La prima cosa che viene in mente leggendo “L’esercizio”, romanzo d’esordio di Claudia Petrucci, è che viene restituita eccellenza all’invenzione: quella drammaturgica, quella quotidiana, quella della maschera, che chiunque, in ogni momento della vita di adulto, usa e che aderisce più o meno fedelmente a un nocciolo duro e resistente, nella maggior parte dei casi inaccessibile, ovvero la verità di ciò che si è… – L’approfondimento

“La cosa certa è che viviamo rimandando tutto ciò che può essere rimandato;
forse tutti sappiamo nel profondo che siamo immortali
e che, prima o poi, ogni uomo farà ogni cosa e saprà tutto.”
(Jorge Luis Borges, da “Funes, l’uomo della memoria” in Finzioni a cura di Antonio Melis. Adelphi, 2015)

Una delle idee più comuni riguardo alla creazione di un personaggio è quella per cui egli inizi a vivere per conto suo; esseri credibilissimi, iconici e indimenticabili che di punto in bianco iniziano a parlare da soli, a camminare per la loro strada, a fare esattamente ciò che è scritto e a distruggere in tal modo, loro stessi come prodotto di un’invenzione. Restando in questo scenario, i personaggi credibili sono quelli che aboliscono e negano la finzione, incarnandola in modo perfetto.

L’esercizio (La nave di Teseo) di Claudia Petrucci parte con una scenografia e una sceneggiatura realista: due lavoratori precari, un amore che vive nel quartiere Lambrate di Milano, Giorgia, in particolare, che viene raccontata in prima persona da Filippo, il ragazzo che ama. In questo primo atto si inserisce una persona dal passato di lei: Mauro, il regista teatrale, con cui Giorgia collaborava prima di conoscere Filippo e da cui si è allontanata bruscamente.

Il teatro e il ricordo del teatro ci portano alla fine irruenta del primo atto, da cui il romanzo decolla per scendere qualche gradino in giù nella mente malata di Giorgia.

claudia petrucci L'ESERCIZIO

La prima cosa che viene in mente leggendo L’esercizio è che viene restituita eccellenza all’invenzione: quella drammaturgica, quella quotidiana, quella della maschera, che chiunque, in ogni momento della vita di adulto, usa e che aderisce più o meno fedelmente a un nocciolo duro e resistente, nella maggior parte dei casi inaccessibile, ovvero la verità di ciò che si è. La maschera, implicitamente centro della scena nel romanzo di Petrucci, non è quella che, a furia di imitare la vita, ne diventa anima e corpo, e anzi: pensare che il punto sia solo questo è fuorviante.

Per quasi tutto il romanzo, si ha l’impressione di rincorrere la finzione narrativa e teatrale. Noi lettori ci troviamo di fronte a una protagonista che non è mai tale, che non è mai padrona del suo destino: ci sono Filippo e Mauro che regalano a Giorgia una vita in cui lei si immedesima. Filippo inizia un esercizio e ci prende gusto, si improvvisa scrittore e drammaturgo e sperimenta su Giorgia la possibilità di costruzione della realtà, solo per cercare di farla felice.

Se la felicità è una scusa narrativa e morale – e nascosta – Giorgia si muove in un’identità e poi nell’altra, per approssimazioni successive. E da attrice capace qual è, introietta le proiezioni dei suoi drammaturghi e la finzione narrativa si dissolve ogni volta nella realtà. Giorgia, come una marionetta, si ritrova a impersonare ruoli e personaggi, a usare una crepa della sua mente per fare al meglio quello che le viene chiesto: interpretare la migliore versione di sé.

La realtà di Giorgia non esiste separata dall’invenzione e dall’imitazione. L’autenticità diventa lo scopo di ogni esistenza, tanto di Giorgia quanto di Filippo e Mauro, ma noi siamo sospesi nell’incertezza: essa è davvero accessibile o piuttosto somiglia a una forma di finzione scritta nel modo migliore e da un autore capace?

L’invenzione, in questo romanzo, anima la storia e i personaggi con l’unico scopo di farne dimenticare loro l’origine, attraverso l’apprendimento e, appunto, l’esercizio della personificazione. La maschera di ognuno si squaglia sopra la pelle e sembra che tutto il senso dell’esercizio stia qui: sciogliere la finzione nella verità. Ma man mano che la lettura va avanti e il vortice della narrazione si approfondisce, man mano che ogni personaggio diventa persona, viene fuori il burattinaio: l’autore.

Claudia Petrucci (credit JC)

Claudia Petrucci (credit JC)

L’esercizio ci racconta un’idea di autore – di chi inventa, in senso lato – la capacità di creare o meno un personaggio – che diventa persona credibile – e la realtà migliore possibile per farlo vivere: Filippo cerca di ricostruire la vita di Giorgia, ma i suoi tentativi non sono precisi, non sono interessanti, è un autore alle prime armi, i suoi intendimenti e ricordi non hanno un valore letterario, sono a volte ingenui, altre completamente fuori fuoco. Quando è Mauro a prendere le redini della storia, il successo è assicurato: la maschera diventa pelle ma l’invenzione assume un nuovo volto, che è quello del possesso della vita altrui. L’autore capace è colui il quale riesce a manipolare correttamente la vita del personaggio, è chi si è esercitato alla perfezione.

Tutta la storia segue inesorabile l’esercizio continuo alla vita: non c’entra l’imitazione, a ben vedere, era un abbaglio che abbiamo preso all’inizio, seguendo le prime fasi realiste del racconto; c’entra l’esercizio – continuo e instancabile – che ci permette di vivere una versione autentica di noi stessi, anche se è una versione scritta da altri, anche se serve per curarci, anche se è un’invenzione, anche se, infine, siamo in balìa della capacità di uno scrittore di renderla affascinante.

Fotografia header: Claudia Petrucci (credit JC)

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