Stando a una sentanza del Tribunale di Roma, una madre è stata condannata dal giudice a a cancellare dalla rete tutte le immagini relative al figlio di 16 anni (o, in alternativa, a pagargli una multa di 10mila euro). Il commento della scrittrice Roberta Marasco: “Sono convinta che ai bambini non interessi essere ritratti. L’unico sguardo che interessa davvero ai bambini è quello dei genitori…”

Nelle poche foto che ho di quando ero piccola, quelle che non sono sbiadite in un giallino verdognolo o piene di strane macchie marroni, in quelle poche foto c’è una cosa che mi sorprende ogni volta che me le ritrovo fra le mani: non guardo quasi mai verso l’obiettivo. Guardo a terra, guardo mia sorella, mi guardo le mani o le scarpe, guardo il povero asinello che ha tutta l’aria di volermisi scrollare via di dosso alla svelta. Nei rari scatti in cui guardo davvero verso la macchina fotografica ho la faccia imbronciata o leggermente sbigottita, come se stessi lanciando la mia muta protesta verso l’autore della foto o mi chiedessi dove accidenti è finito.

Del resto, fra i ricordi di infanzia, non ce n’è neanche uno in cui io mi faccia fotografare. Non ricordo di essere mai stata ritratta, o di avere mai visto i miei genitori scattarmi una foto, nonostante le immagini siano lì a dimostrare il contrario. Così, in quelle foto ingiallite, non è vedere me stessa che mi interessa. Quello che mi riporta davvero al passato, in quelle immagini, è ritrovare lo sguardo di mia mamma o di mio papà e dei miei nonni, quello sguardo intenerito e orgoglioso che posavano su di me quando il fotografo era troppo impaziente per aspettare che si voltassero.

Se ciascuno ha il suo equivalente della madeleine di Proust, il mio è quello: lo sguardo che mi rivolgeva mia madre, quando da me si aspettava solo che fossi sazia, ben coperta, beneducata e felice (non in quest’ordine), in poche parole, amata. E lo sguardo di mio padre nei momenti che regalava al volermi bene, quando da me si aspettava soltanto che lo amassi e lo adorassi tanto quanto lui amava e adorava me, l’unica persona che abbia mai conosciuto che abbia saputo trasformare così bene la giustizia in amore e viceversa.

Sono convinta che ai bambini non interessi essere ritratti. L’unico sguardo che interessa davvero ai bambini è quello dei genitori. L’obiettivo, nel momento in cui ne diventano consapevoli, diventa un’estensione dello sguardo della mamma o del papà. Dietro l’obiettivo di un genitore, quindi, dietro una macchina fotografica o un cellulare, a volte c’è un piccolo ricatto emotivo, di cui quasi sempre non siamo consapevoli. “Fatti fotografare” nel linguaggio di un bambino si traduce con “fatti voler bene”. “Fatti amare.” Dimostrati degno del mio affetto, ricambialo, dammi qualcosa in cambio di tutto quello che faccio per te.

Quanti bambini fanno le smorfie davanti all’obiettivo e quanti genitori li rimproverano esasperati? Forse dietro quelle smorfie c’è il rifiuto inconsapevole di cedere a quel ricatto emotivo. Forse sono una sfida, per avere la certezza che quell’affetto sarà sempre lì, nonostante tutto. Prova a volermi bene anche così, sembrano voler dire i bambini che storcono il naso e fanno le boccacce, mentre il resto della famiglia è in posa.

Non posso sapere se i miei genitori ai tempi dei social avrebbero postato le mie fotografie più imbarazzanti e i video dei miei momenti più intimi sul loro profilo Facebook o su Instagram. Non so se avrei rischiato di diventare virale per un balletto ridicolo e inconsapevole al concerto della scuola, per una smorfia buffa a quindici giorni di vita, per un pianto di gioia incontrollato davanti a un regalo speciale. Non posso saperlo e non lo saprò mai. Mi piace però pensare che mi avrebbero protetta come hanno sempre fatto con tutto il resto. Come mi hanno protetta dal freddo, dalle malattie e qualche volta anche dai dispetti altrui.

