Adriano Pugno e Vittorio Polieri, autori di “Perché Sanremo è Sanremo – Guida sentimentale al Festival e al suo pubblico”, hanno selezionato per ilLibraio.it alcune delle canzoni della storia del festival ispirate dalla letteratura: dalla Bibbia alla Commedia dantesca, passando per grandi classici come “Il mago di Oz” e “Alice nel paese delle meraviglie”, senza dimenticare alcune celebri poesie d’amore (Neruda, Borges e Catullo…)

In Perché Sanremo è Sanremo – Guida sentimentale al Festival e al suo pubblico (Edizioni Epoké), Adriano Pugno e Vittorio Polieri raccontano il celebre festival della canzone italiana non solo come fenomeno musicale e di costume, ma anche come rifugio di una generazione: sono i trentenni ad aver salvato il Festival o è il Festival ad aver salvato loro?, si chiedono gli autori.

Qui di seguito, per ilLibraio.it, Pugno e Polieri hanno selezionato alcune delle canzoni della storia del festival ispirate dalla letteratura.

Perché Sanremo è Sanremo

di Adriano Pugno e Vittorio Polieri

Se Ennio Flaiano diceva di non aver mai visto “niente di più anchilosato, rabberciato, futile, vanitoso, lercio e interessato” e Pier Paolo Pasolini ne parlava come di un evento “che deturpa irrimediabilmente una società”, per Marcello Veneziani il Festival di Sanremo è addirittura “l’autobiografia di una nazione“.

Questa breve panoramica sulle recensioni della più importante manifestazione canora italiana, ci dà una sintesi caustica del Festival e del suo pubblico. Ed evidenzia, ovviamente, il rapporto agrodolce tra gli scrittori italiani e l’appuntamento televisivo per eccellenza.

Fin dagli albori, il Festival della canzone italiana ha sempre proposto brani orecchiabili, popolari, che tendevano ad assecondare il gusto del pubblico anziché formarlo. Le canzoni vincitrici che non vertono sull’amore sognato, perso o riconquistato sono pochissime; il linguaggio colloquiale e rassicurante sempre più spesso sacrificato per la performance scenica. Sono poche le edizioni che hanno cercato di coinvolgere sul palco dell’Ariston la scena intellettuale italiana.

Letteratura e musica non dialogano molto a Sanremo, e le poche reminiscenze sono limitate alla tradizione letteraria più conclamata.

Non è un caso che il testo più citato sia il longseller per eccellenza, la Bibbia. Negli anni Cinquanta, mentre Nilla Pizzi vinceva la prima edizione del Festival con Grazie dei fiori, più di un italiano su dieci era analfabeta, e spesso le uniche esperienze di lettura si limitavano alla domenica con i testi sacri. Insomma, Sanremo non poteva che essere, a suo modo, un Festival casa e chiesa.

Tra i primi a citare un episodio biblico Sergio Endrigo, che nel 1970 porta in gara L’arca di Noè. Il riferimento biblico è però ancorato all’attualità, con un testo di stampo ecologista:

Un toro è disteso sulla sabbia
e il suo cuore perde cherosene.
A ogni curva un cavallo di latta
distrugge il cavaliere.

Quasi 50 anni più tardi, anche Annalisa, come Noè, deve affrontare Il diluvio universale. Inutile prendere l’ombrello: il suo è un diluvio di parole e di consapevolezza sulla vita e, ovviamente, sull’amore.

Eros Ramazzotti nel 1984 vince le Nuove Proposte conducendo il pubblico, novello Mosè, nella Terra promessa, dove il Regno di Israele viene rimpiazzato da una meno anacronistica America. Paragone blasfemo?

Niente al confronto di Lucio Dalla, che dà scandalo proponendo per la 21esima edizione del Festival un brano dal titolo Gesubambino, che la censura fa cambiare in 4/3/1943, cancellando i riferimenti a puttane, ladri e mamme che giocano a fare la Madonna.

