Di fronte a un presente in cui crisi sistemiche si avvicendano come stagioni, si sente l’esigenza di immaginare un futuro migliore. Ma chi è in grado di immaginare un mondo diverso dal nostro? Nessuno. O, quasi. Ian Cheng è uno degli artisti più radicali del panorama internazionale: nelle sue opere, attraverso il game design, l’intelligenza artificiale e le tecnologie digitali, non ha fatto altro che creare mondi. Ma cos’è un mondo? E come si crea? “Fare mondi – Vademecum per emissari” è il resoconto del suo processo creativo, una risposta a queste domande e un testo che obbliga chi legge a riflettere su cosa significhi creare un futuro in cui è possibile credere. – L’approfondimento
Nessuno sa immaginare un mondo migliore: dirlo è contemporaneamente ripetere un luogo comune e affacciarsi sull’orlo di un abisso. Non è disperazione, ma assenza di speranza sì: per quanto sia evidente che la linea degli eventi coli verso la catastrofe, evocare un mondo diverso, “lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero”, come ha scritto Mark Fisher con la chiarezza che lo ha consacrato pensatore di culto, è precisamente tutto ciò che non sappiamo fare.
Non esistono alternative è l’apparenza di un ordine che si presenta come stato di natura. Ci raccontiamo che c’è stato un tempo in cui chi ne voleva la fine sapeva dove andare, guardava al mondo come cosa leggibile e poteva immaginare un futuro. Un mondo più giusto, più vero, più lontano – a voler restare umili – dal disastro climatico. Ma questo tempo non è il nostro.
Chi vive all’altezza della tragedia ecologica, dell’individualità come brand, dello sfacelo del sistema delle relazioni internazionali nel genocidio e nella guerra, dell’intensificarsi del conflitto a ogni livello, spettatore attonito di una parata interminabile di cadute, condivide un’impotenza e un tormento etico.
Sa che, in fin dei conti, gli è assegnato solo il ruolo di comparsa dentro meccanismi impersonali che accadono su un piano inaccessibile all’individuo, la realtà venendo modellata da flussi di astrazioni, come in passato lo era da capricci di divinità per sempre assenti. E sa che per ottenere quel minimo di realizzazione personale bisogna stare dalla parte di organismi immateriali che uccidono, impoveriscono e distruggono, promettendo in futuro di dilagare in ferocia.
Puoi sceglierti un problema e farne la tua battaglia, come chi risolve il problema del significato in una scelta di acquisto, puoi concederti il lusso di sprecarti la vita e puoi anche disertare (perchè? Perché non puoi fare altrimenti, come quelli che “forse sono innamorati e non vogliono morire” come scrive Franco “Bifo” Berardi in una delle sue pagine più straziate), ma pensare davvero di creare un mondo diverso è tutta un’altra faccenda.
Molte delle pratiche culturali degli ultimi anni sarebbero impensabili senza lo sfondo di questo paesaggio psichico. Cultura diventa quella cosa che rosicchia un’influenza ragionando l’alternativa all’assenza di alternative. Per questo negli ultimi tempi il worlding, la pratica e la riflessione sull’arte di creare mondi, giganteggia, tanto che per i curatori del Bloomsbury Handbook of World Theory siamo nel mezzo di un cambio di paradigma per cui pensare in termini di mondi sta diventando cruciale in diversi campi del sapere.
L’arte ne è l’avanguardia. È il caso di Ian Cheng, artista statunitense che ha sfruttato le risorse offerte dalla tecnologia per creare “videogiochi che si giocano da soli”, “super Tamagotchi”, simulazioni infinite ed ecosistemi virtuali.
Creatore di mondi autosufficienti, oggi esposti nei maggiori musei di arte contemporanea, Cheng da poco è in libreria per i tipi di Timeo con Fare Mondi – Vademecum per emissari, tradotto da Assunta Martinese, forse il testo che affronta la questione dalla prospettiva più operativa, più concreta: quella di chi in qualche modo i mondi li crea davvero e si chiede: cos’è un mondo? Cosa significa creare un mondo? Cosa bisogna fare per creare un mondo? Come “riconciliare l’arte innaturale del worlding con la finitezza della psicologia umana”?
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Nel farsi queste domande, fulcro della sua traiettoria artistica, quello che conta davvero è il modo in cui Cheng dispiega un’intelligenza vivace, che ha digerito le estetiche novecentesche e le osserva da una distanza incolmabile, come provenisse da un altrove diverso, perturbante e vivo.
Basta guardare ai suoi riferimenti: certi testi chiave delle scienze cognitive (che ha studiato a Berkeley, per poi scegliere l’arte “per farsi le proprie domande”), ma più spesso elementi della cultura di massa, che non cita per strizzare l’occhio a un gusto medio, né ironicamente per smorzare i toni, ma a un grado di astrazione che sbalordisce nel figurare scenari inediti (in Fare Mondi in tre righe mette in fila: Bugs Bunny, Gesù, Drake, Tyrion Lannister, Totoro per parlare di personaggi che presentano una contraddizione interna).
