A “colloquio” con il teatro che ha da poco compiuto sessant’anni e che dal 1977 ospita il Festival di Sanremo: “Sono nato grazie al genio visionario di mio padre, Aristide Vacchino, che mi volle a tutti i costi e scelse anche il nome. Con i miei fratelli Carla e Walter, che mi ha dedicato il libro ‘La scatola magica di Sanremo’, abbiamo vissuto un’epopea indimenticabile. Sono un camaleonte che negli anni ha fatto di tutto”. Tra aneddoti e retroscena, un viaggio nella storia del costume e dello spettacolo…

Signor Ariston, la trovo in forma.
“Il Festival di Sanremo è un anticipo di primavera, ogni anno mi mette di buonumore. E poi sono contento per un altro motivo”.

Quale?
“Finalmente qualcuno che m’intervista. A maggio ho compiuto sessant’anni. Ne ho di cose da raccontare. Tutti parlano di me, nessuno che abbia mai parlato con me”.

Sono qui apposta. Partiamo dal nome.
“Ariston, in greco, significa il ‘migliore’. È stato mio padre, Aristide Vacchino, a sceglierlo. Negli anni Quaranta aveva acquistato il terreno su cui sono nato io. Si trovava accanto al Cinematografo Sanremese, messo su nel 1907 da suo padre, Carlo, originario di Carpeneto, provincia di Piacenza, che aveva rilevato i locali dell’Eden Concert. Si era innamorato del cinema dei fratelli Lumière e voleva portarne la magia a Sanremo che attirava turisti illustri. Due anni prima aveva aperto i battenti il Casinò con una grande festa e ospiti del jet-set internazionale. In quegli anni Sanremo era la capitale italiana della Belle Époque”.

Aristide era un tipo tosto. Ne ha passate tante per farti nascere e tirarti su.
“Lo so, lo so. Era un imprenditore appassionato e un visionario. Nei primi anni Cinquanta si era messo in testa di progettare un multisala moderno capace di ospitare ogni genere di spettacolo. Impiegò dieci anni per completarne la costruzione. La burocrazia, tra battaglie giudiziarie e ricorsi, e l’ostilità della concorrenza lo fecero penare. Ma lui quando si metteva in testa una cosa non mollava. Sognava in grande ed era mosso da un intento nobile: restituire a Sanremo e alla Riviera un teatro dal profilo internazionale dopo che il Principe Amedeo, preso in gestione da suo padre Carlo, era stato distrutto nel 1944 dal cacciatorpediniere francese Forbin durante la Seconda guerra mondiale”.

Il 31 maggio 1963 Aristide corona il suo sogno e nasce lei, l’Ariston.
“La gente quando mi vide per la prima volta rimase a bocca aperta. Una sala lunga quaranta metri e larga ventidue in grado di ospitare duemila spettatori dei quali milleduecento in platea, seicento in galleria e i restanti in sedici palchi laterali con annessi salottini di gala. Il proscenio era profondo quindici metri e largo ventiquattro per favorire l’allestimento di opere liriche, prosa e spettacoli d’arte varia. La stampa scrisse che superavo di gran lunga le attrezzature dei festival cinematografici di Cannes e Venezia”.

Il palco dell’Ariston pronto per il suo primo Festival della Canzone Italiana, marzo 1977.

Il palco dell’Ariston pronto per il suo primo Festival della Canzone Italiana, marzo 1977

Un trionfo.
“Per non parlare dei camerini degli artisti. Ben ventotto distribuiti su quattro piani, più due cameroni eleganti e spaziosi per i corpi di ballo, le comparse, le masse corali e gli orchestrali. In anticipo di mezzo secolo, Aristide aveva creato il primo multiplex d’Italia con centro commerciale annesso, il Ritz, il cinema all’aperto sul tetto e i grandi magazzini Standa nel seminterrato”.

E poi l’insegna, la più fotografata d’Italia.
“È il mio marchio di fabbrica. Disegnata dall’architetto Lavarello, è rimasta sostanzialmente la stessa. Qualche metro più in basso c’è ancora il sistema di posizionamento a mano delle lettere sulla bacheca degli spettacoli, benché tutti i teatri e i cinema oggi si affidino ai display elettronici. Sono l’Ariston anche per questi dettagli”.

Ha vissuto mille vite.
“Non voglio apparire presuntuoso. ma non ho limiti. Nel tempo mi sono trasformato in cinema, sala concerti, teatro lirico, arena sportiva, centro congressuale, passerella per sfilate di moda, set cinematografico. Tra gli altri, qui hanno girato i film su Dalida, Mixed by Erry e le serie tv sulla vita di Mia Martini e dei Ferragnez. Sono diventato anche sala biliardo, palestra per i campionati mondiali di body building e persino una chiesa perché nel 1988 ho ospitato la Settimana Liturgica Nazionale con millenovecento tra preti, suore, monsignori e cardinali”.

