È difficile inquadrare un’opera come quella di Giovanni Testori (che oltre che scrittore, è stato anche pittore e critico d’arte), e non stupisce che, solamente in occasione del centenario della nascita, Mondadori gli dedichi finalmente un Meridiano di Opere scelte. Parliamo infatti di un autore anticanonico, che non ha mai smesso di sperimentare. Una scrittura, la sua, all’insegna della sregolatezza, dell’anticanonicità, talvolta della schizofrenia. Senza dimenticare gli aspetti “scandalosi” (proprio l’omosessualità, non dell’uomo, ma dell’opera, è forse l’elemento che a rileggere oggi Testori stupisce di più) e le sue prese di posizione controverse…

Nella prefazione a La Lombardia, antologia a cura di Francesco Maria Lanzi, uscita nel 1977 in formato gigante e in edizione di pregio, Alberto Arbasino contorna, forse nella maniera più chiara nella grande mole dei suoi scritti, la sua concezione dello “spirito” lombardo, conteso e animato dai due opposti di quell’illuminismo razionale,  che sconfina nell’etica del danè e del laurà, e, dall’altro, una sotterranea, carsica, bile nera: “Panettone, panerone e lutto”.

Questa vena di tragicità occulta, secondo Arbasino “pressoché inavvertibile dietro il convenzionale sipario di cotolette e risotti e ottimismo vociante e Madonnina sorridente e Bohème alla Scala”, traccerebbe una linea continua su cui si dipana tutta la maggiore letteratura lombarda, almeno dal Parini per arrivare, passando ça va sans dire per Gadda, all’Ambleto di Testori (“che rimesta siringhe e Ofelie in fondo alla peccaminosa melma metropolitana”, come si legge nell’introduzione alle opere scelte di Carlo Dossi del ’99, sempre a firma Arbasino); è uno spirito, anzi uno Spirito, quello lombardo, “autentico”, “di sempre”, cupo, nordico, tormentato “come un ritratto di Fra Galgario o Moroni o Ceruti, come un personaggio di Testori, perseguitato da venature di giansenismo e controriforma che gli rovinano il piacere d’ogni cosa celtica o pagana che fa”.

meridiano Testori

Che siano proprio i nomi di tre pittori a precedere quello di Giovanni Testori non è un caso. Nel 1945, a soli venticinque anni, quando pubblica la poesia Coro della sera sul Politecnico di Elio Vittorini, la nota redazionale lo presenta come “pittore” – nello stesso anno alcuni suoi disegni erano comparsi in un’edizione illustrata delle Laudi di Jacopone da Todi.

Ma forse è soprattutto la sua attività di critico e curatore d’arte a essere ricordata, in particolare per la passione data allo studio e alla diffusione dell’arte lombarda, animata, è chiaro, da quello “spirito” così chiaramente messo in luce da Arbasino, e di cui va ricordata almeno la passione, di Testori s’intende, per quella stupefacente operazione del Sacro Monte di Varallo (cui Testori ha dedicato vari scritti, raccolti in Il gran teatro montano), nell’area alpina lombardo-piemontese, in cui figuralità, teatralità, narrazione si incontrano, come avviene in tanta scrittura di Testori.

Scrittura, appunto, perché oltre che pittore e critico d’arte, Testori è stato anche uno dei più difficilmente incasellabili scrittori del nostro secondo Novecento.

Giovanni Raboni, introducendo il primo volume delle Opere edito da Bompiani alla fine degli anni Novanta ricordava, per l’appunto, la particolarità di un’esperienza che mai si è detta sperimentale, e mai, tuttavia, ha smesso di sperimentare: attraversare cronologicamente l’opera di Testori vuol dire scontrarsi con una parola e una forma che continuamente si ripensano, dal dialetto milanese “arioso” che si parla alla periferia nord della capoluogo lombardo (dove è ambientato il ciclo dei Segreti di Milano) con cui si esprimono i personaggi del dio di Roserio, primo romanzo testoriano pubblicato da Einaudi negli storici “Gettoni” di Vittorini, e in particolare il Consonni nel suo delirante (e non così scontato nel panorama narrativo italiano dei primi anni Cinquanta) monologo iniziale – che verrà poi eliminato quando il dio di Roserio verrà ripubblicato come primo racconto del Ponte della Ghisolfa (che uscirà, invece, per Feltrinelli dopo il rifiuto di Calvino).