Cheng ha lavorato per Industrial Light & Magic, società di George Lucas, e ha imparato a trattare l’immaginario pop con lo sguardo del professionista. Del Ponyo di Miyazaki, per dire, apprezza la capacità di creare personaggi icastici visti come l’estensione di un’ecologia in evoluzione. Di Real Housewife l’equilibrio tra l’entropia dell’universo narrativo e le storie dei personaggi.
Tra le sue influenze più importanti menziona videogiochi come Sim City o The Sims, interpretato come “il primo videogioco che ha formulato l’idea che l’intelligenza non è qualcosa che sta solo dentro la tua testa, ma è una caratteristica distribuita negli oggetti del tuo ambiente”, del resto realizza i suoi lavori tramite Unity, un motore grafico utilizzato nel game design.
Con Richard Evans, che di The Sims 3 ha modellato il sistema di relazioni sociali, lo si può vedere discutere dei principiali modelli di intelligenza artificiale (logica simbolica e deep learning) paragonandone le filosofie implicite agli empiristi e razionalisti del Diciottesimo secolo per pensare una possibile sintesi kantiana degli attuali modelli. Il che, a oggi, potrebbe anche essere il contributo umanistico più interessante sulla questione dell’AI.
Cheng sembra catapultato qui dal Tremila, con tutti i pregi e difetti che questo comporta.
A volte, il suo ottimismo sulla tecnologia suona eccessivo (Opponent. systems, il suo ultimo progetto, punta a creare degli animaletti AI che si sviluppino nell’interazione con i bambini), o il suo essenziale disinteresse nel tracciare confini ideologici fa storcere il naso (non si può fare a meno di sorridere pensando al lettore di Fare mondi leggere una citazione in cui Steve Jobs consiglia di “abbracciare e migliorare la vita”), ma è proprio quello che gli consente di porsi domande a cui avremmo pensato nei prossimi decenni: mentre ci chiediamo se l’intelligenza artificiale sia migliore di noi nel nostro lavoro, Cheng (Life After Bob, The Chalice Study, 2023) sposta il piano del discorso più in là: una volta impiantata nella mente umana, non è che l’intelligenza artificiale farà anche il lavoro di vivere la nostra vita meglio di noi? A pensarci, di fronte ci si spalanca un mondo nuovo.
Ma quindi, cos’è un Mondo? Se è vero che l’intelligenza di Cheng brilla di una luce diversa, qui accende lucidità come candeline. La nozione di mondo è inscindibile da quella di futuro, l’uno non esiste senza l’altro. “Un Mondo – scrive – è un futuro in cui è possibile credere: un futuro che permette di sopravvivere al suo creatore e generare svolte narrative”.
Da una prospettiva artistica una definizione come questa crea più problemi di quanto la semplice speculazione possa tenere conto. Tradizionalmente un’opera d’arte è qualcosa di finito, concluso, che porta con un sé un significato stabile determinato dal suo autore; invece, un mondo, nel senso di Cheng, è un processo infinito, autonomo, che prescinde dall’intenzione di un creatore e si evolve; il suo significato, se si può parlare di significato in senso stretto, è la mappatura di un territorio in cui sono presenti e agiscono forze non del tutto controllabili da chi le ha introdotte.
Implicitamente Ian Cheng pensa, e lo fa in termini di procedure, a una verità che, seppure ampiamente dimostrata dalla fisica, di solito pertiene ai territori dei mistici e dei rivoluzionari: il tempo non esiste. È una misura che contrae o dilata le percezioni di quanto resiste a essere assorbito dentro di noi; è racconto, progetto e invenzione; più spesso è oblio. Un modo diverso di pensare lo spazio.
Dalla sua prima simulazione virtuale, Entropy Wrangler, per Cheng creare mondi significa l’atto di popolare uno spazio (“un container”) di oggetti, agenti e forze e lasciare che compiano il loro futuro, autonomi (qui, di fatto, a guardarlo per un po’, sembra che riempia uno spazio virtuale di oggetti che cadono, per sempre). Creare è definire limiti, curatela e selezione.
Il significato è sempre un’operazione a posteriori. Anche se la nozione di mondo non può fare a meno di quella di futuro, Cheng non pensa se non attraverso categorie topologiche: è tutto un fatto di spazi, ambienti, interazioni, forze che si intersecano, cambiano; futuro è un sistema che evolve dimentico della sua nascita.
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Non è tutto. Un mondo è una cosa viva (“artificiale, ma pur sempre viva”), il suo futuro è qualcosa in cui qualcuno crede. Il germe dell’arte di Cheng si trova nelle scienze cognitive: la trilogia Emissaries, forse l’opera più nota di Cheng, di cui Fare mondi è il margine di carta, applica le tecniche di simulazione virtuale, la riflessione teorica sulla natura dei mondi, al dentro, allo spazio dell’interiorità: la coscienza interpretata anche in questo caso come un ecosistema che, soggetto all’interazione di forze, evolve. Coscienza come quintessenza e archetipo di mondo che basta a se stesso per essere cosa viva e cosa che crede.
