Arriva in libreria “PaperShow”, un volume celebrativo che raccoglie le più belle storie a fumetti che hanno visto protagonista Vincenzo Mollica nelle amate vesti del papero Paperica. Per l’occasione abbiamo intervistato il famoso giornalista e autore (di ben 64 libri!), che ci ha raccontato la sua carriera al Tg1 e quella, parallela, di cronista di Telepaperopoli. Dalla passione per i fumetti all’amicizia con Fellini e Paperino, dalle interviste che avrebbe voluto fare, alla cecità, affrontata con ironia (epitaffio dettato alla moglie compreso)

Non è vero che Vincenzo Mollica parla sempre bene di tutti.

Non sopporta l’opinionismo un tanto al chilo (e violento) che spopola sui social: “Vedo tanto narcisismo. Molti aprono bocca solo per far vedere quanto sono bravi, io preferisco le persone semplici, capaci di trasmettersi un’idea o un concetto su cui riflettere”.

Non sopporta le foto sulle lapidi nei cimiteri: “Sono tristissime, si vede che non le hanno scelte i diretti interessati”. Non sopporta neanche il tono inquisitorio nelle interviste: “Mai avuto, ho sempre studiato a fondo i personaggi, e poi andavo a braccio”. Cura le sue idiosincrasie con l’ironia, postando su Instagram aforismi in rima che prendono di mira, tra gli altri, saccenti, esibizionisti e parolai dei salotti televisivi. Tipo questo: “Chi ostenta la propria bravura / Sì teste di cazzonaggine pura”.

Uno degli ultimi mostri sacri della Rai, andato in pensione poco più di un anno fa dopo quarant’anni di carriera al Tg1, è una pasta d’uomo, e col suo modo di fare onora perfettamente la definizione che ha dato di lui Aldo Grasso nella Garzantina: “Un’iperbole di bontà”.

In Rai dal 1980, nel 1995 è iniziata la sua carriera parallela di cronista di Telepaperopoli grazie a Giorgio Cavazzano che ha disegnato Vincenzo Paperica, il suo alter ego, facendolo vivere in diverse storie a fumetti. Le migliori sono state raccolte in PaperShow, il volume celebrativo appena pubblicato da Giunti e dove Mollica firma la prefazione: “Il solo fatto di poter stare al fianco di Paperino, in una storia a fumetti, mi emoziona profondamente”.

Papershow

Come nasce questa passione per il mondo dei paperi?
“Risale a quando ero ragazzo. Paperino è stato il compagno di scuola con cui sono cresciuto, un amico vero di quelli che non ti abbandonano mai, che sono sempre al tuo fianco senza mai prevaricare e che vogliono solo regalarti una risata, un momento di amicizia autentica. Sono personaggi dell’immaginazione, ma ci fanno compagnia come gli amici veri in carne e ossa”.

Un amico al quale ha voluto così bene da portarlo al Tg1.
“Era il 1983 ed ero stato assunto da poco. Proposi all’allora direttore Emilio Rossi, gambizzato dalle Brigate Rosse, un servizio su Pippo. Lui pensava mi riferissi a Baudo. Mi chiese il motivo e gli dissi che secondo me Pippo è un filosofo, al pari di Poldo Sbaffini di Braccio di Ferro o Woodstock, la mitica spalla di Snoopy. Tutti personaggi filosofici, non certo comprimari. Lo volle prima vedere e gli piacque talmente tanto che lo inserì nel Tg1 delle 20. Per la prima volta nella storia della Rai un personaggio dei fumetti arrivava nel telegiornale dell’ora di punta. Dopo ho cominciato a fare servizi su tutta la famiglia Disney, Corto Maltese, i personaggi di Milo Manara, Guido Crepax, Andrea Pazienza e Dino Battaglia. Fu quasi naturale arrivare a un altro primato”.

Quale?
“Il primo speciale nella storia della televisione italiana dedicato ai fumetti l’ho realizzato io per il Tg1. Andò in onda nell’aprile del 1983 e s’intitolava Letteratura disegnata. Il titolo me lo suggerì Hugo Pratt, che ci teneva particolarmente a questa definizione”.

Non è un po’esagerato?
“No, perché i fumetti sono il risultato di quell’intreccio misterioso e bellissimo tra parole e disegno. Oggi si chiamano graphic novel, ma io preferisco la definizione di Pratt. Anche se la cultura italiana l’ha trattato come figlio di un dio minore, il fumetto merita di stare in un manuale di storia dell’arte e di storia della letteratura. Pasolini in un’intervista a Ezra Pound chiese quale fosse il più importante personaggio della letteratura americana del Novecento e lui rispose: Topolino, Mickey Mouse. Le sue storie, come quelle di Paperino, Braccio di Ferro, Snoopy sono lo specchio della realtà”.

