In una suggestiva alternanza di storie e di storia, di piccoli episodi quotidiani e di enormi stravolgimenti collettivi, scorre il nuovo romanzo-fiume della scrittrice tatara Guzel’ Jachina, intitolato “Figli del Volga”. E lo fa con quella circolarità e immediatezza di cui solo i racconti epici sanno vestirsi, in una pastosa esposizione quasi priva di dialoghi, che tuttavia rapisce più del canto di una sirena – L’approfondimento

C’è un posto, poco lontano dalla steppa, in cui il corso della vita è scandito dal corso di un fiume. Le abitudini, la mentalità, le case, la lingua: decide tutto la riva su cui si nasce. Un mondo qua, un mondo là. Vicini, eppure incapaci di toccarsi.

Fa eccezione un maestro che un giorno viene traghettato dall’altra parte per dare lezioni a una giovane sconosciuta, anche se più che un’eccezione sembra l’eco di tante storie che conosciamo già: quella di Pigmalione, per esempio, o dell’ennesima principessa nascosta alla vista maschile perché se ne preservi la purezza – per non parlare della stessa favola di Amore e Psiche.

Copertina del libro Figli del Volga

All’inizio, quantomeno, sembra ruotare attorno a questi nuclei Figli del Volga (Salani, traduzione di Claudia Zonghetti), nuovo romanzo della scrittrice, giornalista e sceneggiatrice tatara Guzel’ Jachina, che con l’esordio Zuleika apre gli occhi (Salani, traduzione di Claudia Zonghetti) ha già riscosso  successo in patria e vinto importanti premi.

Dopodiché, le vicende del maestro Jakob Bach e della sua Klara, che presto diventa per l’appunto sua, quando scappa dalla famiglia e sceglie di inseguire la libertà al di là del Volga, lasciano i binari appena descritti per percorrerne diversi altri in compagnia di personaggi secondari sempre spiazzanti.

Così, la leggenda della vergine prigioniera smette di rispecchiare la quotidianità di Klara, che suo malgrado a un certo punto diventa una serva alla mercé di un animalesco istinto maschile e che infine lascia la sua pelle da bruco per distendere le ali in quel nuovo microcosmo al di là del Volga, dando alla luce la degna figlia di tutte le contraddizioni locali.

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Intanto, le carte in tavola cambiano anche per il maestro Bach, che da pavido ma altruista cittadino si trasforma in un contadino solitario e diffidente, incapace di riaprire bocca dopo i drammi a cui ha assistito e di conseguenza altrettanto incapace di insegnare a parlare a sua figlia, dopo una vita passata a istruire la sua comunità.

Come accade anche nelle novelle de Le mille e una notte, il rapporto fra i due si sviluppa grazie a un linguaggio “di respiri e gesti“, anche se nel momento in cui la comunicazione non è più una risorsa a sua disposizione, bensì una barriera tra la sua mente e tutto il resto, il maestro rischia di perdere tanto Klara, quanto la piccola Annchen.

In questa suggestiva alternanza di storie e di storia, di piccoli episodi quotidiani e di enormi stravolgimenti collettivi, scorre il romanzo-fiume di Jachina. E lo fa con quella circolarità e immediatezza di cui solo i racconti epici sanno vestirsi, in una pastosa esposizione quasi priva di dialoghi (se escludiamo poche battute pronunciate per scopi pratici, e spesso in una lingua spuria), che tuttavia rapisce più del canto di una sirena.

Niente di strano, quindi, che le oltre 500 pagine del volume scivolino in fretta come piccole cascate, travolgendo con la forza di un vortice le cui onde velano e svelano la trivialità di certi rapporti sociali, l’esclusività su cui si regge l’intimità tra due persone, o le maniere sgangherate attraverso le quali si cerca di sentirsi a proprio agio con gli altri, a costo di sacrificare sé stessi o ciò in cui si crede.

Ecco qual è dopotutto la forza del libro, pronto a cambiare paradigma un capitolo dopo l’altro: attingere a un patrimonio narrativo universale, per poi rielaborarlo cucendo la trama insieme a dei fili d’oro mai visti prima, strazianti e tipici delle zone rurali di una Russia di cui da noi non si sente quasi mai parlare, quantomeno non in riferimento alla prima metà del Novecento e fuori dalle sue grandi metropoli.

Primo piano della scrittrice Guzel' Jachina, autrice del romanzo I figli del Volga

Guzel’ Jachina

Un anno dopo l’altro, seguiamo allora la navigazione a vista di un uomo che a ognuno di questi dà un nome evocativo (come l’Anno dei Ritorni o l’Anno del Grano Nascosto) e che reagisce alla realtà inventando personaggi di carta alternativi, pure quando sa fin dall’inizio che l’epilogo non piacerà al suo committente.

Nella sua esistenza, d’altronde, non c’è spazio per il moralismo, né tantomeno per una nuova era politica davanti a cui inginocchiarsi. E mentre le fiabe che scrive come un ghostwriter di altri tempi cominciano a preannunciare inspiegabilmente i lenti e gravi passi della Storia che stanno incombendo sul Paese, Bach capisce di non distinguere quasi più la verità dal surrealismo della sua penna, e le sue pulsioni egoistiche dall’inesorabile fluire della vita.

Il risultato è un confronto generazionale spietato, nel quale i grandi ideali collettivi dialogano con le poche pretese individuali, il gergo dei giovani suona come una lingua straniera ai più anziani, e le premesse dell’opera crollano sotto il peso di un mondo troppo ottuso, troppo sfuggente, che ha paura di guardare la propria immagine riflessa e che a un alveo profondo preferisce un letto superficiale qualsiasi su cui adagiarsi.

Così, alla fine del viaggio maturiamo l’idea che ogni terra, ogni anima, ogni fiume stiano in bilico sopra delle sabbie mobili – come anche ogni lotta personale o collettiva. E se a un certo punto affonda tutto, e ogni velleità a cui ci aggrappavamo viene ridotta in cenere, cosa c’è di meglio del “meticoloso lavoro di ricostruzione di una storia polverosa per contrastare il disordine e l’anarchia?“.

Se a guidarci fra le sue anse è Guzel’ Jachina, probabilmente quasi niente.

Fotografia header: GettyEditorial 18-08-2021