Rudolf Nureyev e Carla Fracci erano di casa.
“Il primo, negli anni Ottanta, fece tre serate memorabili. La seconda, mitica étoile della Scala, mi difese dopo essere stata criticata per aver scelto di esibirsi su un palco troppo nazional-popolare. Nel 2015 è venuto anche Roberto Bolle”.

La settimana liturgica, agosto 1988.

La settimana liturgica, agosto 1988.

Rockstar, cantanti, atleti, ballerini. Non sapevo dei Premi Nobel.
“Nessun teatro ne ha visti tanti e tutti insieme. Nel 1983, arrivarono in trentaquattro, accompagnati dal re di Svezia Carlo Gustavo XVI, per festeggiare i 150 anni della nascita di Alfred Nobel, lo scienziato svedese fondatore del premio che morì qui a Sanremo nel 1896. C’era anche Renato Dulbecco, che avrei rivisto nel 1999 come co-conduttore del Festival accanto a Fabio Fazio, e tanti altri”.

Insomma, vuole dire che era famoso già prima del Festival.
“Diciamo che non me la passavo male. Certo, la kermesse mi ha fatto diventare un luogo iconico quasi quanto il Colosseo e la Fontana di Trevi”.

Come vi siete incontrati con il Festival?
“Grazie a un pompiere, il comandante dei vigili del fuoco della provincia di Imperia, l’ingegnere Natale Inzaghi”.

Dice sul serio?
“Sì. Fino al 1976 il Festival si svolgeva al teatro del Casinò. Inzaghi, ogni anno, doveva svolgere il sopralluogo e dire se era tutto in regola con l’agibilità, la sicurezza, le uscite di emergenza. Non c’era niente a posto. Nella relazione scrisse che quel luogo era ‘inadeguato e pieno di materiale infiammabile’ e che in caso d’incendio ‘rischiava di diventare un forno crematorio per centinaia di persone’. Ciononostante, le edizioni del ’75 e ’76 si svolsero comunque lì”.

Le cassiere Adelaide Marini e Ninni Deveronico nel giorno dell’inaugurazione, 31 maggio 1963.

Le cassiere Adelaide Marini e Ninni Deveronico nel giorno dell’inaugurazione, 31 maggio 1963

E arriviamo al 1977.
“A poche settimane dall’inizio, Inzaghi compie un sopralluogo e non firma l’agibilità perché, nel frattempo, oltre ai problemi precedenti, nel sottotetto del Salone delle feste del casinò c’erano diversi impianti elettrici scoperti. Niente via libera e un grosso problema: trovare in fretta e furia un’altra sede a poche settimane dal via”.

E qui, sornione, entra in scena lei.
“Ero l’unica àncora di salvezza. Mi sembra di risentirli adesso i tradizionalisti che parlavano non di trasloco, ma di funerale. Qualche giornalista la definì ‘l’edizione dello sfratto’. Quei critici non ci sono più. Io, come vede, sono ancora qua”.

Se la tira un po’, eh.
“Senza di me Sanremo avrebbe perso il Festival, forse per sempre”.

Che ricordo ha di quella prima edizione?
“Mike Bongiorno che con il suo solito stile retrò pronuncia la parola Festivàl, con l’accento sulla a. E poi annuncia agli italiani: ‘Per la prima volta siamo in onda a colori. Se avete il televisore a colori, sistematelo per vederci bene”..

Diciamo la verità, il Festival in quegli anni non se la passava bene.
“Tirava aria di smobilitazione. In sala metà sedie erano vuote. I discografici lo snobbavano. Quell’anno la Rai, che trasmetteva solo la serata finale, interruppe la diretta prima che Mike annunciasse i vincitori, gli Homo Sapiens, con Bella da morire. Però arrivò un super ospite, un mito assoluto, Barry White, che si rifiutò di cantare in playback. Chiese sei casse, trentasei bottiglie in totale, di whisky Ballantine’s. Tutte sparite, la prima bevuta quasi completamente in un unico sorso. Indimenticabile”.

Molti giornalisti chiedevano l’abolizione del Festival.
“L’unica voce fuori dal coro era quello del grande Domenico Modugno. Gli chiesero un parere e lui sbottò: ‘Ma non diciamo fesserie, per carità. Io e lei saremo sotterrati da un pezzo e qui si continuerà a suonare, cantare, votare, premiare, bocciare, piangere e ridere. Prova a levargli il pallone agli italiani, e vedrà cosa succede. Idem per il Festival'”.

