Un approfondimento su “Il collezionista di carte”, film presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, scritto e diretto da Paul Schrader, con Oscar Isaac, Tye Sheridan, Tiffany Haddish e Willem Dafoe, emblema di un tragitto autoriale capace di sondare le afflizioni che lacerano il tessuto sotterraneo di una persona e di un Paese attraversato da ferite insanabili, che si allargano e approfondiscono in una visione antropologica decisamente dark, spietata, anche se mai totalmente disperata…

Sempre sospeso fra dannazione e redenzione, ripetizione e rivelazione, perdizione e grazia, questo ennesimo lonely man nato dalle oscure ossessioni di Paul Schrader rappresenta uno specchio riuscito e potente del suo autore e del suo percorso (po)etico. E insieme è il fulcro di diverse trame archetipiche concentriche che si parlano fra loro e ci parlano a fondo, fornendo un’immagine cupa dell’America post-11 settembre, in cui non è per nulla semplice distinguere la vocazione per la verità e la violenza su di sé e sugli altri utilizzata per ottenerla. O, forse, la violenza è una componente intrinseca della ricerca stessa.

Nel personaggio di William Tillich (Oscar Isaac perfetto martire di se stesso, sacerdote bastonato e livido, elegante ombra di dolore in un abito grigio dalla consistenza simbolica del cilicio), che si fa chiamare nella sua apparente seconda vita di nomadismo immobile e di “contatore di carte” Will Tell (“conto carte per passare il tempo”), leggiamo la vocazione, la coerenza e insieme le forze ambivalenti che muovono il percorso schraderiano, dalle sceneggiature scorsesiane (Taxi driver, Toro scatenato, L’ultima tentazione di Cristo e Bringing Out the Dead) all’American Gigolo, un tragitto autoriale capace di sondare le afflizioni che lacerano il tessuto sotterraneo di una persona e di un Paese attraversato da ferite insanabili, che si allargano e approfondiscono in una visione antropologica decisamente dark, spietata, anche se mai totalmente disperata.

Con l’ombra costante, incombente eppure illuminante, di Robert Bresson (esempio di quello “stile trascendentale” che Schrader studioso riconobbe in lui, Ozu e Dreyer, e che informa tutto il suo cinema), e il segno indelebile della rigida educazione calvinista dell’autore (che, leggenda biografica vuole, gli ha interdetto il cinema fino alla maggiore età, precipitandolo nella sala buia tardivamente in forma di “trasgressione adulta“), Paul Schrader riscrive qui in maniera tutt’altro che scontata il mito di Guglielmo Tell (uomo chiamato, per lesa maestà, a giocarsi, con il tiro alla proverbiale mela, la vita del figlio, proiettandosi così – una seconda fraccia nel feretro – nella missione tirannicida), alle fondamenta di quella Svizzera che non a caso sarà culla dell’etica protestante, e lo fa transitando da Marco Aurelio (lettura carceraria del protagonista, le sue Meditazioni), Dostoevskij (evidentemente, Il giocatore) e Tolstoj (Ivan Il’íč, eco neppure troppo nascosta nel nome del protagonista). Ma certo c’è anche un riferimento ad Adamo (l’imprinting della lettura a ciclo continuo della Bibbia della Christian Reformed Church), come sottolinea didascalicamente la potentissima, insistita e michelangiolesca immagine finale (tanto si sa, lo spoiler è sempre la grazia nel cinema del regista di Grand Rapids), gesto di contatto e al contempo di distanza, comunione e separazione, moto di creazione del possibile e insieme gesto di condanna al dolore del mondo, trasfusione d’anima e decreto di mortalità.