Cheng fa riferimento a Julian Jaynes e al suo controverso Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (1976). Per Jaynes il monologo che sentiamo dentro la testa non è sempre stata la nostra voce, ma è il frutto di un adattamento evolutivo. L’ipotesi è che la mente degli antichi, già suddivisa in due emisferi, fosse sprovvista di una coscienza autoriflessiva. Nelle difficoltà, di fronte all’ignoto, lo stress avrebbe provocato da parte dell’emisfero destro la creazione di allucinazioni uditive, che venivano interpretate come le voci autoritarie di divinità, spiriti dei morti, figure amiche o nemiche capaci di allucinare una guida nelle avversità. Con il passare del tempo, però, emerge quella che oggi riconosciamo come coscienza quando, come una tecnologia obsoleta che lascia spazio alla successiva, il linguaggio si è evoluto al punto di pensare in termini metaforici (Jaynes, manco a dirlo, parla della metafora del tempo come spazio) e le voci altre si sono dimostrate insufficienti nell’affrontare la complessità del loro ambiente.
Anche in questo caso Cheng vede la mente come uno spazio, come faceva Eric Berne o come fa Inside Out. È un ambiente denso di forze e agenti in competizione. Cheng estende la metafora cognitiva del mondo fino a farla diventare la pietra con la quale scomporre la realtà in tutti i suoi giochi infinti, realizzando da sé l’utopia privata di una cultura del worlding. Anche la condizione umana non è una natura ma un ecosistema, è un gioco infinito e in perpetua evoluzione.
È chiaro che se si inizia a guardare all’umanità come un processo si spiega l’interesse crescente di Cheng nell’intelligenza artificiale, usata come playground per verificare i gradi di separazione tra la creazione di un mondo e quella di una mente (BOB, 2019, un’intelligenza artificiale che a ogni esibizione muta attraverso le interazioni dei visitatori). Difficile avere a che fare con arte che implichi domande così radicali. Come evolverà la nostra mente? Come accetteremo il cambiamento? Cosa crea un significato? Come fa una persona a trovare il proprio percorso in mezzo a un cambiamento tecnologico epocale? E se il ruolo dell’umanità non fosse altro che di essere la specie parente che partorirà una qualche sorta di specie umana artificiale?
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Soprattutto, e questo occupa la maggior parte di Fare mondi e la sua riflessione più operativa, immaginare la mente come un teatro in evoluzione, colonizzato da agenti diversi, consente a Cheng di scomporre il problema di come creare un mondo, l’impulso creativo che ne guida il processo e la psicologia del creatore nello stesso modo in cui si tratterebbe un problema ingegneristico.
Posta la definizione del problema, Fare Mondi, punto uno: “dire addio alla parola io”. “L’artista, scrive, è un intero equipaggio di stati mentali che vivono dentro di me”.
La ciurma è composta da Direttore, Emissario, Fumettista, Hacker. Ognuno di questi impulsi desidera, cerca qualcosa, ha una fisionomia precisa e contribuisce allo sviluppo del processo creativo giocando un ruolo preciso. Un’opera che voglia essere un mondo implica riconoscerli, evocarli, capire come aggiustare la rotta significa pensarsi non come una singola persona, ma come molteplicità, mondo “emerso dal sostrato del corpo biologico”; vuol dire saper scegliere quale ruolo ti è utile durante il processo creativo. Due: “creare una vita”, tre: “lasciarle la libertà di viversi”. Riuscire a conquistare la vitalità e poi concederle l’autonomia.
Risultato: un mondo. L’architettura di un futuro in cui è possibile credere. Cheng conclude immaginando una cultura che moltiplichi mondi come bolle di sapone che appaiono e scoppiano all’infinito, ma forse la sua idea più radicale non è alla fine.
Il modo in cui pensiamo al futuro, o meglio non riusciamo a pensare al futuro, generalmente è quello che Cheng attribuirebbe alla maschera del Direttore, solo uno dei diversi impulsi creativi che guidano il processo di immaginazione. Quell’impulso che di fronte alle difficoltà ci condanna al tentativo di addomesticare la realtà opponendo a un problema complesso una verità che ci consenta di tornare a casa nel mondo, “una verità su come l’ordine può sconfiggere il caos”.
Ma non c’è verità, non c’è casa, né soluzioni private al problema dell’ignoto; nessuna creazione risolve a cascata la vertigine meccanica di un sistema. Al nostro niente da dire opporre un futuro che sappia fare a meno del suo creatore, resistere alla tentazione di un significato stabile, firmato da chi l’ha pensato, per pensare nei termini di un gioco infinito “la cui forma viene scolpita giorno per giorno, su scala microscopica e macroscopica […] in una scala di grandezza che abbraccia intere esistenze”.
Non lo scrive, ma non è difficile immaginare lo pensi: ancora una volta, il futuro è il luogo dove essere nemici di sé stessi.
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Fotografia header: Emissaries, MoMA PS1, 2017. Photos by Studio LHOOQ, Pablo Enriquez, Ian Cheng