Dopo “L’acqua del lago non è mai dolce”, Giulia Caminito propone una nuova negazione con “Il male che non c’è”, facendo affiorare un’oscurità degna di essere riconosciuta in tutta la sua realtà. Attraverso un registro onirico insolito, l’autrice racconta la bestia che si annida nelle viscere di chi non riesce a conformarsi alla norma, al ritmo degli altri: è uno straniamento crudele che emerge, e che rende vivo il buio, dolorose le viscere, malferma la realtà, con una scrittura che rimane sempre tagliente e essenziale per restituire la solitudine e un male che è invisibile, ma c’è

“Il buio è disteso, allargato, muove passi da insetto”.

Ci sono mali che la società fatica a riconoscere, e finisce per ridicolizzare: sono mali che non hanno la dignità dei mali evidenti, perché sono oscuri, nascono dall’inconscio ma imprigionano i corpi in una galera di sintomi, malesseri, ipocondrie.

Ci sono malati immaginari ridotti a farsa, di cui prendersi gioco: sono quelli considerati fragili nelle relazioni, inaffidabili nel lavoro, pazzi, incapaci di vivere.

Giulia Caminito ha raccontato la bestia che si annida dentro la pancia di chi non riesce a stare nella norma, nel ritmo degli altri: il male è una paura di vivere che cresce, continuamente, chiude la gola come qualcosa che non si riesce a mandare giù, si blocca sulla bocca dello stomaco, come una bomba a orologeria. Tic Tac: mentre fuori è un brulicare di vita, e “gli altri” fanno cose normali, lavorano, viaggiano, escono per un aperitivo, un cinema, quella bomba sta lì pronta a uccidere tutto, ferma il tempo, rende ogni cosa difficile.

Il male oscuro è un’angoscia che non si stacca mai dal corpo, è così strettamente legata alle viscere che spinge a stare sempre in allerta, in uno stato di emergenza perenne: il male arriva e schiaccia tutto e allora il pensiero continuo, ossessivo, è Non sto bene.

giulia caminito il male che non c'è bompiani
“Il dolore sta lì e spinge, spinge e diventa bolo, nodulo, è sodo, lo puoi tastare sottopelle, finché il guscio non si crepa e qualcosa esce”.

Si vive piegati su se stessi, ad ascoltare il proprio corpo, in attesa di trovare qualcosa che davvero non vada, una diagnosi, che permetta di alzare la testa e di ricevere attenzione e soccorso. Ma l’ipocondria è una trappola, un imbroglio del corpo, che si prende gioco di noi, annullandoci.

Loris per un po’ era riuscito a funzionare: l’università, il sogno di lavorare nell’editoria, un amore fin da bambino, Jo, con cui è cresciuto, e che ha condiviso tutto con lui, accompagnandolo anche in quei momenti di eccessiva sensibilità che gli hanno reso difficili i cambiamenti. Ma c’erano viaggi da organizzare, le serate insieme, i film da scegliere, la complicità.

Poi si è fermato tutto, e in Loris qualcosa si è bloccato: mentre Jo andava avanti, sintonizzata sulla vita, con un lavoro, i colleghi, la palestra, Loris si è trovato inabile, paralizzato dalle paure e dalle ansie, incapace di reggere alla prova del diventare adulto.

Il lavoro si è rilevato precario e frustrante, il terrore di sbagliare un freno a mano tirato, il peso in gola sempre più grande, Loris è spaesato e il suo corpo è pronto ad ammalarsi di ogni male. Così, dalle mappe dei possibili viaggi da fare con Jo, Loris è passato alla mappa delle possibili patologie, facendo del suo corpo una cartografia da studiare.

“Sono tutti riuniti, i suoi malesseri, ben distribuiti, ingestibili, affastellati mentre il resto del mondo è fuori e cerca dove cenare in compagnia, il locale giusto per ordinare uno spritz Campari.”

Il buio è così, un’autoanalisi continua, perché fuori non si riesce a guardare, figuriamoci a vivere, a essere come tutti. D’altronde, c’è una sorta di autosufficienza nel dolore, la sicurezza che nessuno può fare peggio di ciò che ci si procura da soli: Loris è consapevole di avere già tutto il terrore che serve. Il suo dolore è vedere il pronto soccorso come un posto desiderabile, protetto, tra camici bianchi che danno un senso di benessere, la sensazione che la sua vita non sia in dubbio, che ci sia qualcuno pronto ad aiutarlo.

