Fabrizia Ramondino (1936 – 2008) è purtroppo una scrittrice poco nota, eppure è fra le più grandi del nostro ‘900. Fortunatamente, negli ultimi anni sono state ripubblicate diverse sue opere, tra prosa e teatro. Libri in cui trovano spazio i temi ricorrenti della morte, della fuga e della maternità, e il suo sguardo acuto e precisissimo sulla realtà. Una scrittura, la sua, che nasce da un particolare miscuglio fra autobiografia, narrativa e saggismo e che, al tempo stesso, sembra provenire da un altro mondo. Come quel cerchio magico continuamente evocato dalla sua penna, che è spesso la creazione di una piccola isola di felicità…
“Sta per scoppiare la guerra / e io compro stoffa per foderare divani / siccome è morta la zia / e me ne vado a vivere in campagna / Se muore il padre / diceva una donna nella fila alla posta / il figlio prende il posto al Banco di Napoli”.

Fabrizia Ramondino in una foto Getty
Sono dei versi tratti dalla prima opera teatrale scritta da Fabrizia Ramondino (31 agosto 1936 – 23 giugno 2008), Tredici metri di stoffa turchese per foderare due divani (1991), mai pubblicata dall’autrice in vita. Oggi ci viene (finalmente) presentata da Ippolita di Majo per Einaudi, in un bel volume intitolato Teatro che raccoglie quattro testi drammaturgici inediti di Ramondino, scritti fra il 1991 e il 1995 (Tredici metri di stoffa turchese per foderare due divani, Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzi; Poggio senese con masso, vagabondo, gitanti e Caffè degli specchi).
In questi pochi versi sembra esserci racchiuso molto dell’universo di questa troppo velocemente dimenticata scrittrice: la connessione stridente, quasi gratuita, fra elementi assolutamente quotidiani e all’apparenza inessenziali e la grande storia dei destini generali, lo sguardo acuto e precisissimo sulla realtà, l’attenzione ai discorsi degli altri, alle parole degli altri, la scrittura apparentemente cristallina, ma in realtà complicatissima; i temi ricorrenti della morte, della fuga, della maternità.
Eppure non potrebbe esserci citazione meno rappresentativa della scrittura di Fabrizia Ramondino di questa qui: versi, in un’opera per la scena, di pura invenzione, laddove la maggior parte della produzione di Ramondino è in prosa, nasce da un particolare miscuglio fra autobiografia, narrativa e saggismo – e che quindi potrebbe apparire attualissima, ma sembra in realtà provenire da un altro mondo. Come quel cerchio magico continuamente evocato dalla sua penna, che è spesso la creazione di una piccola isola di felicità, che può essere ritrovata nel passato dell’infanzia, nel futuro dell’utopia, o nel presente della scrittura.
Ramondino è purtroppo una scrittrice dimenticata, poco nota, eppure è senza dubbio fra le più grandi del nostro Novecento; e forse possiamo sperare che questa grandezza venga presto riconosciuta dal pubblico, come potrebbero far presagire alcune ripubblicazioni recenti: dopo Fazi che nel 2022 ha ripubblicato Guerra d’infanzia e di Spagna e nel 2023 Althénopis (due dei suoi libri più belli), quest’anno Nutrimenti ha riedito L’isola riflessa (con la prefazione di Loredana Lipperini) e Einaudi ha proposto il già citato Teatro.
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Si tratta di due libri molto diversi fra loro: e non solamente per il diverso genere a cui appartengono, eppure in entrambi si riconosce chiara la cifra della scrittura di Ramondino.
C’è, è vero, una certa vicinanza cronologica: dal 1991 del primo testo teatrale al 1998 dell’Isola riflessa; ma soprattutto è una posizione nei confronti della scrittura e della vita e ritrovarsi in questi testi: i personaggi che si presentano quasi come fantasmi, presenze dai contorni non del tutto definiti, apparizioni, manifestazioni; situazioni apparentemente realistiche che spesso si risolvono nel grottesco o nella fiaba; i continui (ma quasi sempre nascosti) riferimenti al mito; l’onnipresenza del tema della morte; il costante senso di una caducità dell’esistenza, che si fa sempre più forte e sempre più pressante, soprattutto nell’osservazione di un mondo che non è più com’era: nella precoce messa a fuoco del turismo di massa che sta per iniziare a modificare irreversibilmente l’isola di Ventotene nell’Isola riflessa, o nella perdita di punti di riferimento dei molti personaggi delle opere teatrali che si trovano persi o smarriti di fronte alla storia e alla realtà: dall’Elena di Tredici metri di stoffa che guarda il conflitto in Jugoslavia alla televisione, o il Carletto che non sperava nella guarigione, ma nella rivoluzione, fino all’agriturista del Poggio senese con masso che constata che il 25 aprile “non è più di moda” e “non usano più bandiere rosse”.
