Al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano, fino a fine ottobre, “Hamlet” secondo Antonio Latella, un’esperienza da vivere (anche nelle pause) e da non perdere. Ecco perché…

Fantasia. “Più di una fantasia”. “Credenza”, “apparizione”, “spettacolo”, “storia”, “spettro”. “Cosa sei tu?”. “Chi è là?”.

Gli interrogativi sul fantasma del re, sulla sua essenza/assenza, i tentativi di “farlo parlare” e di de-finirlo posseggono, nelle parole usate dal testo (nella traduzione di Federico Bellini per questo Hamlet di Antonio Latella pubblicata da Scalpendi, 2022), tutta l’urgenza di una domanda sul senso e sul nocciolo segreto stesso dell’esperienza teatrale, di questo spettacolo notturno, di questo spazio liminare, fra i vivi e i morti, recita e verità, copia e medesimo, da percepire e decifrare, di quel mondo letto/lutto che Hamlet mette in scena e in abisso.

Questo testo-universo, declamato qui in prima istanza e in conclusione come puro copione, lettura a tavolino, parola scritta-per-essere-detta, prende il corpo duttile ed espressivo di dieci attori/spettatori straordinari, sulle tavole del Piccolo Teatro Studio (in un allestimento per molti versi site specific per il Melato) e sembra rivelare, a ogni passo, nuovi mondi, altri e ulteriori punti di vista, aprire scorci, allestire scene, scavare varchi in questo classico senza fine.

Amleto è all’inizio una silhouette lontana sullo sfondo, mentre le parole della visione notturna scuotono (allerta e allarme del “passo marziale” paterno) sentinelle e spettatori. Amleto, a piccolissimi passi, lentissimo e silente, trasporta la sua sofferenza come una preghiera/bestemmia al centro del palco, messa a fuoco su un inginocchiatoio che ora è patibolo, ora croce, strumento di tortura, prigione, carillon e prua, palco e predellino, ingranaggio e ripostiglio.

Latella riesce a fare di pochissimi oggetti in scena, questo in primis e ad exemplum, significanti potenti, ricchissimi e polimorfi.

E di questa essenzialità, specchiata negli abiti bianchi degli attori, che nella seconda parte si ribaltano in nero, vive una messa in scena dalle molteplici rivelazioni, ricchissima di registri e sorprese, di limpidezza disarmante, fra esperimento e misura, pronta sempre a rovesciarsi in maniera inattesa (essere o non essere): gli abiti maschili trasformati in quelli femminili, il vuoto in pieno, il candore luminescente in ombra. Che suono ha la frase “fragilità, il tuo nome è femmina” detta da questo Hamlet che è donna (Federica Rosellini da premio, da cascarci dentro, nel suo pro-ferire), con un padre che pure è donna? Ma i ribaltamenti di sesso non sono giochini, strizzatine d’occhio o provocazioni, ma ulteriore strumento per liberare, diagonalmente, la potenza espressiva del testo, per farne vibrare la potenza interrogante i ruoli stessi, al di là e al di sopra di ogni lettura pigra e banale dei cliché misogini dei tempi.

E questa testo infinito ruota intorno a quel vuoto, quella messa in abisso letterale che Latella incarica il suo principe straziato e rabbioso di scavare con le sue stesse mani e il suo sudore, ad ogni replica, nuovamente. Le travi divelte del palco, le assi scardinate della scena di questo dolore: una fossa ampia, quadrata, memore forse dell’arte contemporanea (il monumento/baratro alle torri gemelle?) è un labirinto escheriano in cui i topi s’insinuano e s’infiltrano (dall’iniziale “Non s’è mosso un topo” alla Trappola per topi messa in scena dai teatranti, il roditore è un animale presentissimo nel sottosuolo del capolavoro shakespeariano): questa tomba, questo underground, questa profondità, questa cantina, questa cassa di risonanza e da morto, questo pozzo senza pendolo e pozza senza fondo, questo ascensore per l’inferno, è l’assenza centrale, la perdita pienissima attorno a cui ruota l’agitarsi scomposto e ieratico, istrionico e declamatorio. vano e ammalato, giocoso e incerto, interattivo e interpellante, dei personaggi della recita, che si compie intorno al fulcro amletico.

Far fare il monologo più famoso del teatro da un Hamlet con microfono (l’uso dei microfoni e la cura della tessitura sonora è sempre straordinaria in Latella, i cui spettacoli hanno una dimensione uditiva quasi autonoma, partiture di voci per scena), in un cantuccio nascosto di questo abisso, è solo uno dei colpi di genio di questa regia, che – complice la traduzione sfidante e l’estro attoriale del cast, propriaziato dallo scavo di Dalisi/Latella (connubio drammaturgo/regista felicissimo e fecondo) – sa far parlare ogni momento delle sei ore e mezza di rappresentazione, anche le pause (comprese le pause, in cui l’emozione sedimenta, l’attesa cresce e l’attenzione respira).

I consigli agli attori (e forse agli spettatori e agli uomini) di una giusta misura sono qui abbracciati da una teoria di costumi della storia del Piccolo, in una scena che assume tutto l’anelito spiccatamente meta-teatrale di questa versione, con un climax scenografico, per accumulo toccante e straripante, omaggio al senso (ai sensi) del luogo, il Piccolo che diventa grandissimo, principalmente con gli abiti di scena degli spettacoli di Strehlere Ronconi, che dialogano con il testo shakesperiano, materia viva.

In questo défilé di vestiti, per giocosa sineddoche e ampia metonimia, c’è tutta la memoria immaginata e immaginaria di una casa dello spettacolo, tutte le possibilità espressive, rivelatrici e disvelanti di un spazio dove la rappresentazione, grazie a misteriose alchimie e umani intenti, può farsi centro del mondo, luogo più autentico dell’anima. Piccoli grandi miracoli che il teatro, quando è in ottime mani, può ancora regalare.

Fino a fine ottobre al Piccolo Teatro Studio Melato potrete vivere questa esperienza. Andare o non andare… Non mi pare ci sia questione.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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