E, da buoni filosofi, riflettono sulla vita non con i sillogismi ma con un sorriso.
“Esatto. Una volta intervistai Carl Barks, il papà di tutti i paperi disneyani, il Giotto dell’arte papera. Gli chiesi: ‘Lei è l’unico che può darci la prospettiva mancante: come guardano i paperi agli umani?’. Si fece una risata e mi disse che si svegliano la mattina, fanno colazione, aprono il giornale, leggono quello che succede tra gli umani e cominciano a parodiarli e imitarli. Nelle storie di Topolino troviamo l’essenza di quello che siamo”.

E cosa siamo noi?
“Esseri umani capitati in un’avventura che qualcuno, con nobiltà, ha definito una commedia e che per ognuno è qualcosa d’importante e assoluto perché la vita ha sempre delle belle sorprese da regalare. Il filo conduttore di tutto è la ricerca della felicità, un’arte antica e drammatica quanto l’uomo”.

Che infanzia è stata la sua?
“Normalissima, segnata da una grande passione per la letteratura, il cinema, la musica e il fumetto. Tutte cose di cui ho avuto la fortuna di occuparmi da adulto come cronista”.

Qualcuno l’ha definita un critico che parla sempre bene di tutti.
“Sono solo un cronista. I critici sono gli altri, e di solito criticano me. Fino a quando sono su questa terra, sarò sempre affascinato dai personaggi che sono i ‘portatori’ delle storie. È come un gioco infinito, siamo tutti cercatori di storie ma il cronista lo fa per mestiere. Quando ne trovi una bella da ascoltare si crea quell’incantesimo che si chiama racconto”.

Vincenzo Mollica e Paperica

Quale personaggio le ha regalato le storie migliori?
“Federico Fellini, il più grande narratore e artista che abbia mai conosciuto. Lo chiamavano ‘il faro’ e lo era davvero. E non solo per la storia dell’arte cinematografica. Definiva i suoi film ‘cinema pittorico’, perché sapeva mescolare immagini e letteratura. Aveva una capacità di sintesi assoluta e diceva che l’unico vero realista è il visionario. È l’amico che mi manca di più. La sua amicizia è stata un grande dono”.

Vi vedevate spesso?
“Sì. Certi pomeriggi mi telefonava dalla sua casa in via Margutta e mi invitava a cena. Gli piaceva mangiare prestissimo, cenavamo con i camerieri, poi salivamo sulla mia Uno rossa tutta scassata e ce ne andavamo in giro per Roma. Davanti al colonnato di San Pietro mi chiedeva sempre di scendere. Da lui ho imparato tante cose”.

Ad esempio?
“Che bisogna calcolare bene i tempi di un addio o di un vaffa. ‘Se lo sbagli di un solo secondo, ti si potrebbe ritorcere contro’, mi spiegò una volta”.

Quando seppe che sarebbe diventato cieco?
“Se ne accorse mia madre. I miei genitori mi portarono da un oculista in Calabria, avevo 7 anni. Origliai da dietro la porta il verdetto del medico: ‘Diventerà cieco’”.

Ora cosa vede?
“Quasi niente. Per raccontare questa condizione ho coniato due aforismi. Il primo: ‘Omerico fui non per poesia ma per mancanza di diottria’. E quando mi chiedono della malattia rispondo così: ‘Non vedo una minchia di niente a qualunque distanza, ma non ho perso la speranza’. Chissà, magari, prima o poi, arriverà un collirio miracoloso in grado di rimettere a posto il mio nervo ottico malandato. Una volta chiesi a Camilleri, affetto come me dal glaucoma, detto anche ‘ladro silente della vista’, se esistesse un’arte del non vedere”.

Cosa le rispose?
“Mi disse questo: ‘Non lo so, ma t’invito a non perdere mai la memoria dei colori. Da quando vedo meno, i sogni che faccio sono diventati più vividi e i colori più accesi, come non li avevo mai visti con la vista naturale’. Aveva ragione”.

Per leggere come fa?
“Mi aiuto con gli audiolibri e per scrivere detto tutto a Siri. Però mi mancano moltissimo il libro come oggetto fisico e la scrittura”.

Adesso cosa sta leggendo?
“La biografia di Lucio Dalla di Ernesto Assante e Gino Castaldo. Hanno fatto un ottimo lavoro, proprio bravi”.

Il suo libro del cuore?
I fratelli Karamazov di Dostoevskij per la pietas dei suoi personaggi e la grande verità che contiene. L’ho riletto in vari momenti della mia vita e mi ha sempre colpito. È un classico senza tempo, e come tutti i classici ti sorprende sempre quando lo riprendi in mano”.

Il film?
La strada di Fellini”.

E la canzone?
Azzurro di Paolo Conte, cantata da Celentano”.

I rompiballe, i narcisisti, la vecchiaia che avanza. Con gli aforismi che pubblica su Instagram si toglie molti sassolini dalle scarpe.
“Sì (ride, ndr). Mi piace scrivere brevi pensieri, anzi stramberie, che mi passano per la testa. Sono frasi di due righe e in rima. In genere gli aforismi sono sentenziosi e austeri, a me piace scriverli in maniera giocosa. Da quando ho cominciato a perdere la vista, mi si affacciano pensieri brevi, improvvisi, che nascondono sempre un lampo di realtà o un piccolo insegnamento ironico. Tre anni fa ho scritto un libro di aforismi, Scritto a mano pensato a piedi. Ecco, è il titolo che sintetizza perfettamente questo mio lavoro”.