Ma i tempi cambiano, se in Vincere l’odio Elio e le Storie Tese riescono a ironizzare persino su San Paolo, “ebreo ellenizzato di Tarso”, che perseguitava i cristiani prima che gli apparisse il Signore “e giustamente lui ti ha detto stop”.

Scherza coi fanti e lascia stare i santi, verrebbe da dire. Ma a Sanremo, che non è un santo a dispetto del nome, la musica è una cosa serissima, e i riferimenti letterari sono più vicini al catechismo che ai poeti maledetti.

La seconda opera più citata, infatti, non può che essere la Commedia dantesca. Roberto Benigni, uno che il Sommo lo ha studiato a fondo, nel 2002 aveva portato sul palco dell’Ariston addirittura L’inno alla Vergine dal canto XXXIII del Paradiso.

Le tre cantiche dantesche sono equamente citate nella Città dei Fiori. Per l’Inferno Elio e le Storie Tese presentano una versione rinnovata della “perduta gente” con Dannati forever, proponendo per alleviare il contrappasso una “crema protezione totale contro il fuoco infernale”. Il Purgatorio è evocato da una vincitrice di Sanremo, anno domini 2008: Colpo di fulmine di Giò di Tonno e Lola Ponce, infatti, doveva essere parte integrante di un musical su Pia de’ Tolomei, che non ha mai visto la luce. Per concludere il viaggio verso le alte sfere non poteva che esserci Gianluca Grignani in Destinazione Paradiso, il suo più grande successo. Molto rock e poco dantesco, è vero, ma quel viaggio che ha “senso solo senza ritorno se non in volo” non ricorda un po’ l’uscire “a riveder le stelle” che precede l’ascesa al regno celeste?

Ma a Sanremo coesistono sacro e profano.

Dai tempi di Papaveri e papere, una favola musicata che è rimasta nel cuore di tanti bambini, sono innumerevoli i riferimenti delle canzoni sanremesi alle storie per l’infanzia. Per Alexia e Mario Lavezzi, Mogol firma il brano Biancaneve, facilmente associabile alla controparte disneyana. Un personaggio che affascina tutti tranne la stessa Alexia, che ha ben altri riferimenti in testa:

Biancaneve vuoi dirmi chi è?
Lo sai anche tu centra poco con me!
Forse una strega mi sento semmai,
si addice di più, lo pensi anche tu.

Prima della vittoria con L’Essenziale (2013), l’esordio sanremese di Marco Mengoni era stato Credimi ancora, che cita la dimensione allucinata di Alice nel paese delle Meraviglie, di cui l’artista viterbese si incorona “re matto” – una versione maschile della famigerata regina di cuori, in uno strano labirinto fatto di trasformazioni e regole fatte per essere stravolte.

Irama, invece, cita il Magico mondo di Oz ne La ragazza con il cuore di latta: se l’uomo di lamiera della favola di Baum cercava il suo cuore, la ragazza del brano di Irama è una sua ammiratrice, in carne e ossa, che ha urgente necessità di un pacemaker.

Ma i parolieri attingono a un repertorio libresco molto più vario e inaspettato: non solo i tomi polverosi che hanno forgiato la cultura occidentale, ma anche canzonieri, romanzi di genere e testi teatrali, con l’ambizione di fare un passo oltre la rima cuore-amore.

Nel 1991 l’esordiente Irene Fargo conquista la medaglia d’argento nella Sezione Novità (uno dei tanti nomi delle Nuove Proposte) con La donna di Ibsen, seconda solo a un Paolo Vallesi in versione instant-cult. Il titolo del brano glielo suggerisce il papà, che nella storia di un amore accogliente come la bonaccia ritrova la Ellida Wangel de La donna del mare (1888), il racconto di una borghesia alle prese col miraggio di una vita nuova.

I versi di Baudelaire e Verlaine, nel 2001, non riescono a evitare l’ultimo posto ai Bluvertigo, che debuttano nella Sezione Campioni con un pezzo fuori dagli schemi, L’assenzio (The power of nothing). È l’anno di Luce (tramonti a nord-est) e Di sole e d’azzurro, e Morgan con l’ombretto fucsia suona pianoforte e basso senza ambizioni d’alta classifica: “solo la poesia ispira poesia”, scriveva Ralph Waldo Emerson, ma la band ha composto il brano sotto gli effetti dell’alcol e sul palco dell’Ariston fanno marameo ai benpensanti.

