Il giornalista Marino Bartoletti, in libreria con l’Almanacco aggiornato della storia della kermesse e il romanzo Il Festival degli dei, in questa intervista ci racconta segreti, retroscena e curiosità: “Sanremo, al pari della Nazionale di calcio, rappresenta l’Italia. Le basi del grande successo degli ultimi anni le ha poste Baglioni, lanciando molti giovani, e Amadeus ha proseguito. L’aldilà? Più ne scrivo e più mi convinco non solo che ci sia ma che valga la pena andarci quando sarà l’ora…”

Sorriso impercettibile, garbo quasi d’altri tempi, tono della voce suadente di chi, anche quando nei salotti televisivi snocciola un aneddoto, dei numeri o un ricordo personale, ti sta per raccontare una storia affascinante.

I baffi neri sono il suo marchio di fabbrica anche se Berlusconi, quando lo prese a Mediaset, voleva che li tagliasse e glielo ricordava, invano, tutte le settimane nella consueta telefonata dopo Pressing, fino a spedirgli una foto ritoccata al computer per dimostrargli che senza sarebbe stato meglio.

Marino Bartoletti è l’arcitaliano perché si occupa, con passione e competenza assoluta, delle due grandi passioni che tengono insieme questo Paese: la musica e lo sport (il calcio, soprattutto). Sulla prima è una sicurezza perché conosce vita, morte e miracoli del Festival di Sanremo, “istituzione eclatante dell’Italia sommersa che al pari del campionato di calcio esercita una costante, anzi implacabile tirannia sulla vita nazionale”, come scriveva nel 1990 Oreste Del Buono sul Corriere della Sera. Sullo sport, è stato direttore di riviste prestigiose, come il Guerin Sportivo, e autore di trasmissioni di successo come Quelli che il calcio, da lui ideato nei primi anni Novanta.

Almanacco del Festival di Sanremo

Tornando a Sanremo, oltre ad aver aggiornato l’Almanacco del Festival (Gallucci editore, prefazione di Carlo Conti) in una cavalcata che va dal 1951 all’anno scorso tra aneddoti personali e storici, vincitori e vinti, e i fatti accaduti in Italia e nel mondo, Bartoletti si è immaginato, nel Festival degli dei (sempre edito da Gallucci), un’edizione della kermesse in paradiso con i grandi che lo popolano pronti a sfidarsi: Mia Martini, Domenico Modugno, Gabriella Ferri, Mino Reitano, Umberto Bindi, Ivan Graziani, Lucio Dalla, Rino Gaetano, solo per citarne alcuni.

Ma torniamo al Festival “terreno”. Dove quest’anno torna Carlo Conti dopo i cinque anni trionfali di Amadeus.

Marino Bartoletti

Bartoletti, che Festival si aspetta?
“È un’edizione molto attesa, non facile per Carlo Conti che raccoglie un’eredità importante ma lui ha le spalle larghe per reggere la pressione e una competenza musicale che gli ha consentito di scegliere buone canzoni”.

Con tante polemiche come quelle su Emis Killa o Fedez.
“La canzone di Fedez ha una sua dignità, è cantata totalmente in autotune, che a me non piace, ma ad altri sì. In generale, sono brani nei quali chiunque di noi può trovare qualcosa che lo rappresenta”.

L’Accademia della Crusca ha detto che, tranne poche eccezioni, i testi sono tutti piatti e banali. Che ne pensa?
“Che la Crusca dovrebbe farsi i fatti suoi. In una canzone ha poco senso giudicare solo il testo scritto. Se uno avesse letto il testo di Volare di Modugno con la frase ‘volare oh, oh, cantare, oh oh oh’ non avrebbe potuto capire che grande canzone era e sarebbe diventata. Le analisi filologiche lasciano il tempo che trovano. Una canzone va ascoltata nella sua completezza, testo e musica, per poterla giudicare”.

Nel rilancio degli ultimi anni del Festival, anche sui social e tra i giovani, di chi è il merito maggiore?
“Direi che il germe l’ha gettato sicuramente Claudio Baglioni, e Amadeus ne ha raccolto i frutti facendoli fiorire, perché ha condotto cinque edizioni una più bella dell’altra. Ha ripreso per mano la crescita della musica, soprattutto giovane e italiana”.

