Nel film-documento “Marx può aspettare” Marco Bellocchio (Palma d’oro d’onore alla carriera al Festival di Cannes) apperecchia una tavola – famigliare, autoptica e spiritica – solo in apparenza minore, che ci invita all’ascolto. Confessione e scavo, bilancio e ricostruzione di un percorso… – L’approfondimento

Marco Bellocchio apperecchia una tavola – famigliare, autoptica e spiritica – in questo film-documento, solo in apparenza minore, che ci invita all’ascolto. Confessione e scavo, bilancio e ricostruzione di un percorso, Marx può aspettare bene racconta l’origine dello sguardo del Bellocchio (come lo squarcio aurorale buñueliano: ferita ed effrazione), quel vuoto, quell’assenza, quello spostamento d’attenzione, rimozione e incapacità di vedere, che formano e informano, di nascosto, dall’interno, la ricerca poetica e umana personalissima di una vita, meritatamente premiata quest’anno a Cannes con la Palma d’onore, riconoscimento raro, dato oggi al maestro di Bobbio, grato eppure refrattario alle canonizzazioni.

Così la scomparsa di Camillo, fratello gemello del regista morto suicida nel 1968, è la zona cieca, il fulcro muto, intorno a cui ruota la narrazione di questo confronto di molteplici verità, di questo ascolto del proprio limite, a tratti lieve e giocoso, in alcuni aspetti disarmante e impossibile, che rifugge il senso colpa e la fuga nell’illusione tanto quanto cerca consapevolezza e responsabilità, ammettendo le proprie lacune.

“A livello degli affetti c’era il deserto, ognuno pensava a sé stesso”. A un certo punto è il regista a centrare con spietata onestà questo spazio dolente, eppure, nonostante le testimonianze dense e sofisticate dei fratelli (l’intelletuale Piergiorgio, fondatore dei Quaderni Piacentini, il sindacalista Alberto, il regista Marco, e la voce frammentata e urgente della sorella sorda…) sono paradossalmente i punti di vista esterni al nucleo famigliare, quelle dell’amico gesuita Virgilio Fantuzzi e della sorella della fidanzata del giovane e tormentato Camillo, schiacciato com è fra le urla del fratello matto (quello che ricordiamo gridare la sua disperazione in L’ora di religione), la religiosità cieca della madre e i successi intelletuali e artistici dei fratelli geniali, a offrire le testimonianze più illuminanti e rivelatrici, forse avvantaggiate da una prospettiva esterna al clan, come accecato, nomen omen, ché l’occhio bello è quello acuto che sa vedere oltre ma può anche essere quello che prova a rendere bello, edulcora, non sa vedere con attenzione amorosa proprio chi gli è più prossimo.

Di questo paradosso, in cui l’eredità della Fede e gli abbagli dell’Ideologia possono rivelarsi smarrimenti in cui il singolo viene letteralmente perso di vista (la battuta “Marx può attendere” è il retort geniale al fratello che gli suggerisce l’impegno rivoluzionario come scorciatoia per la salvezza dell’anima), il Camillo fantasmatico, rievocato dal racconto di chi lo ha “conosciuto bene”, quell’immagine carrurata nelle pellicole alatoriali e dalle foto d’epoca, rielaborato incessantemente nei frammenti dell’immaginario del regista, finisce conservate un profondo nucleo sfuggente.

Quel corpo dedito all’allenamento che si toglie la vita, quello sguardo luccicante di sfida eppure segnato dalla tristezza e dall’ineguatezza, transita infine di spalle su quel ponte (quello di Bobbio, in questo caso) che il cinema (di Bellocchio, e di pochi altri) sa ancora costruire verso l’altrove. Le immagini in movimento sono allora una possibilità di incrociare i propri fantasmi e, finalmente, direbbe Amleto, dargli il benvenuto.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

 

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