“Un amore” di Sara Mesa è breve e fulminante: c’è una persona sola, e dei legami che non si solidificano. C’è una bellezza bizzarra nella sua nudità: siamo attratti dalle storie che parlano di incomunicabilità perché siamo consapevoli che una larga parte di noi è indicibile…

Quale sentimento può nascere in una campagna desolata, in un agglomerato di case e strade scarsamente illuminate, in un posto dove l’esistenza sembra essersi messa in pausa?

Mettersi in pausa è perlomeno quello che desidera Nat, che si trasferisce a La Escapa dopo essersi licenziata e aver preso un lavoro da traduttrice.

Su Wikipedia c’è un posto che si chiama La Escapa: al momento registra zero abitanti, perché nessuno rimane lì tutto l’anno. Nel borgo del romanzo di Sara Mesa, Un amore (La Nuova Frontiera, traduzione di Elisa Tramontin e illustrazione di copertina di Elisa Talentino), invece chi ci abita stabilmente c’è, e poi ci sono dei vicini che vengono solo nel fine settimana, per far correre i bambini nel prato. Nat fa amicizia con quello che chiamano l’hippie, senza capire bene da dove venga il soprannome, ma è un’amicizia che non è mai soddisfacente, da subito gravata di giudizio, paternalismo, silenzi.

Conosce altre persone: la strega, il tedesco. Persone che vivono porta a porta, ma ognuna è come una singola città, con le proprie vie e soprattutto con la propria lingua.

Un amore, Sara Mesa

Un amore è breve e fulminante: c’è una persona sola, e dei legami che non si solidificano. C’è lo sforzo di trasportare un’opera scritta da una lingua a un’altra, e l’incapacità di mettere a fuoco dei sentimenti che diventano brucianti, ossessivi.

La casa intorno a Nat si accartoccia, marcisce – sotto lo sguardo a volte insultante, a volte apertamente ostile e violento del padrone di casa – nessun motivo la lega davvero a quella terra indifferente e poco ospitale, eppure lei prova a resistere, ad addomesticare se stessa, insieme al cane che le è arrivato in dono il primo giorno e che ha chiamato con il poco augurale nome di Fiele.

La Escapa è uno spazio liminale che porta in sé l’illusione che possa succedere di tutto, senza avere conseguenze – è un’apparenza, un abbaglio del sole rovente, ma dentro i suoi confini Nat si lascia andare all’istinto. La scrittura di Mesa non fa sconti: è asciutta, non ha bisogno di affabulare nessuno.

Nella realtà che ha messo in piedi c’è già tutto, o meglio, manca tutto, e quella mancanza pesa su ogni pagina: il senso di comunità ogni tanto sbandierato da uno dei personaggi è effimero, sono tutti soli, e Nat, l’estranea, ancora di più.

C’è una bellezza bizzarra nella nudità di Un amore: siamo attratti dalle storie che parlano di incomunicabilità perché siamo consapevoli che una larga parte di noi è indicibile.

Nat dovrebbe tradurre, dovrebbe farsi carico di un passaggio di senso, ma continua a sfuggirle il quadro generale e quali siano le regole, non solo grammaticali: si interroga sui significati delle parole senza arrivare a capire come queste parole si fanno dialogo. Il suo incartarsi su un particolare modo di dire del tedesco, una figura solitaria tra i solitari di La Escapa, mette in moto una catena di eventi che la porta a confrontarsi con un desiderio inesplicabile.

Finché è immersa nella realtà rarefatta di La Escapa non è possibile per Nat venire a capo delle questioni che si porta dietro, né quelle su chi la circonda né quelle su se stessa: come in ogni contesto, deve trovare la forza di sottrarsi alle dinamiche in cui rimane invischiata per poterle osservare dall’alto.

Mentre l’ossessione si fa largo in lei, il vuoto da cui è circondata si allarga, disorienta chi legge, che non sa mai cosa aspettarsi, ma rimane incollato.

Entrando in Un amore si diventa piuttosto parte del paesaggio, si osserva senza entrare in contatto, formulando le proprie ipotesi, tentando una connessione che svanirà dopo poche pagine. Non trovare appigli per una catarsi è un’esperienza che strania e solletica. Poi, appoggiato il libro, sarà più lampante come, per tutto il tempo in cui ci siamo sentiti migliori dei personaggi che incontravamo sulla pagina, siamo stati esattamente come loro.

Fotografia header: (c) Sonia Fraga

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