiction – il confine è sottile -, entravano in gioco la viltà (quella di Šostakovič, grande compositore e terrorizzato esponente della nomenklatura sovietica che “nuotava nelle onorificenze come un gamberetto nella salsa aurora” in Il rumore del tempo ) o la seduzione, anche culturale e mondana, il fascino fatto di sapienza e leggerezza (quello di Samuel Pozzi, medico di enorme successo nella Parigi della Belle Époque, ritratto da John Singer Sargent in un famoso dipinto che ispira L’uomo con la vestaglia rossa); o ancora l’attrazione sessuale a dispetto degli anni, che diventa compassione, in L’unica storia.

“Che cosa preferireste, amare di più e soffrire di più; o amare di meno e soffrire di meno? Credo che, alla fine, l’unica vera domanda sia questa”, dice nell’incipit la voce del narratore, che si è innamorato ventenne di Susan, una donna molto più anziana di lui, accompagnandola alla vecchiaia e al disfacimento fisico.

Va detto che Elizabeth Finch, rispetto ai titoli precedenti, è forse un po’ meno risolto sul piano narrativo, si direbbe più enigmatico. Quando è uscito due anni fa non è stato particolarmente ben accolto, i recensori inglesi e americani hanno per esempio criticato l’eccesiva lunghezza della parte su Giuliano l’Apostata, considerandola una sorta di inserzione sproporzionata nella struttura del romanzo; e rimproverato allo scrittore di non aver saputo essere, come chiede proprio il personaggio di Elizabeth, abbasta “divertente e rigoroso”. In realtà Barnes continua a essere “divertente” – in maniera impeccabile, a modo suo – anche se il romanzo non sembra una di quelle perfette macchine narrative a cui ci aveva abituati. Gli appunti sotto forma di aforisma che il narratore estrae e “trascrive” dai quaderni della professoressa non sono sempre, bisogna pur ammetterlo, così fulminanti. Ma la strategia sorniona di giocare col lettore, quella funziona benissimo; e tocca vertici di estrema, se pure criptica, raffinatezza.

Come un giocoliere o un prestigiatore, Barnes riesce persino a richiamare in dubbio se stesso o i suoi maestri. Lui, che nel Pappagallo di Flaubert, (romanzo straordinario dei primi Anni Ottanta, che gli ha dato fama e rilievo internazionale) si dichiara “malato” dello scrittore francese, definisce una “regola d’oro cui ho cercato di attenermi” l’anatema di Elizabeth rivolto alla classe, e cioè di diffidare di romanzi e saggi dove un personaggio venga definito con tre aggettivi. Se non è un lapsus, è un’allusione piuttosto sorprendente al famoso “ritmo ternario” dell’autore di Madame Bovary: che quand’era l’ora i tre aggettivi li usava eccome. E magistralmente.

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Fotografia header: Julian Barnes: credit Getty Editorial

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