“‘Psycho’ è il film di un uomo che rischia il tutto per tutto, che gioca la partita finale con le sue ossessioni. E perde”. Ricercatore universitario e saggista, Guido Vitiello con “Visita al Bates Motel” si addentra in una delle più iconiche dimore della storia del cinema. Un’indagine minuziosa in cui la vicenda del capolavoro di Alfred Hitchcock viene raccontata a partire da una serie di cicli mitologici greci – L’intervista all’autore

L’inquietudine che è portato a sperimentare lo spettatore di Alfred Hitchcock è una sensazione sottile, mai marcata, che si trasmette dallo schermo allo sguardo attraverso una serie di piccoli dettagli, elementi all’apparenza ininfluenti che lavorano a un livello più profondo (forse inconscio?) rispetto alla grande azione che si svolge sul palco principale.

Guido Vitiello, ricercatore alla Sapienza e saggista, con Una visita al Bates Motel (pubblicato da Adelphi nella collana Imago), è andato a cercare con perseveranza e, come dice, un po’ di fortuna, gli elementi nascosti di uno dei più celebri capolavori del cinema: Psycho.

Seguendo alcuni cicli mitologici greci, sapientemente nascosti da Hitchcock nei meandri della dimora di Norman Bates, costruisce una mistica dell’orrore, che interroga gli antichi per spiegare pulsioni che attraversano indenni le epoche. Un dialogo tra la mitologia greca e Freud, che racconta un set, una regia, e le scelte, mai casuali, di Hitchcock.

Una visita al Bates Motel è un testo erudito e tuttavia, grazie alla lievità della penna di Vitiello, assolutamente fruibile, affiancato da una collezione di fotogrammi, locandine, quadri, immagini d’archivio, che accompagna il lettore in un percorso in cui lo sguardo (ossessivo?) è il protagonista.

Guido Vitiello, Alfred Hitchcock

Una visita al Bates Motel si incentra su una relazione che abitualmente non viene affrontata: quella tra Psycho e alcuni famosi cicli mitologici greci. Com’è nata questa esigenza? E cosa l’ha aiutata nell’indagine?
Partiamo dalla scena della doccia, quella che ognuno ricorda, anche chi non ha visto il film oppure l’ha visto tanti anni fa e ha dimenticato tutto il resto. Per spiare Marion da un forellino sul muro, Norman stacca dalla parete del salotto un quadro. Questo quadro raffigura un momento della storia di Susanna e i vecchioni, dove la giovane sposa è aggredita mentre fa il bagno in giardino. Un tema biblico, dunque: cosa c’entra la Grecia? Ebbene, l’esigenza di convocare i miti greci non è nata da un capriccio interpretativo o da un’impuntatura, ma dalla constatazione che Susanna, sul set, è circondata da quadri e sculture di Venere, Cupido, Psiche, Orfeo, Demetra… In questa scoperta mi ha aiutato la fortuna, perché non è facile identificare opere che si intravedono di sfuggita in un film in bianco e nero. Ma la fortuna, pare, aiuta gli audaci – e i perseveranti”.

Il Bates Motel è diventato un luogo talmente iconico da uscire dal discorso cinematografico per insediarsi in quello popolare. Con Una visita al Bates Motel, il suo portarci nei meandri della casa assomiglia a un’indagine alla ricerca dell’arma del delitto.
È un’indagine, sì, anche se non è un’indagine poliziesca, perlomeno non un’indagine alla maniera di Arbogast – il detective privato del film, che con i suoi metodi non arriva lontano. Ma il passo del libro è senza dubbio quello di una detection, del graduale diradarsi di un mistero. E sono felice se qualche lettore avvertirà questa sorta di suspense mistagogica, questo fremito conoscitivo che mi ha accompagnato per tutta la creazione del libro, e che ho cercato di trasferire sulla pagina. È una visita guidata al Bates Motel, ma una visita a suo modo pericolosa – come quelle di Marion, di Arbogast, di Lila. Dietro ogni porta, non sai cosa ti attende”.

