Il New York Times lo ha definito “il più grande autore vivente di cui la maggioranza della gente non ha mai sentito parlare”. Arriva nelle librerie italiane “Tamarisk Row”, romanzo d’esordio del 1974 di Gerald Murnane, scrittore ipnotico e indiosincratico, che propone un flusso di coscienza sullo sfondo di un’Australia selvaggia e polverosa. Un disegno letterario a forte valenza proustiana, come scrive su ilLibraio.it Mario Baudino – L’approfondimento

Il piccolo Clement Killeaton cresce in un’Australia rurale, povera, polverosa e – quanto meno per la comunità di origine irlandese in cui Gerald Murnane ambienta Tamarisk Row – clericale.

Politica, morale e frequentazione delle chiese rappresentano un sistema indissolubile, un dato di fatto non discutibile anche se non opprimente. Il parroco dà la sua benedizione, in modo un po’ gesuitico, anche alle scommesse sui cavalli, fonte di debiti e sostanziale miseria per la famiglia, mentre Clement si pone molte domande sulle bambine e su che cosa si nasconda sotto le loro mutande, senza il minimo senso del peccato.

È un libro inquietante; ci narra i sogni, i giochi, la scuola, i turbamenti di un bambino, e soprattutto la sua passione mutuata dal padre per i cavalli e le corse: ma non sappiamo bene, in realtà, che cosa davvero ci sta raccontando, forse un flusso di coscienza sullo sfondo di un’Australia selvaggia e polverosa, dove una paio di tamerici più che delimitare indicano orizzonti sconfinati e tutto sommato privi di senso; una natura aspra, talvolta colorata, talvolta grandiosa ma indifferente; verrebbe da pensare, leopardiana.

Gerald Murnane

Questo romanzo fu l’esordio, nel ’74, di un autore destinato a una modestissima fortuna persino nel perimetro del suo Paese, e che ora, ottantunenne, gode di una fresca riscoperta mediatica – da qualche anno anche e soprattutto critica ed editoriale, in Italia per Safarà, che ha puntato per tempo, e coraggiosamente, su di lui, nella traduzione qui di Roberto Serrai.

Il titolo gli viene dal nome di un cavallo che dovrebbe vincere le grandi corse, e i cavalli sono appunto al centro dell’immaginario e della vita in una comunità sperduta, subito dopo la guerra – i fatti narrati avvengono nel ’47 – dove non succede quasi nulla e il tempo sembra scandito ossessivamente, almeno per i personaggi coinvolti, dai concorsi ippici. Clement costruisce ippodromi con la sabbia del cortile, ascolta con attenzione emulatrice i ragionamenti del padre su scuderie e scommesse, sogna purosangue e gare, e a poco a poco ci trasporta in un mondo fantastico dove è labile il confine tra quanto accade e quanto viene immaginato.

Alla fine, l’ultima corsa, sarà nello stesso tempo il suggello ma anche il punto di ripartenza, in una circolarità tutta mnestica, di quanto è successo o forse non è accaduto affatto. Forse nemmeno l’ultima galoppata è reale, forse è stato solo il sogno o la visione di autore “implicito”, come si definisce Gerald Murnane nella prefazione. “Vorrei – scrive – che di Tamarisk Row si potesse dire che abbia dato vita al personaggio che ne è responsabile: al narratore attraverso la cui mente il testo viene filtrato”.

È un disegno letterario a forte valenza proustiana, che lo scrittore conferma per esempio in un saggio dedicato a Proust per il “Meanjin Quarterly “– rivista australiana di letteratura – in cui cita il noto passaggio del Tempo ritrovato, ultimo tomo della Récherche, quando il narratore fa ritorno dopo anni a Parigi e al palazzo dei Guermantes, dove il rito dei ricevimenti e delle feste è rimasto inalterato. Mentre attende di entrare in quella che ci sarà raccontata come una festa di spettri, tra maschere di personaggi irrimediabilmente invecchiati e sfigurati dal tempo o dall’artificio – tutto il brano gioca sull’ambiguità  –  inciampa su un una pietra del cortile e viene improvvisamente rapito dai ricordi. Per Murnane si tratta di “uno dei passi più grandiosi nel libro più memorabile che mi sia accaduto di leggere”.