Ma ogni visita, ogni analisi, danno sempre lo stesso risultato: Loris non ha nulla, è tutto nella sua testa. Eppure quel malanno gira indisturbato dentro di lui, ne è sicuro, e lo spinge a chiedere nuove visite, nuove analisi.

“Io voglio vedere dentro, voglio indagare le anse, i pertugi, i vicoli ciechi del mio intestino, delle mie membrane, dove si annidano i ragni violino, i più cattivi”.

Il male che non c’è di Giulia Caminito (Bompiani) riesce a dare voce a un dolore profondo, invalidante e spiazzante come un buio che attanaglia, come una creatura mostruosa che si siede accanto, prendendosi gioco di ogni nostro gesto: Catastrofe appare all’improvviso nella vita di Loris, è una bambina con artigli e scaglie da vipera, un paguro dai boccoli viola, un’apparizione con coda da gatta e brillantini, una sposa con un mazzo di gelsomini, seduta in macchina, sulla lavatrice, in ufficio a indicargli dove sentire dolore, a ricordargli il suo male.

Giulia Caminito - foto di Pasqualini, Musacchio & Fucilla MUSA

Giulia Caminito – foto di Pasqualini, Musacchio & Fucilla – MUSA

Scappare da Catastrofe vuol dire rifugiarsi in un pensiero di tregua, un momento sereno, un ricordo da amare: per Loris quel rifugio è l’età dell’infanzia, sono i momenti trascorsi da bambino col nonno Tempesta, in campagna, a lavorare e giocare nell’orto, tra il frullare di ali di colombi. Quello era il terreno di pace, dove il bambino Loris non sentiva il bisogno di leggere ossessivamente, dove Tempesta gli faceva affrontare i piccoli drammi, con una routine sana infarcita di storie. Tempesta era la sua salvezza, il nume di un’infanzia di certezze.

Loris adulto di certezze non ne ha più, vede Jo andare per la sua strada, sicura come lui non sarà mai, insofferente a un uomo che sembra rovinarsi la vita per qualcosa che non esiste. In questo vuoto, in questo sé da cui non si fugge, ogni cosa sembra pericolosa, come il cibo che non si deve mangiare, perché può nuocere.

“Io non sto bene”: mentre l’ansia e la sensazione di inadeguatezza hanno il sopravvento, Loris trangugia solo parole, divora libri per stordirsi dalla realtà, Catastrofe dilaga burlona, e Google diventa il rifugio che rifila diagnosi e storie di disgrazie.

Ci sono radici lunghissime a cui pensare per fare andare via la paura, lezioni di fedeltà che arrivano dai colombi, che sanno come tornare, e che sono una promessa di serenità. Sono loro a indicare la strada: forse è questa la chiave della rinascita, che possa far lasciare indietro le ombre, alzare gli occhi da se stessi, e iniziare a camminare nel mondo.

L'acqua del lago non è mai dolce

Dopo L’acqua del lago non è mai dolce (Premio Campiello 2021), Caminito propone una nuova negazione con Il male che non c’è, per far affiorare un’oscurità degna di essere raccontata e affermata in tutta la sua realtà.

Con un registro onirico insolito Giulia Caminito ha reso ancora più potente questa storia, che sentiva dolorosamente vicina: è uno straniamento crudele che emerge, e che rende vivo il buio, dolorose le viscere, malferma la realtà, con una scrittura che rimane sempre tagliente e essenziale per raccontare la solitudine e un male che è invisibile ma c’è.

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GLI APPUNTAMENTI – Sabato 21 settembre, alle ore 20.30, l’autrice sarà a Pordenonelegge, allo Spazio Gabelli, con Annalena Benini;  domenica 22 settembre, alle ore 17, sarà a Piacenza, a Palazzo Rota Pisaroni, per il Festival del Pensare Contemporaneo (con lei Maura Gancitano); martedì 24 settembre, alle ore 19, sarà a Milano, alla libreria Verso, con Antonio Franchini; Caminito interverrà poi sabato 5 ottobre, alle ore 11.30, alla Festa del Racconto di Carpi, con Loredana Lipperini, e martedì 8 ottobre, alle ore 19, sarà a Torino, al Circolo dei lettori, con Simonetta Sciandivasci.

Fotografia header: Giulia Caminito, foto di Pasqualini, Musacchio & Fucilla / MUSA

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