Il lavoro, così come la protagonista di “Il concorso” di Sara Mesa aveva immaginato, forse non esiste, perché la realtà immaginata non esiste. L’autrice spagnola di “Un amore” e “La famiglia” racconta del fallimento che possiamo provare a non riuscire in qualcosa, a non trovare subito la strada giusta, e del dolore del ritrovarsi inutilmente impiegati, ma anche della naturalezza – inaccettabile? Sorniona? – con cui riusciamo ad adattarci a un contesto, anche se questo sembrava ostile…
Si capisce di essere in un romanzo di Sara Mesa perché la tensione tra le righe non riguarda quasi mai la trama, che scivola via metodica e ritmica, il ciclo dei mesi e delle stagioni, bensì la lettura stessa che si appoggia sul nostro senso di vuoto che percepiamo forte e chiaro mentre leggiamo.
Ne Il concorso la protagonista è alle prese con il tentativo di trovare spazio per se stessa, per il suo futuro; costretta a ritagliarselo, segue un filo sottotraccia che si annoda alla prima riga della storia, si arriccia sui dettagli e si inspessisce quando la protagonista deve fare i conti con ciò che sognava o immaginava del lavoro d’ufficio e ciò che, invece, si trova di fronte.
C’è sempre un tentativo incompiuto di comprendere la realtà e di seguire, tra le sue sfumature, un prontuario per modificarla, per renderla migliore, moralmente più giusta.
Il concorso di Sara Mesa (in libreria per La Nuova Frontiera nella traduzione di Elisa Tramontin) è un romanzo circolare: la protagonista, Sara Villalba, si trova alle prese con un primo impiego in un ufficio della pubblica amministrazione. Ci finisce suo malgrado, confessando di non avere particolari abilità né competenze, senza avere bene deciso il motivo, senza riuscire a metterci la determinazione giusta.
Conosce dei colleghi, Beni, il Monago; ha una responsabile, Teresa; si interroga su chi sono le persone che sente prendere posto tutti i giorni e con alcuni di loro stringe un legame, fatto di routine e abitudini, tra la scrivania e il bar dell’ufficio.
La storia inizia con il primo giorno di lavoro della protagonista, fatto di solitudine e inconcludenza: “Era una fredda mattinata d’inverno, aveva da poco fatto giorno, la luce mi fece pensare alla consistenza porosa della cera. Ebbi la sensazione di essermi introdotta di soppiatto in un edificio disabitato. Di occupare quel posto per errore. […] Avevo il computer e avevo il telefono. Avevo una scrivania grande, una cassettiera, una sedia da ufficio, una ciabatta multipresa. Finestre non ne avevo e, cosa più inquietante, istruzioni nemmeno”.
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Subito la descrizione di rituali quotidiani, persone impegnate in compiti fumosi, totale mancanza di informazioni danno la sensazione di un luogo inerme, lento e implicitamente inconcludente.
La storia inizia nella routine assoluta: le persone sono sedute, letteralmente e metaforicamente, in ruoli e combinazioni di giornate sempre uguali, e Sara è un elemento di disturbo che deve trovare la costanza; poi prosegue con una fase di accettazione e di assestamento, in cui la protagonista cerca connessioni, si inserisce nelle vite altrui e cerca confronti, conosce Sabina, una ragazza a cui si aggrappa con l’intento di specchiarsi e a cui si lega profondamente e in modo quasi morboso, per poi trovarsene travolta.
Sara si sente fuori posto: è una ragazza assennata, che si vergogna delle sue prime giornate di lavoro in cui non ha cose da fare. Addirittura, se ne lamenta – con sé stessa, al telefono con sua madre – e poi ne se vergogna e questo la rende diversa dagli altri, una outsider tra gli impiegati.
Le sue prime giornate alla scrivania passano a domandarsi del lavoro altrui: Sara origlia i suoni da uffici semivuoti, cerca di carpire chi fa cosa e come e solo quando finalmente si dà l’avvio all’OMPA, un procedimento amministrativo nuovo rivolto alla cittadinanza, lei inizia a trovare un posto per sé: la nuova procedura, infatti, deve essere testata prima e gestita operativamente poi e Sara ne diventa l’unica titolare.
È questa la prima svolta della storia: passa dalla noia al lavoro e anche se è poco, anche se l’OMPA non viene utilizzato abbastanza dai cittadini, finalmente sente che qualcosa può cambiare per il meglio, per il semplice fatto di avere una incombenza, per la sola sensazione di sentirsi utile.
«Fu così che cominciò l’attività, se per attività s’intende l’arrivo di anelati reclami, un rachitico stillicidio in realtà, uno o due alla settimana al massimo, tutti di funzionari o persone legate a funzionari o di associazioni di quartiere o di rappresentanti di partiti politici o di organizzazioni locali o di sindacati.»