Il non-essere-più è uno dei tratti più evidenti della scrittura di Ramondino di questa stagione, che si riversa sulle notazione di natura sociologica su un mondo che è cambiato, sul senso di nostalgia, sullo sguardo sull’infanzia, ma anche, e più radicalmente, sulla tentazione della fuga, sulla sparizione cui tendono (come speranza o come tragedia) molti personaggi, sulla tensione o sul precipizio verso il nulla. Non a caso i personaggi del Caffè degli specchi sono per lo più afflitti da problemi di comunicazione: parlano da soli, sono circondati da chiacchiere inessenziali, falliscono i propri tentativi di comunicazione autentica. D’altronde ogni opera, scrive Ramondino ne L’isola riflessa, è inestricabilmente duplice “tra adattamento alla realtà e alla ragione e fuga dalla realtà e nella sragione”.
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Questa stessa duplicità sembrano incarnarla i personaggi delle opere teatrali: che spesso sragionano, si trovano in situazioni assurde o paradossali, vivono di dialoghi che sconfinano talvolta nel nonsense o nel grottesco. Come se i testi fossero anche delle occasioni di un discorso filosofico sull’esistenza e l’umano – “L’umano… / Sempre stato per me un’irrisolta questione” dice Berardo in Poggio senese con masso. E irrisolta questione sembra esserla anche per Ramondino: che non a caso l’affronta di continuo, e quasi sempre in situazione.
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E se la cosa non stupisce ne L’isola riflessa, che ha la struttura del diarismo saggistico e guarda a una lunga tradizione con Montaigne in testa, senza dubbio si rimane spiazzati nei testi teatrali, dove situazioni apparentemente realistiche vengono subito sconfessate e trascinate nel territorio dell’assurdo o dell’inverosimile, molto spesso per il tramite dell’ironia.
Se infatti i titoli sembrano anticipare per lo più drammi borghesi, i testi disattendono completamente ogni pregiudizio, mettendoci di fronte quasi a dei dialoghi filosofici che procedono, tuttavia, lasciando da parte la logica diurna, per affidarsi piuttosto a associazioni, esagerazioni, ironia, disturbi della comunicazione, creatività. Non a caso le riflessioni più acute vengono messe in bocca a personaggi che costitutivamente si pongono al di fuori della logica associata del consorzio umano: i pazzi, gli emarginati, gli alienati, le donne (Elena che “si sente sola / Ha invitato a cena i morti” oppure che si sta “facendo un divano” mentre “Loro stanno per fare la guerra”), che mettono in scena la fine della rivoluzione, la rivendicazione della libertà di inventare la propria vita, discettano della dialettica hegeliana servo-padrone, della dimensione economica che spiega anche le “leggi della psicologia”, o del proprio essere incarnati e del corpo come unico mezzo per arrivare all’anima.
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È molto spesso dall’osservazione di dettagli esterni, banali che i personaggi allargano i loro discorsi a un ordine di significato più ampio: considerazioni di ordine storico-politico (soprattutto nell’Isola riflessa, ma non mancano anche nel teatro), o di ordine esistenziale. Tutti i personaggi principali del teatro di Ramondino, così come l’io semi-autobiografico che parla nell’Isola riflessa sembrano vivere un’esistenza come in confino, tesi, quasi contesi, lacerati dolorosamente fra due poli opposti: la presenza infestante della morte, da un lato (“Ogni volta che un ragazzo ti prende la mano / ti prende per mano la morte”, dice il compositore alla figlia in Stanza con compositore, e aggiunge che “Non è una ragazza che parla / è la morte”), morte a cui ogni personaggio tende (e da cui sembra sprofondare come nel gorgo del mare anche la Fabrizia dell’Isola); e dall’altro una continua tensione verso l’utopia.
Ma tutti questi personaggi sanno che si può affogare mentre si cerca di raggiungere a nuoto l’isola di Utopia, e tuttavia c’è sempre in Ramondino un tenace ancoraggio all’umano anche quando tutto sembra sprofondare nel niente, anche quando lei stessa sembra sprofondare nel gorgo.
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