Non sono certo gli ippodromi pur presenti in Proust quelli che gli interessano. L’atmosfera, il colore sono incomparabili, posto che da un parte c’è la Belle Epoque, d’altra una terra persino brutale, spietata, e indifferente ai suoi abitatori: alla Steinbeck per l’appunto, che l’autore certamente conosce e bene – ma a noi verrà magari alla mente il Cesare Pavese di Le feste, uno dei racconti di Feria d’Agosto, dove un cavallo da corsa è legato a eventi luttuosi, quasi portatore di una maledizione, e un ragazzo, Pino, dopo una gara “piangeva dalla rabbia di non essere un cavallo anche lui”. L’accostamento è puramente suggestivo, ma forse ci è utile per avvicinarci a un libro come Tamariske Row che sembra, oggi – ma si direbbe anche quando uscì – una gigantesca mitologia fuori dal tempo.

Il tema è stato in passato una presenza forte nell’immaginario, e quindi nella lettura. Si è citato Steinbeck, che nel romanzo Il cavallino rosso, del ’33, ci lascia un’immagine di frontiera eroica: “Un uomo a cavallo è spiritualmente e fisicamente superiore a un uomo a piedi”; si potrebbe fare altrettanto con un racconto giovanile di Hemingway (Il mio vecchio, del 1923, poi nei 49 Racconti) e persino, per tornare ancora in Italia, con La carriera di Pimlico, di Manlio Cancogni (gettone Einaudi del 1956).  Il fatto che ora il luogo letterario sembri lontano e quasi perduto rischia di spingerci a leggere Tamarisk Row come qualcosa di arcaico, o estremo, o “esotico”: ma ci farebbe capire poco, e in un certo senso lo snaturerebbe.

Gerald Murnane pare autore di chiarissima impronta modernista, che guarda non solo a Proust ma a Joyce o a Virginia Woolf, a un passo dal postmoderno ma pur sempre al di qua di un Pynchon o di un DeLillo. E in questo sta il suo fascino sorprendente, la riscoperta improvvisa dopo che persino in Australia, a quanto sembra, i suoi libri non venivano più ristampati da tempo. Il New York Times, nel 2018, quando un editore coraggioso lo ripropose destando un vasto interesse – e portandolo in America e Inghilterra -, lo definiva “il più grande autore vivente di cui la maggioranza della gente non ha mai sentito parlare”: per scoprire in Australia (continente da dove Murnane non si è mai allontanato, ed anzi ha pure assai poco percorso) resoconti e aneddoti circa la sua riservatezza un po’ beffarda, per esempio in occasione di un convegno a lui dedicato. Pretese che si svolgesse nel golf club di Goroke, la cittadina semideserta nel Sud Est del continente a molte ore di auto da Melbourbe, dove vive da tempo. Accolse gli ospiti accademici in veste di barman, dedicando scarsa attenzione alle dottissime relazioni.

È davvero un grande scrittore sfuggito per gran parte della vita a quasi tutti, lettori, media, persino critici, quel che il popolo degli addetti ai lavori sogna di incontrare almeno una volta nella vita? Alcuni suoi colleghi di gran nome, come J. M. Coetzee o Teju Cole – che lo paragona a Thomas Beckett – non hanno dubbi in proposito. Ma “grande”, in fondo, non vuol dire nulla, è una scorciatoia. È uno scrittore ipnotico e indiosincratico (lo dimostra un suo romanzo successivo, Le pianure, arrivato per primo in Italia sempre per Safarà), che sembra rifiutarsi alla convenzione del raccontare e poi racconta invece meravigliosamente, se pure in una dispersione atomistica, per brevi lasse (capitoli tutti titolati, talvolta in modo impercettibilmente straniante), per epifanie minime. Non c’è apparente formazione, non c’è esito e crescita o sviluppo o ridefinizione dei personaggi. Ci sono gesti di cauto assenso o di rinuncia in un eterno presente, ossessivo come il paesaggio che sta intorno, come le piccole avventure quotidiane di Clement, come le corse che non sono mai decisive, una vale l’altra, l’unica certezza è che si perdono dei soldi – non troppi, non da rovinarsi – e si resta, sostanzialmente, poveri e indifferenti, senza tragedia e senza esaltazione.

È una scrittura di contemplazione, una prosa ricca, articolata, complessa e vorremmo dire per certi versi lussuosa. Il lettore italiano – noi lettori lontani – alla fine non sa decidere se ci troviamo davvero in Australia, o in una colossale epica della mente (la risposta più ovvia sarebbe: in entrambe, ma esito a proporla, potrebbe essere riduttiva).

Siamo in presenza di un mondo tutto “implicito”, proprio come l’autore. E aggiungerei non tanto di un’epica, quanto di una interminabile, solenne elegia. Un’elegia selvaggia.

Libri consigliati