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Il concorso, dell’autrice madrilena, racconta del fallimento che possiamo provare a non riuscire in qualcosa, a non trovare subito la strada giusta e del dolore del ritrovarsi inutilmente impiegati, ma anche della naturalezza – inaccettabile? Sorniona? – con cui riusciamo ad adattarci a un contesto, anche se questo sembrava ostile. Sara è impaziente nei confronti del lavoro, dei colleghi e verso il tempo e lo spazio che trascorrono suo malgrado. La monotonia è scandita con regole che non comprende, di cui ha diffidenza e da cui tenta di scostarsi, finché non accade qualcosa che la cambia per sempre e la fa sentire partecipe.
Ogni nuovo arrivato è qualcosa da cui fuggire all’inizio: c’è chi non le parla subito e la saluta a malapena, chi la fa attendere, chi la tratta come una scocciatura, ma c’è anche chi tenta un avvicinamento. Si tratta di Beni, funzionaria con cui Sara condivide l’interesse per la poesia e con cui istaura un rapporto di vicinanza. È lei che la sprona a prepararsi per il concorso, con il quale potrà diventare funzionaria della pubblica amministrazione e costruirsi un futuro.
La precarietà del ruolo di Sara, temporaneo fino a prova contraria, fino al concorso, è un simbolo di attaccamento a una condizione precisa. Sara è sempre al margine, le piace rimanere sulla soglia, non sa se entrare definitivamente o meno e si lascia trasportare da distrazioni di vario tipo.
Nel romanzo non abbiamo altri elementi della vita di Sara se non quelli riguardanti il suo lavoro. Sappiamo tutto di lei attraverso lo spazio dell’ufficio, attraverso le piccole ribellioni che pian piano inizia a prendersi. Conosciamo il suo limite – o l’assenza di esso – e la vergogna iniziale si trasforma in adesione alla routine, alle regole, alle minacce, alle ombre che all’inizio aveva provato a decifrare e che a un certo punto si rassegna a non comprendere, cedendo a una forma di apatia: «Non identificare il cambiamento mi mise in uno stato d’allerta, sul chi vive, come in procinto di raggiungere un qualche tipo di conoscenza che doveva aggirarsi lì da quelle parti, molto vicino. Forse davanti al mio naso, ma che per qualche motivo non ero ancora pronta a comprendere.»
I personaggi che l’autrice (classe ’74, di Un amore – finalista al Premio Strega Europeo – e La famiglia) mette accanto alla protagonista hanno ruoli ben definiti e caratterizzazioni precise, hanno soprannomi, sono caricature e li conosciamo attraverso un senso di straniamento prima, di tolleranza poi e di indulgenza alla fine. Compiono un arco narrativo tale solo perché Sara lo compie. Non sapendo se vuole o meno diventare una di loro, le tenta tutte e attraverso tutte le prove a cui si sottopone, in modo più o meno consapevole, capisce finalmente chi sono quelle persone, cosa fanno e perché.
Il lavoro, così come lo aveva immaginato forse non esiste, perché la realtà immaginata non esiste. Scrive Mesa: “Da bambina provavo una strana attrazione per i moduli. Destinare una casellina a ogni cosa, senza margine di interpretazione né di errore, e compilare tutto con una grafia pulita e chiara, proprio come si raccomandava nelle intestazioni, mi sembrava seducente quanto risolvere un cruciverba”.
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La protagonista si interroga costantemente su chi è e cosa vuole, e lo vorrebbe chiedere a chiunque in ufficio. Soppesa le loro vite come fa con la sua e il concorso le sembra quasi una scusa per essere indaffarata. Sembra quasi che il suo unico scopo sia di far passare il tempo nel modo migliore possibile, che l’esistenza così come l’aveva immaginata avesse un senso solo riferito alle ore della sua giornata. Sara si concentra sul senso del suo lavoro molto più che sul lavoro in quanto tale e arriva a ribellarsi ad esso in modo adolescenziale, quasi per trovare un senso a sé stessa. Va contro gli adulti, alla vita adulta, alle responsabilità, non pensa alle conseguenze e sul più bello, quando decide che le importa c’è un altro angolo da girare che contiene una sorpresa.
Sara Mesa, con il solito stile preciso e asciutto, con una prosa esatta e meticolosa, ci mette di fronte a manipolazioni e sfumature tra verità e veridicità e ci mette davanti a una scelta, riservata ai personaggi marginali ma fondamentali, gli unici che possono operare piccole rivolte: il concorso è solo un mezzo per attuarle.
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Fotografia header: Sara Mesa nella foto di Sonia Fraga