Qual è stata la novità più dirompente delle ultime edizioni?
“Il fatto che si sia investito enormemente sui giovani, come dimostra non soltanto l’albo d’oro, con le vittorie dei Maneskin, di Mahmood e di Blanco, e di Angelina Mango, ma anche i piazzamenti importanti di Alfa, Lazza, Tananai, solo per citarne alcuni. Questo è stato il tratto più importante, sempre nel rispetto dei nostri antichi campioni. Ricordiamo che nel 2022, quando hanno vinto Blanco e Mahmood, al terzo posto è arrivato Gianni Morandi, che si è rimesso in gara con tanto coraggio, e certamente non ne aveva bisogno. Quest’anno, comunque, ci sono Massimo Ranieri, la stessa Giorgia, Marcella Bella».

Quanto conta aver unito la figura del direttore artistico e del conduttore?
“È stato decisivo e devo dire ormai è irreversibile. È stato Pippo Baudo l’apripista. Fabio Fazio interrompe la catena nel 1999, l’anno della sua prima conduzione, poi capisce che tanto vale mettere il naso nella scelta delle canzoni, perché poi comunque le devi gestire tu su quel palco. I due ruoli – di conduttore e direttore artistico – sono ormai inscindibili, e il conduttore deve avere spalle larghe e grande esperienza per fare il direttore artistico. Prima della scelta di Carlo Conti per il Festival di quest’anno ho sentito fare nomi improbabili”.

Tipo Stefano De Martino.
“De Martino è bravissimo, un giorno condurrà il Festival di Sanremo, ma per adesso è meglio che lo conduca Carlo Conti”.

Il contrasto tra televoto e giuria della sala stampa è un classico del Festival, come dimostra il caso Geolier l’anno scorso.
“Sì, anche se la giuria della sala stampa e delle radio esprime già di per sé una realtà popolare”.

Nel suo Almanacco racconta l’esperienza di quando nel 2015 fece parte della giuria di qualità.
“Eh sì, menomale che l’hanno abolita (ride, ndr)”.

Perché?
“Alcuni anni ha sovvertito risultati che andavano in tutt’altra direzione. La giuria di qualità ha sempre ragione se chi la compone si comporta con onestà, lealtà e correttezza. A volte c’è stato qualcuno che ha mal interpretato quel ruolo. Dopodiché anche il televoto ha delle falle tecniche. Si tratta di capire il bilanciamento fra le varie giurie che devono orientare la gara. Quest’anno anno nella prima serata c’è solo il voto di Sala stampa, tv e web. Poi, dalla seconda, arriva il televoto. È stata abolita la giuria demoscopica, che forse era quella che ci azzeccava di più. L’importante è sapere prima il regolamento e poi, ovviamente, ci si adegua a quello che l’arbitro ha deciso».

Da dove nasce questa sua passione per Sanremo?
“C’è da sempre, anche quando mi occupavo di sport. Ho l’età per ricordare quasi tutte le edizioni del Festival di Sanremo, soprattutto quelle televisive. Quindi l’ho sempre amato moltissimo e l’ho seguito prima da telespettatore, poi da giornalista, infine da opinionista e anche da giurato e selezionatore delle canzoni. Il Festival è un evento nel quale possiamo riconoscerci tutti e senza troppa puzza sotto il naso, perché è lo specchio del nostro Paese, nel bene e nel male. Dura da settantacinque anni, il che vuol dire che è piuttosto radicato nella cultura artistica italiana. Non per nulla, due anni fa è arrivato il presidente della Repubblica sul palco d’onore a omaggiare quest’evento pop e far capire che appartiene a pieno titolo alla nostra cultura”.

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Mi dica un aggettivo per ogni decennio del Festival. Partiamo agli anni Cinquanta
“Sperimentale”.

I Sessanta.
“Gli anni dell’affermazione”.

I Settanta?
“Del declino”.

