In un panorama letterario in cui il tema ecologico sta prendendo sempre più spazio, “Il senso della natura”, l’ultimo lavoro di Paolo Pecere, filosofo e docente universitario, si presenta come un vero e proprio viaggio attraverso il tempo e lo spazio. Partendo dalla metropoli per eccellenza, New York, per arrivare alle Galápagos, al Borneo, fino al Ruanda e al Tibet, l’autore accompagna il lettore in un viaggio attraverso luoghi in cui il contatto con la natura appare ancora tangibile, esplorando quel legame per ricostruirne il senso… – L’intervista a Pecere, che regala a lettrici e lettori del nostro sito alcune foto scattate in Amazzonia (“L’arrivo nella foresta mi ha colpito nel corpo, col suo assalto sensoriale, acquoreo, con la sua gente, con il coro di miliardi di esseri viventi che assorda e spossa durante la notte”)

Il senso di Paolo Pecere per la natura

Il senso della natura (Sellerio) è il nuovo saggio di Paolo Pecere. Lo scrittore, filosofo e professore presso l’Università di Roma Tre, già autore, tra gli altri, di Il dio che danza (Nottetempo, 2021), Risorgere (Chiarelettere, 2019) La coscienza e l’immaginario (Mimesis Edizioni, 2015) e La filosofia della natura in Kant (Edizioni di Pagina, 2009) torna con un diario di viaggio che è anche una guida per riscoprire il nostro legame con il pianeta che abitiamo.

I sentieri che l’autore segue sono sette: la via delle città, la via dell’equilibrio, la via dell’acqua, la via degli animali, la via delle piante, la via dell’aria e la via del ritorno. Ogni strada battuta è un legame, la riscoperta di un contatto.

Ne abbiamo parlato con l’autore.

Il senso della natura. Sette sentieri per la Terra

Pecere, in che modo la ricerca di un senso si connette con la necessità del viaggio?
“Il viaggio è una presa di distanza dal luogo in cui si vive, dal presente, dall’assetto psichico del nostro quotidiano. Questo allontanamento – a meno di non chiudersi nella gabbia di un turismo che si sforza di conversare le abitudini familiari – implica un estraniamento linguistico, culturale, che mette in gioco il senso delle attività quotidiane. Ma è prima ancora il senso inteso come esperienza sensoriale, corporea, a essere messo in gioco”.

Per questo il viaggio?
“Credo che solo viaggiando si possano rievocare delle potenzialità sopite della nostra sensibilità che risultano decisive per il nostro rapporto con gli altri esseri viventi e l’ambiente, e possono restituirci conoscenze e emozioni perdute”.

Le città, nel suo libro, sono la prima tappa. In che modo la vita nelle città ci ha allontanati dalla natura?
“L’ambiente urbano tende a ridurre l’impegno dei sensi a alcune funzioni di riconoscimento di segni: vediamo segnali stradali, ristoranti, negozi, parchi; siamo assuefatti ai segni che indicano la disponibilità di cibo, i luoghi in cui ripararsi, incontrare gente, divertirsi, icone che spiccano sul fondo insignificante di suoni e odori. Non vediamo più l’ambiente in cui si è evoluta la nostra specie per decine di migliaia di anni”.

E se ci allontaniamo dalla città?
“Appena un nativo urbano si trova in una foresta, i sensi tornano tesi e attenti, ma muti: non sappiamo più analizzare il cosmo di colori, suoni, odori e sensazioni tattili che non è ricoperto dal rumore bianco della città. Questo produce l’illusione che la città sia lo scenario della nostra vita sul pianeta, mentre la città dipende strettamente da quell’ambiente extraurbano, non può vivere senza di esso”.

I cambiamenti climatici condizioneranno il nostro futuro prossimo sul pianeta. Il dibattito sul tema sembra aver risvegliato una coscienza ecologista che sta prendendo sempre più piede nel dibattito pubblico. Secondo lei ci stiamo riavvicinando alla natura o ne abbiamo solo paura?
“Da quanto esiste la civiltà industriale urbana, esiste una nostalgia per la natura. Questo non ha implicato un riavvicinamento alla natura, che è rimasta spesso un tema estetico, un altrove da selvaggio vagheggiare, e forse temere. Oggi la consapevolezza del cambiamento climatico può cambiare le cose, ma non è certo che lo farà, perché l’attrattiva della vita urbana con le sue comodità è forte”.

E la paura invece?
“In alcuni contesti ambientali, anche la paura può giocare un ruolo per risvegliare la consapevolezza di un legame vitale con la natura. Ma anche in questo caso, le cose possono andare diversamente: all’arrivo dell’uragano Katrina, alcuni abitanti della Florida spararono con le loro armi da fuoco contro questo nemico, e lo stesso accade abitualmente se un animale selvatico aggredisce un umano”.

Cosa fare quindi?
“La via migliore per recuperare una dimestichezza con la Terra e i suoi altri abitanti è la conoscenza, l’educazione estetica che può essere alimentata da documentari e libri, escursioni e viaggi, preludere alla fondazione di nuovi rapporti con gli elementi e i viventi”.

Ci racconta una delle esperienze più importanti che le è servita per scrivere questo libro?
“La prima discesa nel bacino amazzonico. Per una vita avevo sentito parlare del fatto che ogni minuto veniva deforestato l’equivalente di diversi campi da calcio, e che questo era un male. Quella notizia ha fluttuato indifferente nella mia mente per una vita, come se riguardasse un altro mondo, non il mio. L’arrivo nella foresta mi ha colpito nel corpo, col suo assalto sensoriale, acquoreo, con la sua gente, con il coro di miliardi di esseri viventi che assorda e spossa durante la notte. Avevo una fobia per gli insetti, detestavo la pioggia e il fango, temevo di tuffarmi in acque torbide rigogliose di vita. Poi è stato tutto diverso: ho sentito di dipendere da quel luogo come l’intero pianeta”.

Ci regala anche una fotografia?
“Vi regalo alcune foto scattate in Amazzonia. Gli alberi, le lagune, i popoli nativi che sentono la foresta. La foto è una riduzione dell’esperienza, che mi aiuta a rievocarla: non so scegliere quella che vi può aiutare a immaginare quel luogo magico”.

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