In quegli anni nasce anche il Premio Tenco.
“Il merito è di Amilcare Rambaldi, un coltivatore di fiori dal temperamento vulcanico e dotato di grande visione, che intuisce l’importanza del movimento dei cantautori e nel 1971 va dalla Rai a proporre di aprire all’interno del Festival una sezione dedicata a Luigi Tenco. Offerta rispedita al mittente. E allora nel 1972 il Club Tenco lo fonda in prima persona e poi si accorda con papà Aristide che sposa il progetto con entusiasmo e concede il teatro a condizioni di favore come avviene ancora oggi. Prima edizione nel 1974 con grandi nomi: Francesco Guccini, Gino Paoli, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Roberto Vecchioni”.

Il backstage è affollato di tanti personaggi sconosciuti al grande pubblico.
“Sì e tra questi non posso non ricordare la mitica infermiera Ada, già ‘in carica’ ai tempi del Casinò e traslocata da me insieme al Festival. Una signora minuta con il grembiule e i capelli ricci che teneva nelle tasche l’aspirina, la pastiglia per il mal di gola, unguenti vari e altri medicinali. Accorreva sempre in caso di défaillance degli artisti e faceva anche da psicologa. Sapeva dire la parola giusta al momento giusto. I due nostri operatori, Gino Capponi e Mauro Giumelli, le costruirono a mano una croce rossa per metterla sopra la sua postazione. È andata in ‘pensione’ negli anni Novanta”.

Tra i suoi velluti si sono accomodati pure i protagonisti della Guerra fredda.
“Nel 1999 arrivò al Festival come super ospite Mikhail Gorbaciov, che fece pure il presentatore e lanciò l’esibizione di Antonella Ruggiero. In platea, quella stessa sera, c’era Roger Clinton jr, sassofonista e fratello del presidente americano Bill. La situazione era delicata e arrivarono, mescolandosi al pubblico e agli addetti ai lavori, anche agenti dell’Fbi e spie del Kgb”.

La platea nei giorni surreali del Festival 2021.

La platea nei giorni surreali del Festival 2021

Quando sembrava tutto ben rodato, nel 1990 le scippano il Festival.
“Ricordo ancora quando me lo dissero. Fu uno shock. Arrivò come impresario Adriano Aragozzini e su presunta imposizione del governo De Mita disse che non servivo più e portò la kermesse al Palafiori, fuori città, in mezzo alla campagna. Era più spazioso di me, certo, ma un posto algido, freddo, come un’amante senza passione. Duemila posti restarono vuoti. La scenografia era dispersiva. Tutta Sanremo, a cominciare dai ristoratori, mi difese dicendo che si sentiva espropriata della manifestazione. Durò poco, per fortuna. L’anno dopo il Festival tornò da me”.

Il pubblico più caldo?
“Nel 1982 arrivò Julio Iglesias all’apice della carriera. I biglietti disponibili andarono via in pochissimi giorni. La platea era quasi tutta al femminile. A fine spettacolo era pieno di reggiseni e biancheria intima lanciati sul palco dalle fan”.

L’artista più eccentrico?
“Bella domanda. Madonna nel 1998 si portò dietro i suoi phon perché non accettava di usare quelli italiani. Siccome c’era un problema di compatibilità delle spine elettriche, dovetti acquistare in fretta e furia un trasformatore da cinque kilowatt e costruire un impianto ad hoc per permetterle di farsi i capelli con i suoi phon personali. Quell’aggeggio non è stato mai più utilizzato, l’ho messo in cantina. Un giorno, magari, lo esporrò in una mostra. Ricky Martin nel 2001 voleva assolutamente avere l’acqua Fiji, purificata dai venti del Pacifico. E chi l’aveva mai sentita? Introvabile”.

C’è qualcuno che l’ha snobbata?
“Elton John. Al Festival del 1995 non si presentò. Nel 2016 non volle neanche il camerino per cambiarsi. Arrivò nel cortile del teatro, gli misero il montacarichi al livello del palco e si spogliò fino a rimanere in mutande, indossò lo smoking per entrare sul palco ed eseguire Your Song. Poi uscì, si cambiò nello stesso posto e se ne andò”.

Chi l’ha maltrattata?
“Nel 1981 ho temuto davvero tanto. Arrivarono prima i Saxon e poi gli Iron Maiden. Due concerti heavy-metal in cui la gente scatenò il finimondo. Ballava in piedi sulle sedie, ne sfasciò alcune, molti fumavano e gettavano i mozziconi accesi a terra. Un miracolo che non sia successo nulla”.

Luciano Pavarotti chiacchiera con Walter Vacchino durante le prove del suo concerto, febbraio 1988.

Luciano Pavarotti chiacchiera con Walter Vacchino durante le prove del suo concerto, febbraio 1988.