Eppure sono quasi sempre le madri a postare le immagini dei figli, quasi mai i padri. Sono le stesse madri che sono pronte a staccare un braccio a morsi all’amichetta che ha rubato il camioncino di plastica al pargolo scatenando un pianto incontrollabile; le stesse madri che leggono la lista degli ingredienti fino all’ultima minuscola riga per assicurarsi che non ci sia nulla che renda la salute della creatura poco meno che perfetta; le stesse madri che mettono in un angolo la maestra alla prima nota con il numero del provveditorato sul cellulare e il dito in agguato sul pulsante per far partire la telefonata. Perché, allora, quelle stesse madri non esitano a postare le foto e i video dei figli sui social? Perché non sentono di doverli proteggere anche dagli sguardi altrui, dal rischio di diventare virali, dalla violazione del loro diritto alla riservatezza?

Non sono psicologa e non ho risposte assodate e affidabili. Credo però che la risposta stia in tutte le immagini del profilo in cui la mamma compare con il figlio accanto, quando non compare il figlio soltanto, nonostante il profilo sia della madre. Penso che si stia perdendo il confine necessario che separa il figlio dal genitore, che in tanta ansia di prestazione e di perfezione materna (e paterna) si siano appannati e confusi i distinguo e i limiti indispensabili. Il che spiegherebbe forse il dilagare delle crisi d’ansia e di panico fra gli adolescenti, nel momento in cui quel confine diventa impossibile da ignorare e i ragazzi si ritrovano privi degli strumenti necessari per abitare il mondo in modo autonomo.

L’ordinanza del tribunale di Roma che ha fissato una sanzione di 10.000 euro per la madre che postava le foto del figlio sedicenne tutela la riservatezza e l’immagine del ragazzo, e al tempo stesso ristabilisce quel confine. Sarebbe bello che tornasse a essere più solido anche in altri ambiti: che per esempio i genitori si iscrivessero a un corso di inglese o di judo o di pianoforte, se proprio ne sentono il bisogno, invece di obbligare i figli di quattro anni ad andare a lezione appena usciti dalla materna; che mangiassero più sano o che almeno condividessero con i figli i cioccolatini e le merendine cacciati in fondo al mobiletto, invece di mangiarli di nascosto; che trovassero il modo di scendere a patti con il proprio bisogno di sentirsi protetti e al sicuro, invece di proteggere il figlio da minacce inesistenti; che si rassegnassero a una perfezione impossibile, invece di obbligare i figli a inseguirla al posto loro.

Sarebbe bello che invece di fotografare i figli e postare le loro immagini per parlare di sé, si ricordassero che molto di quello che conta davvero, per i figli, è contenuto e raccontato dal loro sguardo, non da quello dell’obiettivo. C’è una storia intera nello sguardo che noi genitori nascondiamo di continuo dietro il cellulare, per l’ansia di immortalare i figli alla prima occasione, e sarebbe bello recuperarlo e tornare a posarlo su di loro.

IL LIBRO E L’AUTRICE – Le regole del tè e dell’amore (in libreria per Tre60) è l’ultimo libro di Roberta Marasco. L’amore di Elisa per il tè risale alla sua infanzia. È stata sua madre a insegnarle tutte le regole per preparare questa bevanda e ad associare, come per gioco, ogni persona a una varietà di tè. Daniele, il suo unico grande amore, è tornato dopo tanto tempo. Ma Elisa ha imparato da sua madre a non fidarsi della felicità, a non lasciarsi andare mai, perché il prezzo da pagare potrebbe essere molto alto. Prima di tutto dovrà trovare se stessa, poi potrà capire se Daniele può renderla felice. Quando trova per caso una vecchia scatola di tè con un’etichetta che riporta la scritta ROCCAMORI, il nome di un antico borgo umbro, Elisa ne è certa: si tratta del tè proibito della madre, quello che le fece provare solo una volta e che, lei lo sente, nasconde più di un segreto. Forse proprio lì, in quel borgo antico, Elisa potrà trovare le risposte che cerca e imparare a lasciarsi andare e a fidarsi dell’amore, guidata dall’aroma e dalle regole del tè…

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