Di tutt’altro respiro, nel 2011, la performance di Roberto Vecchioni, che vince a sorpresa il primo Festival targato Morandi con la sua Chiamami ancora amore, una canzone di speranza che non solo cita Neruda, “il poeta che non può cantare”, ma celebra l’amore universale e incoraggia:

tutti i ragazzi e le ragazze
che difendono un libro, un libro vero:
così belli a gridare nelle piazze
perché stanno uccidendoci il pensiero.

Altissime, addirittura, le reminiscenze di altri due successi festivalieri: nel 2017 Francesco Gabbani stravince la gara con Occidentali’s Karma, una delle due o tre canzoni dell’ultimo decennio che tutti ricordano al volo, insieme a Soldi di Mahmood e al jingle di una nota compagnia telefonica che faceva “Scivola scivola scivola”.

Il cantautore carrarese, per cui si sprecano i paragoni con Battiato, cita nel ritornello un’opera cruciale del Novecento, La scimmia nuda dello scienziato inglese Desmond Morris, che definisce l’uomo come un primate a tutti gli effetti, solo più consapevole e (nella maggior parte dei casi) meno peloso.

E che dire delle strofe di Mi farò trovare pronto di Nek (2019), che con un salto carpiato passa dal rimpianto petrarchesco di Laura alla poesia È l’amore di Jorge Luis Borges, che sente il cuore stretto dal più nobile tra i sentimenti:

Stare con te o non stare con te è la misura del mio tempo.
È, lo so, l’amore.

In un Festival che riflette il gusto del Paese, non può mancare il richiamo alla letteratura popolare, a romanzi e racconti di genere che hanno precorso il piccolo schermo, o ne sono stati per decenni la migliore alternativa, prima che il catalogo – un tempo solo cartaceo – diventasse sinonimo di archivio on demand.

Nel 2011 il cantautore brianzolo Davide Van de Sfroos – letterario già nel nome, che in dialetto significa “vanno di frodo, di contrabbando” – porta a Sanremo una ballata folk rock dedicata a Yanez de Gomera, braccio destro di Sandokan nel ciclo indo-malese di Salgari, che immagina invecchiato a godersi il sole della riviera romagnola insieme a Tremal-Naik, James Brooke e la perla di Labuan. E quanta amarezza nei versi di Signor tenente (1994), che denuncia lo sgomento delle forze dell’ordine italiane di fronte alla stagione delle bombe di Capaci e via D’Amelio: il brano, forse, non avrà un’ascendenza libresca – semmai cinematografica, visto che cita Mediterraneo di Salvatoresma viene scritto e interpretato da Giorgio Faletti, tra i più acclamati romanzieri di inizio millennio, che rielabora la forma-canzone in un testo di impegno civile.

Nel 2019, invece, Anna Tatangelo non va oltre il 22° posto con Le nostre anime di notte, ma in questo caso il riferimento a Kent Haruf pare quantomai casuale.

Raramente il Festival è riuscito ad attirare le simpatie dell’intellighenzia, che con una punta di snobismo ha sempre derubricato i brani sanremesi a genere di consumo – tranne, forse, Umberto Eco, che per primo in un articolo su Rinascita scrisse che “non è necessario che intrattenimento ed evasione, gioco, ristoro siano perciò stesso sinonimo di irresponsabilità, automatismo, qualunquismo, ghiottoneria sregolata”, o perlomeno non sempre.

Sanremo è quel posto dove, in barba ai critici, Celentano può cantare 24.000 baci ed evocare il carme V di Catullo. È il palco su cui Renzo Rubino, nel 2013, ha sublimato la storia di Paul, ex postino che cambia identità per amore di Rat-Man, diventando Cinzia Otherside. Non è detto che tutti colgano la citazione al primo ascolto, ma non si raccoglie senza una buona semina. Tanto più nella Città dei Fiori.

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