Luciano Pavarotti.
“È venuto diverse volte. Un artista molto affabile e cortese. Nel 1988, appena arrivato, lo accompagnarono per scegliersi il camerino, ma per la sua stazza imponente erano tutti piccoli, anzi ‘liguri’, come li chiamo io. Lui era in difficoltà, allora Walter Vacchino ordinò che una parte del backstage venisse murata e attrezzata come un camerino più spazioso, per creare una saletta che da allora è rimasta ed è stata inaugurata nientemeno che da Pavarotti”.

Il re del Festival è Pippo Baudo.
“Uno di casa. Il primo camerino, riservato al conduttore, lo abbiamo definito ‘camerino Baudo’ perché lui ha il record di presentazioni: tredici. Al suo debutto assoluto, nel 1968, interruppe Louis Armstrong che voleva cantare ancora tra lo sconcerto del pubblico e le proteste, dietro le quinte, della moglie. Pippo era fissato con la scalinata da mettere al centro del palco. Nel 1987, il grande scenografo Gaetano Castelli dovette inventarsi una pedana motorizzata e, soprattutto, senza ringhiere a quasi quattro metri di altezza. Una pazzia da far tremare le gambe a chi doveva scenderla. Per Pippo la scenografia era determinante per il successo, anche televisivo, dello spettacolo”.

Le mitiche scenografie del Festival.
“Per montarle ogni anno dobbiamo eliminare le prime file di poltrone della platea. E dei materiali rimasti inutilizzati, non si butta via niente. Don Pasquale, il nostro ‘cappellano’, li utilizza per allestire la processione del Giovedì Santo”.

Il giornalista più eccentrico?
“Ne sono passati tanti. Negli anni Ottanta, quando il Festival esplose, l’ufficio stampa, ospitato nel locale sopra il bar, era insufficiente per accogliere tutti i giornalisti accreditati. Si scatenò la ‘guerra dei gettoni’ con gran protagonista il decano degli inviati, Mario Luzzato Fegiz del Corriere della Sera. Andava in giro con un sacchetto pieno di monete che utilizzava per dettare i pezzi al telefono installato al Cinema Ritz, nelle viscere del teatro. Lui lo monopolizzava per dare prima di tutti le notizie più succose e poi, il sabato sera, la classifica finale”.

Le Giornate nobeliane organizzate per i 150 anni dalla nascita di Alfred Nobel, maggio 1983.

Le Giornate nobeliane organizzate per i 150 anni dalla nascita di Alfred Nobel, maggio 1983.

Vincenzo Mollica.
“Un galantuomo. È merito suo se il balconcino del teatro, da cui si collegava per il Tg1, è diventato quasi un set a sé stante. Una volta mi disse: ‘Dall’intensità degli applausi e delle urla del pubblico di sotto quando mi affaccio, capisco già l’andamento del Festival'”.

Il momento più difficile?
“Quando nel marzo 2020, dopo un’edizione scoppiettante, mi hanno chiuso per la pandemia. Poi l’anno dopo il Festival senza pubblico in sala con i palloncini al posto delle persone. Una scena che è entrata nella storia. Nonostante il vuoto, sentivo l’affetto della gente a casa”.

Che fa, si commuove?
“Gliel’ho detto, comincio a essere vecchietto. Su un quaderno conservo la dedica di Amadeus del 1° febbraio 2022, quando il pubblico tornò in sala: ‘Ringrazio questo luogo magico e storico che appartiene a tutti noi. Il Teatro Ariston è casa mia, è casa di tutti gli italiani che amano la grande musica!’. Il maestro Beppe Vessicchio, un altro amico di lungo corso, ha detto che chi entra qui ‘avverte una forza evocativa, simbolica, che solo certi luoghi sacri hanno'”.

Carla fa compagnia a suo padre nell’accogliere il pubblico, 31 maggio 1963.

Carla fa compagnia a suo padre nell’accogliere il pubblico, 31 maggio 1963

Non mi ha detto niente della sua famiglia attuale.
“Ho due fratelli. Uno è Walter Vacchino, che mi ha dedicato un libro bellissimo e che le consiglio di leggere. S’intitola Ariston – La scatola magica di Sanremo (Salani) scritto insieme a Luca Ammirati. Dice sempre che ‘all’Ariston si può fare tutto, basta che ci sia un po’ di poesia’. Ha ragione. L’altra è Carla. Me la ricordo come fosse ieri quando, da bambina, accanto ad Aristide, accoglieva le persone il giorno della mia inaugurazione. Con loro siamo cresciuti insieme. I miei nipoti, Andrea, Anna e Chiara, si stanno già preparando. Loro sono la quarta generazione. Andrea ha ideato l’Ariston tour, visite guidate aperte al pubblico. Sanno benissimo che non solo sono un teatro ma un museo e che qui gli italiani si sentono a casa”.

Ha rimpianti?
“Come faccio ad averne?”.

Dopo tanti anni non s’è stufato?
“Ma va, il meglio deve ancora venire”.

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