Un tema ricorrente di Una visita al Bates Motel è la Wunderkammer. Anche il suo libro, sotto certi aspetti, è una Wunderkammer cartacea in cui uccelli impagliati si affiancano a quadri seicenteschi e vecchie locandine. Come si è sviluppata la sua ricerca?
Una sera, rivedendo Psycho, ho fatto più caso del solito al salottino di Norman. I quadri, gli animali impagliati, le teche, le collezioni di libri… Dove avevo già trovato tutte queste cose insieme? ‘Sembra un gabinetto delle meraviglie!’, è il pensiero che mi ha attraversato la mente, ed è stata una piccola folgorazione. In quel momento, l’idea del libro aveva già preso forma, anzi c’ero dentro fino al collo, e avevo ben chiaro come procedere: si trattava, prima di tutto, di scoprire cos’altro ci fosse in quelle stanze. La prima fase della ricerca è stata dunque un tentativo un po’ disperato di catalogazione – e sottolineo disperato, perché neanche nei faldoni della produzione a Los Angeles si trova granché. Ho dovuto camminare quasi al buio”.

Hitchcock aveva un’attenzione maniacale ai dettagli, oggi forse verrebbe definito control freak. Nel caso di Psycho quest’attitudine si esprime anche nella scelta dei quadri appesi sui muri del Bates Motel, che lei analizza nel libro. Cosa vuole dirci, Hitchcock, con questo controllo minuzioso?
Credo che Hitchcock non volesse dirci un bel niente, se per ‘dire’ intendiamo esporre una tesi, sottendere un enigma, lanciare una sfida intellettuale allo spettatore. Era un gioco che giocava con sé stesso, con il godimento supplementare di giocarlo sotto gli occhi del mondo intero. Forse, chissà, si compiaceva anche al pensiero che qualcuno potesse scoprirlo, magnificando così l’ammirazione per il suo genio dissimulatorio e barocco. Ma ho il sospetto che questo gioco avesse, per lui, una posta esistenziale molto alta. Psycho è il film di un uomo che rischia il tutto per tutto, che gioca la partita finale con le sue ossessioni. E perde”.

Anche Norman Bates, per certi versi, è un control freak: basti pensare alla meticolosa pulizia che segue l’omicidio nella doccia. Cosa ci racconta questo aspetto?
L’ossessione del controllo ha una componente violenta, in odore di necrofilia: controllare è, prima di tutto, impedire alle cose vive di muoversi secondo la propria volontà e i propri desideri. Ma nel libro ho tentato di mostrare la tappa successiva di questa fascinazione per l’immobilità, ossia il tentativo eroico di rianimare l’oggetto d’amore pietrificato, sotto forma di un’immagine in grado di proteggerci dalla morte. La donna diventa statua perché la statua ridiventi donna, o Dama, o Diva – ma fuori dal tempo”.

I film di Hitchcock, osservati da vicino, sono tante tessere di uno stesso mosaico. Qual è l’aspetto che, più di tutto, collega Psycho agli altri suoi film?
Più che di un mosaico, parlerei di una serie di polittici con alcuni temi e motivi ricorrenti. Alcuni film sono, tra di loro, più legati e interdipendenti di altri. Psycho – lo suggerisco varie volte nel libro – forma con La donna che visse due volte un solo inestricabile dittico, e la cerniera che li unisce è l’erotica misterica”.

In qualche modo Psycho continua a interpretare le inquietudini del Ventunesimo secolo?
Alcune inquietudini sono perenni, ma il delirio amoroso di Norman (e di Hitchcock) era anche legato a condizioni che già allora, alla fine degli anni Cinquanta, si avviavano a scomparire – le stanze chiuse a chiave dell’intérieur borghese, piene di segreti e di cassetti, le distanze, i silenzi, gli echi dei passi nei corridoi, quel “sacro nella vita quotidiana” che per Michel Leiris aveva il suo santuario nella stanza dei genitori, circondata da un’aura perturbante e sinistra. Ho visto, mentre scrivevo il libro, la serie televisiva Bates Motel, che è una specie di lungo prequel di Psycho, ambientato però nel presente. Ebbene, già alla prima puntata mi son detto: un Norman Bates con lo smartphone non avrà mai quel senso delle distanze incolmabili e degli spazi chiusi come prigioni che alimentava le ossessioni del suo predecessore”.

Quando parliamo di Alfred Hitchcock parliamo sempre di “sguardo”. In Psycho lo sguardo è protagonista assoluto. Che cosa ci sta dicendo Hitchcock?
Forse è più corretto chiedere: che cosa sta guardando, che cosa ci sta mostrando, e con quali occhi? Chi guarda chi? Hitchcock viveva di immagini e pensava per immagini, non aveva messaggi da recapitare, neppure messaggi in codice. Per astuto che fosse, i suoi film la sapevano più lunga di lui”.

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