Dal dialetto milanese, dicevo, alla critica d’arte che tanto deve al magistero di Longhi, incontrato al Palazzo Reale di Milano nell’aprile ’51 e che resterà un riferimento costante per Testori (e a cui dedicherà i testi poetici Stanze per la “Flagellazione” di S. Domenico Maggiore, scritte fra il ’66 e il ’67); e ancora la comicità della Maria Brasca, opera teatrale pensata per Franca Valeri, la cupezza fino alla bestemmia della stupenda Monaca di Monza, l’allegoria dei Trionfi (in cui è messa in scena, ma completamente trasfigurata, la relazione con Alain Toubas), la semplicità delle poesie d’amore, che pure non lesina di indurirsi con palesi riprese infernali da Dante (come in Alain del 1973: “S’è disfatta la casa, / non è restato niente. // Adesso andiamo tu ed io / tra la perduta gente), o che anticipa per certi versi, in Nel tuo sangue, la cantabilità antimetafisica del grande Caproni; e si può continuare passando per il dettato biblico, l’invettiva degli articoli polemici (uno dei quali, emblematicamente si intitola Quanta gente indignata con me), la prosa concettosa de La Cattedrale, fino agli impasti linguistici della Trilogia degli scarrozzanti, di In exitu, o dei Tre lai, in cui è ripreso il dialetto ma rimestato in un calderone di elementi che creano un linguaggio completamente inedito, e molto lontano dall’ariosità di Roserio.

Certo, è davvero difficile inquadrare con precisione un’opera come quella di Testori e non stupisce che solamente ora, in occasione del centenario della nascita, Mondadori gli dedichi finalmente un Meridiano di Opere scelte (curato da Giovanni Agosti, con la Cronologia redatta da Giuseppe Frangi e le Notizie sui testi di Giovanni Battista Boccardo).

È un percorso, quello selezionato da Agosti, che appunto, a percorrerlo cronologicamente dà davvero la misura della sregolatezza, dell’anticanonicità, talvolta della schizofrenia di questa scrittura.

Il Meridiano, infatti, a differenza dei tre volumi delle Opere pubblicate da Bompiani (e ormai introvabili), che escludeva la critica d’arte, offre un percorso che abbraccia ogni forma e ogni tono con cui Testori ha fatto i conti, riproponendo anche opere minori (talvolta uscite in edizioni private o dalla tiratura limitatissima, come alcune plaquette poetiche) o dimenticate, pubblicando per la prima volta dei testi noti ma rivisti sulla base delle carte d’archivio, accompagnati da precise note ai testi, fondamentali per inquadrare le opere selezionate (e che perfettamente dialogano con la Cronologia iniziale che restituisce un preciso ritratto di Testori).

Che questo Meridiano sia così tardivo, in fondo, non stupisce poi molto: se pure è vero, come avverte Agosti nella sua introduzione, che è almeno dalla messa in scena dell’Edipus del 1994 che si è avviata una riscoperta teatrale di Testori “che sembra non conoscere soste” (come testimonia pure il recente volume di Laura Pernice, Giovanni Testori sulla scena contemporanea), Testori resta un autore anticanonico, soprattutto da un punto di vista letterario, poco noto fuori dai confini di quello spirito lombardo che così tanto lo caratterizza: e non soltanto, certamente, per la difficoltà linguistica di molti suoi testi – anzi: forse tutt’altro.

Una ragione potrebbe risiedere proprio nella difficoltà di contornare un’opera così diversificata che si esprimeva in doppi, tripli, quadruplici talenti, che ha, nelle parole di Pietro Citati, “qualcosa di torrenziale, di dilatato, di informe”: e, si sa, si fa sempre fatica a collocare e canonizzare qualcuno che non si riesce a collocare chiaramente in un campo ben delimitato (quantomeno se non ci si chiama Pasolini); e di conseguenza la difficoltà di inserire Testori in qualche linea o tendenza ben riconoscibile: l’effetto più straniante lo fanno, forse, le sue poesie: che non a caso non compaiono pressoché in nessuna antologia della poesia italiana del Novecento, perché davvero si fa fatica a capire da dove vengano fuori – e se i risultati, ormai sconosciuti ai più, di certo non sono sempre convincenti, a volte si hanno davanti dei versi di una sconcertante bellezza.

