La vita che scorre nelle pagine dell’autobiografia di Francesco Totti scritta con Paolo Condò è parte di un puzzle in cui ognuno di noi trova almeno un tassello che gli appartiene
Elena Marinelli ha letto per ilLibraio.it “Un capitano”, il racconto romantico di un calciatore-simbolo per un’intera generazione di tifosi

«Ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere.
Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa.
E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. Questi sono i profeti. I poeti del gioco.»

(Osvaldo Soriano, Fùtbol. Storie di calcio, Einaudi 2006.
Trad. it. Glauco Felici e Angelo Morino)

Lo spazio di Francesco Totti sta fra le linee, in mezzo a un punto di scompiglio tra campo e immaginazione collettiva. Terra dei campi da calcio e minimo comune denominatore di un’intera generazione di tifosi: la mia. Non che non abbia estimatori di ogni età, ma indubbiamente, se una generazione esiste, la mia è quella di Francesco Totti.

Non abbiatene a male.

È una questione anagrafica, ovviamente – abbiamo dieci, undici anni intorno alla prima metà degli anni Novanta, quando lui esordisce nel 1993 – una questione Mondiale – il «nostro» è indubbiamente quello del 2006 – e una questione più propriamente romantica.

UNA STORIA ROMANTICA

Quando Francesco Totti mette piede, letteralmente, in serie A io ho undici anni, ho da poco iniziato a seguire le partite di calcio e sto attaccata alla radiolina. Non gioco a calcio – sono una ragazzina e le ragazzine a metà anni Novanta possono giocare solo contro un muro senza farsi vedere – ma mi piacerebbe molto e quindi lo guardo: decido che Francesco Totti è il calciatore che vorrei nella mia squadra.

Il pensiero che matura nei primi anni che lo vedo giocare non mi abbandonerà mai. Lui è per i romanisti una passione fanatica e partigiana e per tutto il resto del mondo lo spettacolo che si è fortunati a guardare.

La questione anagrafica sta qui: la vita che scorre nelle pagine di Un capitano, l’autobiografia di Francesco Totti scritta con Paolo Condò (Rizzoli, 2018) è parte di un puzzle in cui ognuno di noi trova almeno un tassello che gli appartiene. Provate a chiedere a un romanista dov’era il giorno dello scudetto della Roma o dell’infortunio di Francesco Totti del 2006. Provate a chiederci dove eravamo il 9 luglio 2006.

Ogni capitolo di questo memoir inizia e finisce una storia specifica, professionale o personale, e a loro volta ognuna di esse incastona una dopo l’altra venticinque anni di carriera.

Si inizia dall’infanzia, dalle prime esperienze nei settori giovanili della Roma, per arrivare all’esordio in serie a meno di diciassette anni, fino a tutte le sfide vinte e perse con la sua Roma e in Nazionale da numero 10.

Ogni dettaglio concorre a definire il campione e ogni azione di gioco descritta porta a rivivere il calciatore: la soluzione improvvisata e geniale, il tocco straordinario, la meraviglia del gesto atletico. Emblematica è la narrazione della notte prima della finale Mondiale del 2006 e della partita, dei rigori che ci fanno campioni del Mondo, visti dalla panchina. È interessante il parallelismo che suscita: Francesco Totti li segue come ognuno di noi, da una posizione oggettiva, con la smania dei minuti infiniti che esplodono nel fragore totale: la questione Mondiale è questa vicinanza imprevedibile, tra noi e lui, l’eroe che ci si mette accanto, uno dei migliori di quella squadra che ci racconta perché abbiamo vissuto un momento di inebriamento collettivo.

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Un capitano è, dunque, il racconto romantico di un calciatore-simbolo per un’intera generazione di tifosi.

In senso figurato, romantico è colui il quale si dimostra incline alle suggestioni rispetto al razionale, chi è appassionato e sognante, e non pragmatico e la carriera professionale di Francesco Totti mostra un intuito e un animo eccezionalmente romantico.

Lo abbiamo sempre saputo, non lo ha mai nascosto, eppure leggerlo, condito di aneddoti, dettagli, sofferenze, gioie e qualche pentimento ricompone esattamente l’immaginario collettivo che gli ruota attorno. È una sensazione vivida che si fa certezza.

È un memoir composto da toni mai scontati, nonostante molti degli eventi raccontati si conoscono già perché sono parte di un certo racconto comune, che sostengono un punto di vista diretto, a volte genuino, altre istintivo, altre strutturato e compiuto.

Un capitano ha la capacità di tenere una squadra, guidarla, consigliarla ed è consapevole di essere un’eredità; la definizione di se stesso Totti la sintetizza con una lucidità invidiabile nel capitolo dedicato allo scudetto della Roma del 2001:

«Io sono stato questo. Io sono stato il gol dell’1-0 nella domenica più importante della nostra storia.» e più avanti: «Non ho vinto molto nella mia carriera. Ma l’intensità di quelle poche giornate di trionfo, in particolare di quel 17 giugno 2001, compensa ampiamente ogni deficit. La felicità non si somma, si pesa. Il capitano romano e romanista che guida la Roma allo scudetto è un concetto che trascende la pura gioia sportiva.»

PAPERELLE

La sensazione che la sua carriera sia stata orientata dal destino da quando il pallone rotolava tra i suoi piedi a otto mesi è un pensiero ingenuo, perché non rende giustizia al talento vero, fatto di innata predisposizione, ovvio, e di profonda consapevolezza. Non è capitato per caso, Francesco Totti, infatti sa molto presto di cosa potrebbe essere capace: tutto nasce dalla prima volta a Paperelle.

«Forse una prima forma di consapevolezza è arrivata con Paperelle, il gioco di mira che impari da bambino. […] È un esercizio semplice solo in apparenza, perché devi centrare una serie di bersagli in movimento. […] La prima volta che ci provo – avrò avuto cinque o sei anni – centro tutti i bersagli. Ricordo l’incredulità sul volto di Angelo e gli altri. “Rifallo”, dice qualcuno.»

Ovviamente ci riesce ancora.

L’AUTRICE – Elena Marinelli vive e lavora a Milano, ma è nata in Molise, vicino a un passaggio a livello. Ha scritto per Abbiamo le prove, l’Ultimo Uomo e Gli 88folli. Il terzo incomodo (2015) è il suo primo romanzo.
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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