Da Emilio De Marchi a Matilde Serao, passando per Attilio Velardi e Ermanno Rea, e arrivando ai giorni nostri con Roberto Saviano, Diego De Silva e Maurizio De Giovanni. Su ilLibraio.it Anna Vera Viva, autrice del romanzo “Questioni di sangue”, ripercorre alcuni dei principali gialli ambientati a Napoli: “Nel luogo dove qualunque certezza si trasforma in un interrogativo. Dove il male, il bene, la verità e la menzogna sono, non l’altra, ma la stessa faccia della stessa medaglia. E dove, la libertà di scelta è privilegio di pochi”

La Napoli esportata, cantata e illustrata che spesso rappresenta uno stereotipo dicotomico di sdolcinature da una parte e criminalità dall’altra, sembrerebbe poco prestarsi a un tipo di narrativa che quasi sempre richiede asciuttezza e una maniera acuta d’interpretare il mondo. Questo perché quelle immagini, che tanto spesso ci sono state riproposte nel passato, poco hanno a che fare con una realtà fatta invece di un luogo che è un insieme di culture, sentimenti, arti e mestieri arrivati con le genti più diverse: ereditati, assimilati e mischiati in un calderone che impedisce una qualsiasi netta divisione in qualunque ambito.

Ed è così che in questa terra tutto è mescolato allo stesso modo e dalla dolcezza affiora il sanguigno, dalla melodia la passione e dal sentimento lo sguardo acuto e disincantato di chi osserva oltre. Questa perfetta miscellanea costituisce le fondamenta migliori dalle quali far scaturire ogni genere di narrazione.

E, che sia stata Napoli a dare i natali a un tipo di letteratura che non si era mai vista in Italia, lo testimonia il romanzo Il mio cadavere, scritto da Francesco Mastriani e pubblicato nel 1852 a puntate sul Roma e infine edito come romanzo nel 1853. Ponendosi tra Edgar Allan Poe che a Philadelphia nel 1841 aveva pubblicato I delitti della Rue Morgue e Wilkie Collins che nel 1868 pubblicherà a Londra La pietra di Luna, Mastriani crea un intreccio ricchissimo e appassionante che, pur se concepito più di cent’anni fa, si conferma attualissimo.

L’unica differenza rispetto alla produzione letteraria noir odierna la troviamo nell’assenza di un investigatore o simile che esegua le indagini. La narrazione, infatti, è in terza persona ed è affidata ad una figura esterna che, oltre a rendere partecipe il lettore delle azioni, delle considerazioni e dei pensieri dei protagonisti, presenta le numerose persone che si incontrano nel dipanarsi della vicenda.

Da quel momento dobbiamo aspettare 35 anni prima che Emilio De Marchi pubblichi nelle appendici del quotidiano milanese L’Italia del popolo, Il Cappello del Prete. Il romanzo, edito poi nel 1894 dall’editore Treves, conobbe un successo straordinario per un’opera italiana nata in una nazione dove il tasso di analfabetismo era altissimo. Tradotto, già prima della fine del secolo, in moltissimi paesi: dagli Stati Uniti alla Danimarca, testimonia la grande abilità dell’autore nel maneggiare trama e suggestioni restituendo, insieme alla vivace ambientazione napoletana, note che ricordavano i maggiori letterati internazionali e nazionali dell’epoca e sapori gattopardiani dal gusto inconfondibile.

Dopo il 1889 in cui Giorgio Addeo pubblica La testimonianza di un cieco, nella letteratura di genere si cimentano i personaggi più impensati: dal poeta Salvatore di Giacomo, che nel 1893 da alle stampe la raccolta di racconti Pipa e Boccale, a Matilde Serao, prestigiosa esponente del Verismo che, nel 1908, sorprende tutti con Il delitto di via Chiatamone. Romanzo di chiaro stampo appendicista, ricco di intrighi, amori, furti e vicende oscure in perfetto stile feuilletonista, nel quale si riconosce la grande scrittrice solo nelle parti descrittive che riguardano gli ambienti, i paesaggi della sua Napoli e quell’occhio di riguardo per la miseria del popolo.

Per un lunghissimo periodo, la letteratura gialla ambientata a Napoli, continua a fare apparizioni sporadiche e isolate.

È solo nel 1976 che Napoli torna a pieno titolo capitale della letteratura gialla, quando il raffinato traduttore dall’inglese e dalle lingue scandinave, Attilio Velardi, pubblica La mazzetta, romanzo scritto su insistenza dell’allora direttore della Rizzoli Mario Spagnol e che conobbe un successo immediato, vendendo 45000 copie in pochi mesi, tiratura d’eccezione per il periodo storico.

Con questo romanzo Velardi crea il personaggio di Sasà Jovine, finto avvocato, maneggione e simpatico sempre sull’orlo della legalità, al servizio di personaggi ambigui e in odore di camorra. Jovine, mai macchiettistico, ma descritto e scritto, in modo impietoso e tagliente, tra luridi affari, cadaveri, istinti famelici, inganni ed adulteri, insegue la sua “mazzetta”, la piccola percentuale che gli tocca per il disbrigo di un incarico poco pulito per il quale è stato assunto. Il riuscito personaggio tornerà in Uomo di conseguenza nel 1978.

