Nella sua ironia affettuosa e sempre discreta, di libro in libro Margherita Oggero dimostra di essere sotto nuove forme la vera erede di Carlo Fruttero e Franco Lucentini…

C’è un poliziotto che mentre fa il suo mestiere (che altro? Indagare) pensa melanconicamente a una “spiaggia cosparsa di inutili relitti lasciati dal ritrarsi della mareggiata” e persino a “un osso di seppia” (sarà un caso?); e al momento in cui le indagini prendono la via maestra e tutto, dal più al meno, diventa chiaro, la scena si apre con “un frammento di roccia” che “si stacca dal costone nudo della montagna” e “precipitando smuove un pugno di neve”, preannuncio di valanga. Le metafore, in Margherita Oggero, sono sempre anche qualcos’altro: scenari di taglio metafisico, e soprattutto pezzi di narrazione…

La vita è un cicles

“Non c’è niente di male a scrivere gialli, se lo fa sufficientemente bene” riflette, a proposito di una prima edizione di Chandler, un detective bibliofilo inventato da John Dunning, peraltro libraio antiquario e scrittore, in quel piccolo capolavoro che è La morte sa leggere (Booked to die, pubblicato nel ’93 da Mondadori e nel 2011 da Rusconi con un titolo, Il detective che ama i libri, su cui ora sorvoleremo). Non solo non c’è niente di male, ma in tempi in cui non si fa quasi altro, con risultati spesso affrettati, il caso di Margherita Oggero dimostra come questa pratica possa essere persino meritoria. Non importa il genere, ma contano la scrittura, l’intelaiatura, insomma il libro.

La premessa è venuta un po’ lunga, ma forse non è del tutto inutile per arrivare a La vita è un cicles, l’ultimo romanzo uscito per Mondadori che se pure sembra scegliere con understatement tutto piemontese il “genere minore” rispetto al quasi virtuosistico Non fa niente (Einaudi 2017: dove c’è uno strepitoso montaggio dei tempi narrativi) conferma le doti letterarie sì, ma anche artigiane dell’autrice. Che forse ancora non vengono riconosciute appieno.

La vicenda in sé non è così importante, ognuno troverà in essa i suoi buoni motivi di intrattenimento, aspettando che gli si riveli chi ha ucciso e sfigurato uno sconosciuto nel retro di un tristissimo bar di corso Vercelli, a Torino, peraltro chiuso regolarmente la sera prima dal figlio del proprietario e trovato senza segni di effrazione, il mattino dell’imbarazzante scoperta, da un giovanotto laureato in lettere antiche che per arrotondare fa il “bartender” in nero, nella prima fuligginosa ora di apertura al pubblico.

Si parte con un classico, un enigma della camera chiusa, e si procede per le periferie torinesi, fra antichi immigrati veneti che gridano al “pastrocio”, piccoli malavitosi locali, studentesse almeno in un caso troppo belle, slot machine, un antico gentiluomo in sedia a rotelle, moderni tipacci con legami all’Est. Va da sé che il vero protagonista è Massimo, il neolaureato, che guarda tutto con un misto di trepidazione e distacco, e non si azzarda a fare anche lui il detective, come luogo comune richiederebbe. Cicles si diceva e in molti casi ancora si dice per Chewing-gum, gomma da masticare. È dal punto di vista lessicale un fossile vivente, arrivato con gli americani nel ’45. Ed è proprio quello lessicale un ottimo punto di vista per leggere la Oggero.

Diventata celebre con le avventure della professoressa Baudino (ogni riferimento a chi qui scrive è puramente casuale) e le serie televisive che ne sono derivate, è riuscita a non essere divorata dal suo personaggio, lasciandolo infine andarsene per i fatti suoi, qualche anno fa, e concentrandosi su Torino, perlustrandone le vie, i caratteri, le “madamin” (di questi tempi assai attuali) e le popolane, senza dimenticare le “truzze”, in questo libro la bella Sabrina, infermiera in un clinica per anziani, “rispetto per l’ortografia zero” come rivela il colto antichista-barista Massimo, ma gran buon senso e una non indifferente capacità di valutare le persone apprezzandone i lati positivi anche quando sono molto parziali – nel caso del suo fidanzato Gerry, emerito ma non del tutto sprezzabile tontolone, principalmente attinenti le posizioni orizzontali.

Nella sua ironia affettuosa e sempre discreta, la Oggero dimostra di libro in libro di essere sotto nuove forme la vera erede, come si è pure qualche volta osservato, di Carlo Fruttero e Franco Lucentini; e non solo per l’assonanza quarant’anni dopo tra  l’«Omioddio mioddio» di Camilla Baudino e l’«Oh mi povradona» di Anna Carla Dosio nella Donna della domenica. Se servissero esempi se ne potrebbero fornire in bel numero. Ma basterebbero già i battibecchi tra gli inquirenti, o le rimuginazioni del commissario Gianmarco Martinetto, uomo perplesso per eccellenza riguardo soprattutto ai rapporti amorosi, che per certi aspetti non è lontano dal suo collega Santamaria nella Donna della Domenica e in A che punto è la notte; o i flash sul mondo dei nuovi, minacciosi ricchi in odore di delinquenza; o i dialoghi tra Massimo e Gilda, la sua provvisoria femme fatale, dove si paragona il corteggiamento “agli amuse bouche che gli chef accorti ti fanno servire prima ancora delle ordinazioni: spesso sono la cosa migliore del pasto”. O ancora l’onnipresente fantasma del “balengo”, che affiora or qui or là; e soprattutto la difficoltà di dare un senso all’innamoramento. Per molti aspetti La vita è un cicles è una storia di amori (al plurale). Quanto al giallo, sembra suggerire la Oggero, lo scioglimento ci sarà, è inevitabile, ma senza ulteriore didattica. Ognuno è libero di trarre le sue conclusioni come gli pare.

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