Gli Ottanta?
“Della grande ripresa”.

I Novanta?
“Dell’esplosione”.

I primi 2000?
“Direi del mantenimento, con qualche difficoltà”.

E dal 2010 in poi?
“Il Festival ha ripreso completamente la massima quota di volo”.

Il grande romanzo popolare italiano è più la Nazionale di calcio o Sanremo?
“La Nazionale è più antica, visto che la prima partita degli azzurri risale a quasi 120 anni fa. Il calcio è seguito da più persone rispetto alle canzoni, però, il Festival di Sanremo, non a caso, fa ascolti che sono perfettamente assimilabili alle partite della Nazionale, e lo fa per cinque serate consecutive. Quindi è ugualmente un grande evento popolare e, al pari del calcio, unisce e divide gli italiani allo stesso tempo».

C’è qualche aneddoto su Sanremo che il grande pubblico non conosce?
“Difficile trovarne. Leggendo il mio Almanacco si trova qualche curiosità interessante come, ad esempio, l’edizione del 1974 tenuta in pugno da Modugno e poi vinta da Iva Zanicchi. Nel 2012 andai con Lucio Dalla, che dopo quattro partecipazioni da cantante era in gara come direttore d’orchestra con Pierdavide Carone, e quel pranzo fu l’ultima volta nella vita che ci vedemmo. Qui subentrano pesantemente anche malinconie e incroci di ricordi personali”.

Il festival degli dei marino bartoletti

Nel ’61 l’ultima apparizione di Mina, che mentre canta ha un colpo di tosse e scappa via dal palco in lacrime.
“Disse che non sarebbe più tornata e fu di parola, come è sempre stata nella sua vita. Probabilmente non si riconosceva nella competizione. Lei all’epoca era già Mina e poteva fare a meno del Festival. In realtà, dopo, qualche piccolo ripensamento lo ha avuto. Capì che da Sanremo passavano comunque delle buone canzoni, per cui fece alcune cover a cominciare da E se domani, canzone che tutti avevano ignorato e che con lei diventò un grande successo, Immensità, La voce del silenzio e tante altre fino a Oggi sono io portata all’Ariston nel 1999 da Alex Britti. Quindi, pur restando sempre lontana da Sanremo, Mina ha avuto con il Festival un rapporto di odio – amore che è sempre virato più nell’amore”.

Ripercorrendone la storia ci sono grandissimi nomi che non sono mai andati al Festival.
“Sì, De Gregori, per esempio, Fabrizio De André, che però ha mandato una canzone, fino a Guccini che per coerenza non è mai salito su quel palco, anche se quando è davanti al caminetto con gli amici ama cantare Vola colomba bianca vola“.

I suoi maestri di giornalismo?
“Mi tengo caro Gianni Brera e l’amicizia con Sandro Ciotti, che curiosamente aveva le mie stesse passioni: musica e sport”.

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Nell’aldilà ha ambientato molti dei suoi romanzi. Gli ultimi sono La partita degli dei, uscito due anni fa, e il Festival degli dei. Come se lo immagina lei?
“Potrei cavarmela battuta e dire che più ne scrivo e più sono convinto non solo che ci sia, ma che valga quasi la pena andarci. Quando sarà ora, naturalmente. La mia rappresentazione dell’aldilà è una rappresentazione ingenua, lontana da ogni canone, perché ho cominciato a immaginarlo con grandi personaggi come Pavarotti, Ayrton Senna e Lady D, che si ritrovano per una bella cena insieme. Il concetto è quello dello stare bene, qualunque sia la declinazione. Soprattutto, è bello immaginare che questi personaggi ci siano in quel paradiso e facciano esattamente le stesse cose per cui li abbiamo immaginati sulla terra e cioè le cose migliori che hanno fatto, quelle per cui ci siamo innamorati di loro, qualunque fosse il loro talento. Ora li immaginiamo come dei pagani che vegliano sempre su di noi grazie all’amore che noi continuiamo a dargli. Il mio è un aldilà un po’ anomalo, nel quale prevale la gioia di esserci e di essere ancora utili a chi è rimasto sulla terra”.

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