Nell’Amica degli amici del 1984, Velardi darà vita al riuscitissimo Commissario Apicella. C’è da sottolineare che, in questa ambientazione Partenopea, nulla è mai ceduto al folclore e, l’autore, considerato forse il miglior giallista italiano nonostante una produzione ridotta di testi, ha il merito, oltre a quello indubbio di una scrittura superba, di aver stravolto il giallo italiano come lo si conosceva fino a quel momento, togliendo il crimine dai salotti per portarlo nelle strade e, più precisamente, tra i vicoli di Napoli. Molti dei suoi romanzi, hanno avuto una trasposizione cinematografica di grande e lungo successo.

Con gli anni novanta si accentua, nel panorama letterario, la necessità di reindagare gli accadimenti più oscuri della cronaca. Ermanno Rea nel ’95 scrive il capolavoro Mistero napoletano dove conduce un’indagine in forma di diario sulle ragioni del suicidio di Francesca Spada, giornalista culturale de l’Unità e critico musicale e dove la città diventa emblema dell’Italia intera, delle sue trasformazioni e delle contraddizioni che ne scuotono le fondamenta a partire dagli anni ’50.

Sempre negli anni ’90 Giuseppe Ferrandino da alle stampe Pericle il nero introducendo uno stile nuovo per la letteratura gialla napoletana, che vede nascere un romanzo che si muove tra il pulp e il noir americano. Il testo conosce vicende alterne, passato praticamente inosservato, viene invece ripubblicato da Gallimard conquistando il pubblico d’oltralpe e, a questo punto, ripubblicato da Adelphi e seducendo definitivamente critici e lettori nostrani.

Negli anni duemila la produzione letteraria giallo/noir napoletana si fa più intensa che mai.

Con il fortunatissimo Gomorra Roberto Saviano apre un filone di romanzi/inchiesta sugli aspetti più controversi che legano Camorra, economia e politica. Intanto, dalla bellissima penna di Diego De Silva nasce Il commissario Malinconico che in Non avevo capito niente ci presenta, per la prima volta, l’eroe che mostra le sue inadeguatezze, le imperfezioni, la buffa umanità crogiuolo di riflessioni forse ironiche ma profonde e a volte amare.

Ed è la volta di Maurizio De Giovanni che da vita alla fortunatissima serie del Commissario Ricciardi ambientata in un affascinante quanto buia Napoli anni ’30 con Le lacrime del pagliaccio e alla quale seguono le serie di ambientazione contemporanea de I Bastardi di Pizzofalcone , Mina Settembre, e Sara.

La produzione partenopea, che innesta in Napoli i suoi romanzi diviene a questo punto la maggiore e più amata letteratura gialla Italiana e arrivano a conquistare il mercato, oltre ai su citati autori che coprono tutti gli anni ’10 e ’20 degli anni duemila, Angelo Petrella, Patrizia Rinaldi, Serena Venditto, Diego Lama, Piera Carlomagno e il più divertente giallista di ogni tempo Pino Imperatore che fonde la sua lunga esperienza di scrittura umoristica con la più abile delle trame giallistiche.

E adesso?

Adesso, l’antica e sempre nuova energia che questa città infonde nei suoi abitanti, come per l’aprirsi di crepe che, pressate dal calderone sul quale giace, emettano a ritmo fiotti di cultura, arte e mistero ai quali nessuno pare riesca a sottrarsi, ha contagiato anche me.

E mi ha contagiata quando l’ho sentita emergere nella parte più vetusta e misteriosa della città. Nel quartiere che più d’ogni altro rappresenta le contraddizioni di Napoli e di tutto il genere umano. Nel luogo dove qualunque certezza si trasforma in un interrogativo. Dove il male, il bene, la verità e la menzogna sono, non l’altra, ma la stessa faccia della stessa medaglia. E dove, la libertà di scelta è privilegio di pochi. Così, nel Rione Sanità, un prete e un boss, fratelli di sangue ma non d’elezione, eppure legati saldamente dal loro appartenersi, si contenderanno la scena per la prima volta nel mio romanzo Questioni di Sangue.

Copertina del libro Questioni di sangue di Anna Vera Viva

L’AUTRICE E IL LIBRO – Anna Vera Viva è salentina, ma si trasferisce a Napoli nel 1982. Scrive da molti anni ed è sceneggiatrice di docufilm e cortometraggi tra cui La consegna, candidato al David di Donatello. Le sue passioni sono viaggiare e girare per musei e gallerie d’arte contemporanea. Soggiorna spesso a Parigi e tra le montagne abruzzesi.

Nel giallo Questioni di sangue (Garzanti) l’autrice rivela l’animo umano: l’eterno scontro tra bene e male avrà un sapore nuovo. La Sanità è un’isola. Un lungo ponte divide il rione dal resto di Napoli. È qui che dopo quarant’anni due fratelli si rincontrano. Raffaele, dopo essere stato adottato alla morte della madre, ci torna come prete nella Basilica di Santa Maria alla Sanità. Mentre Peppino è diventato il boss del quartiere.

Il richiamo del sangue fortissimo per entrambi è il cemento che li unisce. Un legame che diventa però fonte di pericolo e tormento per entrambi. Perché la morte arriva in uno dei palazzi della Sanità in cui viene trovato il corpo di Renato Capece, poliziotto corrotto che presta soldi a usura tenendo sotto scacco tutti.

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