Nonno, padre, figlio, marito, uomo con l’intuito per gli affari e la capacità di cogliere le occasioni più vantaggiose: il 95enne Ettore è appena morto, ma continua a pensare. Tra interrogativi e riflessioni sulla morte, ripercorre i ricordi di eventi che lo hanno distolto dal pensiero della fragilità umana. Marcello Fois torna con “L’immensa distrazione”, un romanzo familiare ed esistenziale al tempo stesso, che attraversa la storia e generazioni diverse
Quando il 21 febbraio 2017 il novantacinquenne Ettore Manfredini si “sveglia”, scopre di essere appena morto. È da questa singolare presa di coscienza che i pensieri di Ettore si muovono su un duplice binario.
A tratti torna al passato, ripercorrendo i ricordi che hanno segnato la sua esistenza e quella dei suoi cari; in altri passi medita filosoficamente su cosa significhi vivere e morire.
Ne L’immensa distrazione (Einaudi), Marcello Fois narra le vicissitudini di una famiglia attraverso la storia, tra conflitti e rappacificazioni; intanto indaga quegli interrogativi esistenziali che ognuno di noi, specialmente con la maturità, sente farsi più imperanti. E fa questo contando su un narratore esterno onnisciente, che scardina le tendenze degli ultimi anni e, viceversa, omaggia la tradizione:
“Morire […] è come diventare un narratore onnisciente sia della propria vita, sia di quella degli altri, fino a vedere tutto ciò che non si è vissuto in prima persona”. (p. 110)
Questa è un’importante chiave di lettura per capire che la focalizzazione sulla vicenda è sempre e comunque calata su Ettore, anche quando viene raccontata la vita dei nipoti o vengono ripercorsi persino i sogni di qualche familiare, perché “essere morti è come scrivere una storia: ci si prende ogni licenza possibile” (p. 62).
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Terzo figlio dei Manfredini, quello “venuto meglio” secondo la madre e il padre, Ettore non ha avuto occasione di studiare per via delle condizioni economiche molto modeste della sua famiglia e si è sempre dato da fare, distinguendosi nel macello kosher della famiglia Teglio. Con le leggi razziali, i Teglio se ne vanno e cedono il mattatoio proprio a Ettore, per evitare le confische da parte dei fascisti. Non solo: i Manfredini si offrono di ospitare una delle figlie dei Teglio, Marida, fingendo che sia una parente alla lontana. Marida non saprà niente per anni della sua famiglia, fino a quando tra le pagine dell’enciclopedia troverà un’inquietante verità.
Quando poco tempo dopo Ettore sposa Marida, è ben chiaro che “non si era trattato di un matrimonio d’amore, ma di riconoscenza” (p. 56).
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Nella famiglia Manfredini – si tenga bene a mente nel leggere il romanzo – l’amore non è il collante che tiene assieme; se c’è, è qualcosa di cui godere appieno, con la consapevolezza che è fugace. Ciò che invece tieni uniti, anche quando l’amore e la passione sono scemati, è la necessità di far fronte alle difficoltà, che si tratti di minacce provenienti dall’esterno o di problemi interni alla famiglia: “A pensarci, nella famiglia Manfredini era sempre stato così: i momenti di pace non erano altro che istanti per riprendere fiato“. (p. 75)
Questo affannarsi per restare a galla, facendo gli affari giusti perché il macello prosperi e le case si allarghino, è una delle occupazioni principali di Ettore. E sua figlia Enrica gli subentrerà quando sarà il caso con ben più abnegazione di quel primogenito, Carlo, per cui Ettore non ha mai sentito trasporto, solo un “doveroso affetto” (p. 91).
Dei quattro figli avuti da Marida – Carlo, Enrica, Edvige e Ester –, delle loro scelte di vita e dei loro affetti scopriremo al momento ritenuto più opportuno, perché il narratore onnisciente è un deus ex machina che con un “ma non ne parleremo ora” o un “di lei per il momento è meglio tacere” scandisce e gestisce il tempo del racconto.
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Il dramma della Shoah visto dagli occhi di chi resta, l’angoscia di una malattia mentale che minaccia costantemente di stroncare un giovane talento, la vergogna per scelte giudicate immorali dal resto della comunità, il dolore per la morte di tanti familiari: queste sono solo alcune delle più gravi vicissitudini che scuoteranno la vita di Ettore e dei suoi. Ma ci sono anche tanti altri imprevisti, impegni e incontri minori che porteranno i Manfredini a distrarsi dal trascorrere del tempo:
“Vivere è un’immensa distrazione dal morire. E perciò un sacco di tempo lo si spende a fare, pensare, agire, cose indifferenti. Così può accadere che non si ami abbastanza, né si odi abbastanza. Può capitare persino di investire un’immensità di energie a trovare soluzioni inutili per problemi inutili” (pp. 78-79).
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Questa è la consapevolezza acquisita dall’Ettore-appena-morto, straniato dal tempo, non certo quella dell’Ettore-capofamiglia, inserito nel rapido susseguirsi degli eventi. E noi lettori assistiamo a questa duplice dimensione: quella ragionativa, filosofica, dell’Ettore-appena-morto, in cui il tempo non conta più, e quella concitata, quando c’è ancora tutto da fare per Ettore e la sua famiglia. E il ritmo della narrazione, di conseguenza, cambia: a passi di riflessione, più distese e quasi sospese, fuori dal tempo, seguono pagine piene di eventi, come se Ettore vedesse “la vita che si agitava febbrilmente al suo fianco” (p. 267).
Così anche la lettura di questo romanzo è un’immensa distrazione dalle nostre giornate, misurandoci con la fragilità umana: Marcello Fois sa bene come incantare grazie all’uso di qualche aggettivo ben calibrato e quando, viceversa, lasciare che siano le azioni dei personaggi a prendere spazio.
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Fotografia header: L'immensa distrazione di Marcello Fois, foto di Daniela Zedda