Insomma non è certo il solito film sul fascino illusorio e tentatore di Las Vegas, con magari moralina annessa su ludopatia da tavolo verde e sul sogno americano edificato sulla città dei balocchi in mezzo al deserto. Si tratta di qualcosa di più complesso e di più profondo, di cui il gioco d’azzardo è solo un abito narrativo pertinente ed efficace, una metafora dell’esistenza e delle possibili prigioni dell’anima (e di chi è chiamato a leggerla, l’anima). Non si tratta neppure dell’ennesima parabola sul disturbo post-traumatico da stress, tipico di chi torna dalla guerra, anche se questo cuore di tenebra è più vicino al nucleo del film, che rifugge tuttavia i cliché psichiatrici istrionici tipici del filone, per sondare la hybris che può accomunare il tilt del giocatore che si crede imbattibile e la perdita di controllo dell’interrogatore/seviziatore che crede ciecamente nel suo potere di estrarre informazioni attraverso il dolore (in questo senso l’opera inscrive i suoi dilemmi nell’orizzonte del tragico).

Reduce dagli orrori di Abu Graib in veste di torturatore e da dieci anni di prigione, come mela marcia (ancora, caso vuole, il frutto del peccato originario) e dunque capro espiatorio di un sistema che resta impunito e attivo, William Tell porta su di sé il fardello della responsabilità e tuttavia non risolve con facili alibi o puro vittimismo il suo percorso espiativo, e, scontato il periodo di pena, approda nel demi-monde periferico del gioco d’azzardo, che dietro il luccichio delle luminarie è mostrato, senza moralismo ma con crudo sguardo, nella sua dimensione sisifica e spoglia, un supplemento di pena autoinflitto, una forma di rito e di ritiro.

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L’uomo conduce qui una vita monacale, rivestendo con corde e tele bianche “alla Christo” l’arredo delle squallide camere di motel che decide di abitare come celle, quasi a ricostituire e insieme ripulire le prigioni labirintiche e sporche dell’indicibile da cui non è mai venuto fuori (rievocate da un fish-eye deformante e da una scenografia circolarmente claustrofobica, creata ad hoc dal regista, che assediano le occhiaie del personaggio) e insieme la dimensione spartana e monotona del carcere come rifugio ultimo, casa-isolamento. In questo spazio sterilizzato interiore, il protagonista tiene il suo diario (ancora Bresson), e conserva in una borsa, sotto le vesti grigie e pretesche di una quotidianità rituale, i suoi antichi strumenti di tortura.

Nella (non) vita del protagonista fa irruzione allora una donna, che si offre di promuoverne il suo talento al tavolo ed è attirata dal mistero del suo stile di gioco umile e sottotraccia, e un ragazzo, che conosce invece il suo passato, e che cerca in lui la sponda per attivare un percorso di vendetta (lui è figlio di un compagno di torture del protagonista morto suicida, ed è incapace di perdonare l’abbandono materno; i due si riconoscono compagni di viaggio all’istante).

Attraverso questo doppio incontro s’innesca nello stesso tempo una possibilità d’uscita dalla trappola infernale (dissuadere il ragazzo dal proposito di vendetta, saldarne i debiti e convincerlo a perdonare; trovare nella donna una relazione, una fecondità e una luce che sembrano perdute) oppure solo un modo perverso in cui essa prende forma e acquosisce nuova fiamma? Così anche noi, che crediamo per un momento in quel patto che questo bizzarro padre spirituale e putativo e il figlio/fratello/fardello di dolore stipulano quasi come una provocazione (“Io torno a scopare, se tu torni da tua madre”) e sanciscono quando il giocatore, tornando però alla minaccia della tortura, costringe per paradosso il giovane sulla strada del perdono.

Per un momento Schrader ci fa cadere (come mele?) nell’ipotesi di un happy ending, per poi relegarci nella brutalità infernale della ripetizione del medesimo, una prigione dalla quale è impossibile evadere, un gioco in cui torturatore e torturato non sono più distinguibili, nei loro versi intollerabili (perché) fuori campo. Nondimeno il gesto finale immortalato dal film (una scena di colloquio che si ritrova, ricorrente, come immagine sintesi nel cinema di Schrader) sembra includere una possibilità di salvezza anche nelle sentenze più dure e definitive, nel riconoscere e sfidare i confini delle proprie prigionie, nell’affrontare i propri demoni ma al contempo anche la propria capacità d’amare e di ricevere amore (per quanto residuale), e aprirsi a qualcosa o qualcuno al di là dello specchio.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

nota: l’immagine di copertina è tratta dal sito di LuckyRed, casa di produzione del film

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