Quanti libri ha scritto?
“Non li ho mai contati”.

Sono sessantaquattro. A quale è più affezionato?
Strip Strip hurrà!, Favoletta ristretta si fa leggere in fretta e Romanzetto esci dal mio petto, tutti pubblicati da Einaudi. Insieme, compongono una piccola trilogia dove racconto le avventure di Annibale, barbiere mancato e un po’ strambo, che sogna di diventare aiuto-spogliarellista, e dei suoi improbabili, picareschi compagni di viaggio”.

Il suo primo giorno in Rai?
“Mi sembrava di essere arrivato a Disneyland. Era il 25 febbraio 1980, avevo 27 anni. Due giorni dopo fu assunto Enrico Mentana. Vedevo tanti volti famosi del giornalismo e della tv, solo respirando imparavi tante cose”.

Quanti direttori ha avuto nella sua carriera?
“Ventisette. Enzo Biagi era un maestro nell’insegnarti senza insegnare. Una volta a Linea diretta mi chiese di intervistare Paulette Goddard. Mi diede un numero di telefono. Rispose una donna, credevo fosse la colf: ‘Di che cosa vorrebbe parlare con la signora Goddard?’. E io: “Di Tempi moderni, di Charlie Chaplin’. Chiacchierammo per un po’. Alla fine mi lasciò di sasso: ‘Non do interviste, il signor Biagi lo sa’. Andai da Enzo tutto mogio e gli dissi che era stata lei a fare il terzo grado a me e che con i giornalisti non parlava. ‘Certo’, rispose Biagi, ‘ma nelle interviste bisogna cominciare da Dio. A scendere si fa sempre in tempo’”.

Quanti Sanremo ha seguito?
“Trentanove in carne e ossa, più uno, l’ultimo, da ologramma. Il Festival unisce l’Italia, lo seguono tutti, vip e persone comuni. Luchino Visconti andava a vederlo con la Magnani a casa di Lello Bersani. Quella del ‘99 fu l’unica edizione in cui cantai durante l’intervista a Gorbačëv, uno dei superospiti di quell’anno”.

La sua prima volta agli Oscar del cinema se la ricorda?
“Come no? Era il 1989. Vinse Peppuccio Tornatore con Nuovo Cinema Paradiso dopo diciassette anni che l’Italia non vinceva nulla. Il telecronista della serata era Paolo Bonolis. Io lo seguivo per il Tg1 con Lello Bersani, il primo cronista ad aver raccontato il mondo dello spettacolo al telegiornale. Quando andò in pensione, mi mise in mano la sua agenda: ‘Vedo in te il mio erede, copia i numeri che ti servono’. Li trascrissi tutti sulla rubrica che uso ancora oggi. Morti inclusi, da Roberto Rossellini a Totò, non si sa mai. Un giorno quando dovevo fare un servizio su Anna Magnani, chiamai il suo numero e rispose il figlio Luca”.

E il Festival del Cinema di Venezia?
“Trentasette, il primo nel 1982. Una volta stavo tornando a Roma e in aereo, accanto a me, c’era una bambina che tirò fuori il numero di Topolino con l’episodio di Paperino e Vincenzo Paperica alla Mostra del Cinema di Venezia intitolato Pedate da star. Rideva tantissimo, alla fine le chiesi se gli era piaciuto e mi disse di sì: ‘Ma lo sai che Paperica sono io?’. Dopo avermi guardato con perplessità replicò: ‘Tu non puoi essere Paperica’. All’uscita mi chiese il nome. Le dissi: ‘Sono Vincenzo Mollica’. E lei se n’è andò tutta contenta: ‘Allora lo vedi che non sei Paperica?’”.

Ma è vero che ha dettato il suo epitaffio a sua moglie Rosemarie?
“Sì. Quando vado al cimitero guardo i loculi e capisco che nessuno degli interessati ha scelto la foto per la lapide. Allora, per dare un tocco di colore voglio un primo piano di Paperica con questa dicitura: ‘Qui giace Vincenzo Paperica che tra gli umani fu Mollica’. Mi sembra l’epitaffio migliore”.

Crede in Dio?
“Sì, ma non riesco a immaginare il dopo, mi andrà bene quello che troverò”.

L’intervista che avrebbe voluto fare e non ha fatto?
“Tantissime”.

Me ne dica tre.
“Charlie Chaplin, Picasso e Giovannino Guareschi, perché la saga di Don Camillo e Peppone è la radice quadrata dell’Italia”.

Se dovesse intervistare Dio cosa gli chiederebbe?
“Quando si arriva al suo cospetto le domande sono già finite”.

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