Testori è stato, d’altronde, un autore a lungo scandaloso: L’Arialda, per fare un solo esempio, venne sequestrata dalla procura di Milano, che ordinò anche la sospensione dello spettacolo, nei primi mesi del ’61, e Testori e Luchino Visconti, che ne firmava la regia, furono processati per oscenità (per l’oscenità dei contenuti e il linguaggio “da autentica suburra”, come lo definì il procuratore Carmelo Spagnuolo che assiste alla prima al Teatro Nuovo di Milano).

Ma lo scandalo di Testori non è davvero quello pour épater la bourgeoisie cui siamo fin troppo abituati: è anche lo scandalo, a lungo imperdonato da tanta intelligenza italiana, dell’avvicinamento a Comunione e Liberazione, del monologo contro l’aborto Factum est, di alcune posizioni francamente incondivisibili, di un cattolico che ha composto gran parte della sua opera sulla bestemmia; è quella di un omosessuale che parla con il linguaggio dei mistici, che sconta una coscienza (che è termine e questione che fa da basso costante in tanti libri, dall’Arialda alla Cattedrale) lacerata e tragica, che continuamente deve fare i conti col “niente” (parola, di nuovo, che si trova in tanti finali testoriani: e la collocazione non è casuale).

Proprio l’omosessualità, non dell’uomo, ma dell’opera, è forse l’elemento che a rileggere oggi Testori stupisce di più: perché forse non c’è, dopo Arbasino, altro autore del Novecento che ha fatto dell’omosessualità non dico un tema, ma una forma, un orizzonte privilegiato come Testori – forse ancora più di Pasolini. Stupisce perché a leggere oggi tante ricapitolazioni, riletture, controcanoni, riscoperte queer e silvie in anagrammi, il nome di Testori non viene fuori (quasi) mai: eppure è lui che con Erodiade (opera introvabile e che sarebbe ora, davvero, di ristampare) continua là dove Oscar Wilde aveva interrotto la sua Salomè. E forse perché, appunto non è il tema omosessuale che interessa Testori: non è tanto, cioè, la marchetta dei racconti, o l’Eros “mezza-donna” dell’Arialda, ma è piuttosto un modo di guardare alle cose, un orizzonte che prende vita all’interno della scrittura e che modifica il modo in cui il mondo si organizza nella forma della scrittura: così le mutande degli uomini sono sempre dette “mutandine”, la vitalità si esprime nella velocità che contrae e mette in risalto i muscoli e la figura di Cristo, ne La Cattedrale, viene descritta “sbalzata come per mostrar solamente l’osceno gonfiore del perizoma o i peli del petto e del ventre”. Un orizzonte, cioè, in cui costantemente il senso del limite, che sia biologico, economico, fisico, mentale, politico, è continuamente combattuto, e che si manifesta in special modo in questa lacerazione fra il sacro e il corpo maschile, come recita emblematicamente il titolo dell’introduzione redatta per le Rime di Michelangelo: Un uomo in una donna, anzi un dio.

Insomma, la difficoltà e il grande interesse dell’opera di Testori, cui la pubblicazione di questo Meridiano finalmente ci riporta, quando si cerchi di contenerla funziona un po’ come il finale de Gli angeli dello sterminio, ultimo romanzo di Testori sul tema di un’apocalisse milanese, pubblicato da Longanesi nel 1992: “Non occorse, tuttavia, molto perché, nel ripetersi sempre più spietato dei bronzei clangori, quella cellula, sempre biancastra e lattiginosa, mostrasse d’essere in atto di generare da sé qualcosa come un’immane e mai vista forma umana. Cercai di fissarla con tutte le forze che ancora mi restavano… e caddi, io, sì, io, io, come corpo morto cade”.

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